di Marina Crisafi - La permanenza, dopo il decesso di un coniuge, da parte dell'altro nella casa familiare è qualificabile "come esercizio del diritto di abitazione e di uso dei mobili che la corredano, spettante al coniuge superstite quale legatario ex lege (art. 540 c.c.) in ogni caso, anche nell'ipotesi di successione legittima, e quindi a prescindere dalla sua ulteriore qualità di chiamato all'eredità". Così si è espressa la sesta sezione civile della Cassazione, con l'ordinanza n. 23406/2015, depositata il 16 novembre scorso (qui sotto allegata), accogliendo il ricorso degli eredi di un uomo, rispettivamente coniuge e padre, deceduto nel corso del giudizio di primo grado, avverso la sentenza della Corte d'Appello di Napoli che li condannava al pagamento di una somma a titolo di risarcimento danni da responsabilità ex art. 146 L.F. alla curatela per il fallimento di una società.
Gli eredi adivano la Cassazione, dolendosi della dichiarata legittimazione passiva, fondata sul presupposto, asseritamente errato, che "essi, al momento dell'apertura della successione, si trovassero nel possesso dei beni del de cuius (nella specie, la residenza familiare e i beni mobili che la corredano), e che pertanto fosse tardiva la loro rinuncia all'eredità effettuata oltre i termini di cui all'art. 485 cod.civ.".
Gli Ermellini accolgono la tesi escludendo che "il fatto di continuare ad abitare, dopo l'apertura della successione, nella casa familiare e ad utilizzare i mobili che la corredano possa aver conferito- agli eredi - la qualità di possessori di beni ereditari per gli effetti previsti dall'art. 485 c.c.". Per cui acclarato il difetto di legittimazione passiva, il ricorso va accolto e la sentenza cassata.
Cassazione, ordinanza n. 23406/2015