di Marina Crisafi - È responsabile l'avvocato che sbaglia sulla competenza del giudice, se le regole sono chiare e la giurisprudenza in materia è pacifica. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16364/2015 depositata ieri (qui sotto allegata), respingendo il ricorso di un avvocato che chiedeva quasi 7mila euro a titolo di compensi per l'attività professionale prestata a favore di due clienti per alcuni giudizi promossi contro l'Agenzia per la promozione e lo sviluppo del mezzogiorno innanzi alla Corte d'appello e al Tribunale regionale delle acque pubbliche di Napoli.
Gli ex clienti contestavano la pretesa ritenendo non dovuto alcun compenso in ragione della carenza di diligenza dimostrata dal professionista nell'espletamento dell'attività.
Perdendo in primo grado, in appello gli ex assistiti ottenevano ragione e la Corte territoriale, riconoscendo l'assenza di diligenza del professionista per tutta l'attività svolta dalla proposizione della domanda sino alla pronuncia di incompetenza, riduceva l'importo dovuto a circa 1.400 euro. Per la Corte, infatti, nonostante fosse pacifica la competenza in materia del Tribunale regionale delle acque pubbliche (trattandosi di espropriazione ed occupazione di opera idraulica), il legale aveva comunque grossolanamente sbagliato il giudice adito.
Provando a difendersi, il professionista sosteneva che sull'individuazione della competenza in materia vi era invece incertezza sia normativa che giurisprudenziale e la questione non era affatto di facile soluzione.
Ma la tesi non regge né in appello, né di fronte alla Cassazione.
Per il Palazzaccio, infatti, posto che "sulla questione giuridica da esaminarsi dal professionista, risultano plurimi precedenti - della Cassazione stessa - consolidati nel tempo, idonei ad indirizzare adeguatamente il professionista e tali da escludere la complessità della questione stessa", la responsabilità professionale dell'avvocato va confermata e il ricorso va ritenuto inammissibile e comunque infondato. Per cui, parcella ridotta di oltre 5mila euro e condanna anche al pagamento delle spese legali.
Cassazione, sentenza n. 16364/2015