Il Codice deontologico forense prevede, in capo ai legali, un dovere di verità circa le dichiarazioni rese in giudizio, delle quali abbiano diretta conoscenza e che siano presupposto per un provvedimento del magistrato.
La professione forense, oltretutto, secondo quanto previsto dall'art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, che detta la disciplina del relativo ordinamento, va esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza.
Ogni parte processuale ha quindi il diritto di criticare il legale che a tali principi non si adegui.
Tenendo conto di ciò, la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 31674 del 21 luglio 2015, ha colto l'occasione per specificare che non può essere considerato diffamatorio il comportamento di una donna che, soggetta a decreto ingiuntivo, denunci presso il Consiglio dell'ordine di appartenenza l'avvocato del ricorrente per aver, a suo dire, prodotto a sostegno del ricorso documenti falsi, tali da far cadere in inganno il giudicante.
In riforma delle sentenze emanate nei precedenti gradi di giudizio, considerate errate per aver analizzato la legittimità del comportamento della donna soffermandosi esclusivamente sulle espressioni utilizzate al fine di denunciare il comportamento del legale, la Suprema Corte ha invece ritenuto indispensabile un'analisi che si addentri nel merito della questione, attraverso una verifica dei documenti prodotti.
Solo sulla base di tale indagine sarà possibile stabilire se la donna abbia davvero tenuto un comportamento diffamatorio nei confronti del legale o se il suo comportamento vada piuttosto scriminato dall'art. 51 del codice penale.
Qui di seguito il testo della sentenza.
Vai al testo della sentenza n. 31674/2015 della Corte di Cassazione