di Marina Crisafi - L'avvocato non deve improvvisarsi provetto "Sherlock Holmes" e seguire le tracce dell'imputato difeso d'ufficio che, una volta scarcerato, si è reso irreperibile. In tal caso, è legittimato a pretendere il pagamento della parcella nei confronti dello Stato.
È questo il principio stabilito dalla recente ordinanza n. 13132/2015, con la quale la sesta sezione civile della Cassazione ha accolto il ricorso di un legale che pretendeva il pagamento per l'attività professionale prestata quale difensore d'ufficio nei confronti di persone irreperibili, direttamente dal Ministero della giustizia.
Nel merito, la domanda di liquidazione dell'avvocato era stata rigettata dalla Corte d'Appello di Trento, sull'assunto che i soggetti difesi erano domiciliati presso il suo studio e si erano resi di fatto irreperibili soltanto in un momento successivo, avendo, dunque, egli tutto il tempo per poter pretendere il pagamento dei propri compensi e non ricorrendo, pertanto, il presupposto richiesto dall'art. 117 del d.p.r. n. 115/2002.
Ma il difensore non ci sta e ricorre in Cassazione, deducendo violazione ed erronea applicazione degli artt. 116 e 117 del d.p.r. e omesso esame del fatto decisivo relativo all'irreperibilità di fatto degli imputati, considerato inoltre che questi ultimi erano diventati irreperibili persino per le forze dell'ordine che, dopo "vane ricerche", non erano riusciti a rintracciarli.
Per il Palazzaccio, l'avvocato ha ragione.
L'art 117, precisa innanzitutto la Corte, non chiarisce se con la nozione di irreperibile, si intende "solo il soggetto che tale sia stato dichiarato nel corso del procedimento penale con apposito decreto del giudice, ovvero anche la persona che, pur rintracciata nel procedimento penale, venga successivamente a trovarsi in una situazione di sostanziale irrintracciabilità". Per cui, se è vero che per la ratio sottesa al combinato disposto di cui agli artt. 116 e 117 del d.p.r. 115/2002 il difensore è tenuto ad esperire le procedure per il recupero dell'onorario e delle spese, non potendo queste essere poste a carico dell'erario solo per l'assunzione officiosa dell'incarico professionale, è anche vero che "se tali procedure non sono possibili perché se il debitore non rintracciabile è, appunto, irreperibile, non può esigersi che il difensore esperisca alcuna attività in tal senso, questa essendo del tutto vanificata da tale condizione del debitore medesimo, e le spese, in tal caso, vanno poste a carico dell'erario, che ‘ha diritto di ripetere le somme anticipate da chi si è reso successivamente reperibile'.
Ne discende che l'"irreperibilità" afferisce, dunque, ad una situazione sostanziale di fatto che impedisce "di effettuare procedura alcuna per il recupero del credito professionale". Per cui, secondo gli Ermellini, del tutto non pertinenti appaiono i criteri seguiti dal giudice della liquidazione che avrebbe dovuto eseguire un unico accertamento: ovvero se il difensore, prima di richiedere il compenso con la procedura ex art. 117, avesse assolto l'onere, su di lui incombente, al fine di considerare irreperibile di fatto i predetti soggetti. E soltanto laddove i loro dati anagrafici fossero conosciuti con sicurezza "senza necessità - pertanto - di particolari ricerche o attività che non siano esigibili da un normale creditore" sarebbe stato onere dell'avvocato "esperire ricerche a mezzo di accertamenti, anche tramite l'ufficio stranieri della Questura, onde stabilire se sussista irreperibilità nel senso sopra precisato".
Per cui ricorso accolto e parola al giudice del rinvio che dovrà uniformarsi a tali principi, ponendo molto probabilmente la parcella dell'avvocato a carico dello Stato.
Qui di seguito il testo dell'ordinanza.
Cassazione Civile, testo ordinanza 13132/2015