di Marina Crisafi - Per 50 anni ha creduto di avere un padre e ha trasmesso il suo cognome anche ai propri figli. Poi, di colpo, si è ritrovato senza un genitore né un'identità e per giunta senza un euro di risarcimento per il danno subito. Finchè nella vicenda è intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 16222/2015 (qui sotto allegata), ha riconosciuto la violazione dei diritti al nome, alla dignità e all'identità personale, sancendo il sacrosanto diritto dell'uomo e dei suoi figli al risarcimento per i danni subiti.
La storia portata all'attenzione della S.C. ha origine nel lontano 1943, quando un soggetto aveva riconosciuto la paternità del figlio, il quale, naturalmente, ne aveva acquisito il cognome. Oltre 50 anni dopo, dalla consulenza tecnica d'ufficio, emergeva l'incompatibilità genetica tra i due soggetti e dunque l'illegittimità della filiazione.
In primo grado, all'ex figlio e i nipoti non veniva riconosciuto alcun diritto al risarcimento perché ormai era passata in giudicato la pronuncia sullo status filiationis, ma il giudice d'appello stabiliva che la prescrizione, in una materia talmente delicata, doveva "decorrere dal momento della proposizione dell'impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di paternità" condannando pertanto il falso padre a corrispondere 75mila euro al figlio ripudiato e 25mila euro a quelli che fino ad allora avevano creduto di essere i suoi nipoti (per ognuno degli intervenuti).
La decisione d'appello trova conferma in Cassazione.
Per piazza Cavour, infatti, ad essere in ballo nella vicenda è la lesione di diritti personalissimi di rilevanza costituzionale quali per l'appunto il nome, la dignità e soprattutto l'identità personale, che, come tutti i diritti della personalità, "si rafforza e si consolida col passare del tempo". Pertanto, maggiore è il lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento e il disconoscimento, "maggiore sarà la lesione che ne discende al diritto all'identità personale".
Lesione che, a detta della Cassazione, è ricostruibile con riferimento a due componenti fondamentali inerenti all'identità personale e sociale, giacchè il disconoscimento si ripercuote sull'interessato "privandolo della coscienza di sé e recidendo i legami affettivi consolidati durante una vita senza la possibilità di recuperarne altri" oltre che pregiudicare profondamente anche le relazioni sociali e dunque il risvolto sociale della dignità personale.
È, dunque, incensurabile che la Corte d'Appello abbia riconosciuto, ai fini risarcitori, adeguato rilievo alle sofferenze di chi è stato oggetto di un disconoscimento simile e, del resto, ha ammesso la Cassazione, di fronte ad "un ripudio perpetrato dopo decenni di vita familiare e identità personale" non avrebbe potuto fare altrimenti.
Correttamente, quindi, il relativo danno è stato inquadrato nell'ampia categoria di cui all'art. 2059 c.c. "comprensiva non solo del danno morale soggettivo (e cioè della sofferenza contingente e del turbamento d'animo transeunte) ma anche di ogni ipotesi in cui si verifichi un'ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, costituzionalmente garantito, dalla quale consegua un pregiudizio non suscettibile di valutazione economica senza soggezione al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'art. 185 c.p.".
All'interno di tale categoria, ha proseguito infatti la Cassazione, "il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico, costituisce un diritto della persona costituzionalmente garantito e pertanto alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la sua lesione è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato".
Quanto all'entità del risarcimento, infine, i giudici di legittimità, ribadendo che la liquidazione del danno non patrimoniale in via equitativa resta affidata agli apprezzamenti discrezionali del giudice del merito, hanno ritenuto corretti i criteri adottati dalla corte territoriale.
Cassazione, sentenza n. 16222/2015