Dal carattere rituale della clausola, tuttavia, non è possibile dedurre il diritto della parte per prima istante a stabilire la sede in cui dirimere le controversie che siano eventualmente insorte con l'altra parte.
Per la Cassazione, infatti, l'impiego del verbo "potranno" non può far ritenere la non obbligatorietà ma semplice facoltatività del ricorso, a tal fine, all'arbitrato.
L'ordinanza numero 22039, depositata il 28 ottobre 2015 (qui sotto allegata), a tal proposito si rifà completamente a quanto già statuito in merito dalla medesima Corte con la sentenza numero 6947/2004.
Per i giudici è un errore di fondo concepire l'esercizio dell'azione altrimenti che come una facoltà. Di conseguenza, le parti di un accordo non avrebbero mai potuto utilizzare, correttamente, verbi significanti dovere o obbligo.
L'utilizzo di un verbo modale reggente, insomma, non vale a dedurre la mera facoltatività dell'arbitrato: viceversa, la clausola si limiterebbe a prevedere una generica facoltà di compromettere in arbitri, che sarebbe stata data alle parti anche in sua assenza.
Si tratta, piuttosto, dell'unico modo lessicalmente corretto, alla luce di quanto sopra, per permettere alle parti di riservare la soluzione non negoziata della controversia a un collegio arbitrale.
Così, nel caso di specie, va posta nel nulla l'ingiunzione di pagamento con il quale un architetto richiedeva ai propri clienti oltre sessantaquattromila euro per prestazioni professionali: in presenza della predetta clausola è necessario attendere la decisione arbitrale.
Corte di cassazione testo ordinanza numero 22039/2015