Ciò, in ogni caso, con riferimento a un periodo ormai terminato, a seguito del recente decreto legislativo numero 80/2015, attuativo del Jobs Act.
Ma andiamo con ordine.
La disposizione oggetto delle pronuncia della Corte è quella in base alla quale se una lavoratrice libera professionista adotta un bambino italiano di età superiore ai sei anni o lo riceve in affido, non avrebbe diritto all'indennità di maternità: si tratta, più precisamente, dell'articolo 72 del decreto legislativo numero 151/2001.
La Consulta ha ricordato che nell'indennità di maternità, alla funzione di tutela della donna, si affianca indubbiamente anche quella di garantire gli interessi del minore: proprio su tale presupposto, del resto, tale indennità è stata progressivamente estesa dal legislatore anche alle ipotesi di affidamento e adozione.
In particolare, al minore, indipendentemente dalle implicazioni biologiche del rapporto con la madre, deve essere garantito uno sviluppo della personalità compiuto e armonico che, in caso di affidamento o adozione, non può prescindere dall'assistenza durante il delicato inserimento in un nuovo nucleo familiare.
Il riferimento costituzionale va rinvenuto nell'articolo 37, che "pretende" un'adeguata protezione per la madre e il bambino e dal quale deriva che quest'ultimo non può subire discriminazioni legate alla tipologia del rapporto di lavoro della madre o della particolarità del rapporto di filiazione.
È evidente, quindi, che la normativa censurata, negando l'indennità di maternità alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana che abbia già compiuto i sei anni, si pone in contrasto non solo con il principio di tutela della maternità e dell'infanzia, ma anche con quello di eguaglianza.
Del resto, trattare in maniera differente la lavoratrice libera professionista che scelga l'adozione nazionale non trova alcuna giustificazione razionale che permetta di mantenere legittimamente in vita un limite rimosso in tutti i casi diversi da questo, ma si configura, piuttosto, come una discriminazione pregiudizievole sia per le libere professioniste che per i minori di nazionalità italiana.
L'articolo 72 del decreto numero 151/2001 va quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella versione antecedente il Jobs Act, che ha provveduto a porre rimedio all'incongruenza censurata.
Corte costituzionale testo sentenza numero 205/2015