di Marina Crisafi - Se il cliente offende, l'avvocato che autentica la firma dell'atto non risponde di calunnia. Lo ha stabilito la sesta sezione penale della Cassazione, con la recente sentenza n. 50756/2015 (qui sotto allegata), scagionando un difensore di fiducia dalle accuse di diffamazione e calunnia continuata ai danni di un pubblico ministero per avere autenticato la firma del proprio cliente su un'istanza di avocazione e su un atto di opposizione alla richiesta di archiviazione contenenti espressioni considerate lesive nei confronti del pm.
I giudici di merito avevano ritenuto il legale colpevole del significato delle espressioni e dei termini utilizzati negli atti dall'assistito, affermando che lo stesso non si sarebbe limitato a svolgere il proprio mandato defensionale, ma avrebbe oltrepassato i limiti consentiti dalla legge al suo corretto esercizio, lasciandosi coinvolgere in una serie di gravi ed infondate accuse rivolte all'operato del magistrato.
Per gli Ermellini invece ha ragione il legale.
La calunnia, infatti, hanno spiegato, richiamando la giurisprudenza copiosa in materia (cfr. ex multis, sentenza
n. 2933/2009), "è un reato istantaneo, la cui consumazione si esaurisce con la comunicazione all'autorità giudiziaria - ovvero ad altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne - di una falsa incolpazione a carico di persona che si sa essere innocente". L'ipotesi delittuosa, dunque, si esaurisce - ha proseguito la Corte "con il verificarsi della su descritta lesione giuridica e si realizza attraverso la presentazione di atti specificamente individuati dal legislatore (denuncia, querela, istanza, richiesta) secondo tassative indicazioni che non consentono di far rientrare nello schema descrittivo tipico della calunnia fatti, per quanto simili, che non rispondano ad una delle accennate forme".Per cui, qualora una persona avalli in vari modi la denuncia calunniosa presentata da altri, non risponde di concorso nel delitto di calunnia, in quanto i comportamenti successivi alla consumazione di tale reato o integrano un'ipotesi autonoma di calunnia, oppure costituiscono un fatto posteriore sotto tale riflesso penalmente irrilevante.
Ai fini della compartecipazione, dunque, occorre provare che l'imputato, benchè non abbia materialmente firmato né presentato in sede giudiziaria gli atti contenenti affermazioni calunniose, ne abbia effettuato la stesura di pieno concerto con la persona incaricata di presentarli.
Nel caso di specie, invece, il legale si era limitato, nell'esercizio della sua attività di difensore, ad autenticare i documenti, presentati dal suo assistito, senza che fosse provata alcuna condivisione del contenuto e senza che intendesse affatto "assumersene la paternità".
Per cui il ricorso va accolto e la sentenza annullata senza rinvio.
Cassazione, sentenza n. 50756/2015