di Lucia Izzo - La Corte di Cassazione, sez. VI Civile, con la sentenza n. 16315/2015 (qui sotto allegata) si pronuncia in tema di indennità per irragionevole durata del processo, confermando un precedente orientamento secondo cui "la pur rilevata modestia del valore economico della controversia non possa costituire valida ragione per escludere il patimento psicologico che giustifica l'equa riparazione".
La decisione giunge a seguito dell'accoglimento del ricorso presentato da una donna vistasi negare dalla Corte di Appello di Lecce, l'equo indennizzo dovuto per la violazione della ragionevole durata del processo, come previsto dagli artt. 2 e ss. della legge 89/2001, in un procedimento riguardante differenze retributive tra quanto dovuto a titolo di indennità per occupazione agricola e quanto corrispostogli per un solo anno.
I giudici della Corte chiariscono innanzitutto che il termine "ragionevole di durata del processo" il cui superamento ingenera un indennizzo per il periodo eccedente, "non può tradursi in formule aritmetiche fisse per determinate categorie di controversie o singole fasi del giudizio né è desumibile da dati di durata media ricavati da analisi statistiche, ma va determinato caso per caso, in relazione allo svolgimento del singolo procedimento".
Nel caso di specie il procedimento, durato complessivamente 3 anni e 8 mesi in primo grado, viola la giurisprudenza CEDU.
Gli 8 mesi di eccedenza non possono essere considerati irrilevanti, come sostenuto invece dalla Corte Territoriale in maniera generica e priva di sufficiente motivazione laddove affermava che il procedimento presupposto si era protratto "per poco più di tre anni".
Nel rifiutare l'indennizzo, la Corte d'Appello ha errato anche nel considerare il giudizio di modesta entità e pertanto inidoneo a pregiudicare la parte a causa della sua durata.
Più volte i giudici di Cassazione hanno ritenuto che le situazioni in cui le conseguenze pregiudizievoli (sotto il profilo della sofferenza psicologica della pendenza del processo) possano essere escluse, sono quelle in cui "il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o questo è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli".
In assenza di queste particolari situazioni, "il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo" subendo comunque dalle lungaggini processuali un patimento psicologico, la cui esclusione non può essere giustificata solo in base alla "modestia del valore economico della controversia".
La Corte, pertanto, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e (ex art. 384 c.p.c.) decide nel merito condannando il Ministero al pagamento dell'indennità dovuta.
Corte di Cassazione, sez. VI Civile, n. 16315/2015