di Lucia Izzo - È legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che rifiuta di svolgere l'attività richiestagli dal superiore rivolgendo a quest'ultimo epiteti ingiuriosi di fronte ad altri colleghi. L'insubordinazione del dipendente che segue un litigio con tanto di offese, compromette irreparabilmente il vincolo fiduciario e non consente al datore di lavoro di confidare nella futura puntualità e correttezza nello svolgimento della prestazione lavorativa.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 22611/2015 (qui sotto allegata) respingendo il ricorso di un lavoratore a causa del licenziamento intimatogli dalla società alle cui dipendenze era adibito.
I giudici del gravame rilevano che l'uomo si è reso responsabile di una grave infrazione disciplinare all'esito di un acceso diverbio auto col direttore dello stabilimento, il quale gli aveva chiesto di eseguire una specifica prestazione: il dipendente, reagiva insultando il dirigente, rifiutandosi di compiere il compito e allontanandosi, tutto dinnanzi ad altri colleghi, costringendo il superiore a chiedere l'intervento di un altro operaio.
Gli Ermellini ritengono che emerga chiaramente dall'istruttoria svolta in fase di merito, che il dipendente ha posto in essere un comportamento di insubordinazione tale da porre il superiore gerarchico in seria difficoltà nei confronti di altri dipendenti per l'ipotesi di una sua mancata adeguata reazione disciplinare.
Il vincolo fiduciario con il dipendente risulta incrinato a causa della sua precisa volontà di non eseguire la prestazione legittimamente richiesta da un superiore nell'interesse della datrice di lavoro, a nulla valendo la circostanza, suggerita dalla difesa, che il rapporto gerarchico col superiore non fosse diretto e che la qualifica posseduta dal dipendente potesse consentirgli margini di discrezionalità nell'esecuzione.
In caso di licenziamento per giusta causa, ricordano i giudici, ai fini della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali.
Determinante appare il comportamento del lavoratore che non si conformi a canoni di buona fede e correttezza, poiché denota una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti.
Spetta al giudice valutare la congruità della sanzione, con apprezzamento unitario e sistematico che tenga conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale; giova rammentare che il giudizio di proporzionalità devoluto al giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria.
Nel caso di specie l'adeguato percorso motivazionale della Corte d'Appello porta al rigetto del ricorso.
Cassazione, sezione lavoro, sent. 22611/2015