di Lucia Izzo - Si prospetta il reato di truffa per colui che consegni a titolo di pagamento, all'esito di una transazione commerciale, un assegno di conto corrente bancario postdatato ingenerando in altri l'affidamento circa la futura provvista finanziaria, rivelandosi poi i titoli privi di copertura.
Per la seconda sezione penale della Corte di Cassazione, la condotta dell'agente integra un raggiro idoneo a trarre in inganno il soggetto passivo inducendolo alla conclusione del contratto.
Con la sentenza n. 33441/2015 (qui sotto allegata) i giudici di Piazza Cavour hanno deciso sul ricorso proposto da un imprenditore commerciale che la Corte di Appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, aveva dichiarato colpevole del reato di truffa aggravata per aver consegnato assegni postdatati e privi di provvista per il pagamento di materiali utili alla propria ditta.
I giudici di merito rilevano a carico dell'imputato, altresì, l'aver sottaciuto le reali condizioni della sua impresa, poi dichiarata fallita, rappresentandosi come contraente degno di credito.
Gli Ermellini precisano che in tema di truffa contrattuale, sono i comportamenti maliziosi dell'agente atti ad ingenerare un ragionevole affidamento della vittima circa il regolare pagamento dei crediti ad integrare l'elemento materiale del reato, laddove di norma il pagamento di merci mediante assegni scoperti non rappresenta un elemento della fattispecie.
Il ragionevole affidamento sull'onestà provocato dalle ampie rassicurazioni fornite alla vittima, rappresenta il quid pluris rispetto al mero inadempimento civilistico, affinché si configurino l'artifizio e il raggiro previsti dall'art. 640 c.p.
In aggiunta, proprio riguardo il caso specifico dell'assegno postdatato, la giurisprudenza ritiene che integri il delitto di truffa "il pagamento attraverso tali titoli fornendo contestualmente al prenditore rassicurazioni circa la disponibilità futura della necessaria provvista finanziaria.
I giudici della Corte hanno individuato nel caso di specie i sopra indicati elementi, rafforzando il proprio convincimento circa la sussistenza del fatto-reato anche sotto il profilo dell'elemento psicologico dell'imputato, in quanto la società acquirente andò incontro a fallimento dopo non molto tempo e lo stato di decozione della stessa non poteva essersi verificato in pochi mesi, pertanto l'imprenditore doveva esserne a conoscenza al momento della stipulazione del contratto, tacendo simile circostanza ai venditori.
Accogliendo il ragionamento posto in essere dalla Corte d'appello, i giudici di Cassazione hanno dichiarato il ricorso inammissibile, statuendo sulle spese e confermando la condanna a sei mesi di carcere e 160 euro di multa, nonché il risarcimento da liquidarsi alla parte civile.
Cassazione, II sez. Penale, sent. 33441 2015