Incostituzionale il termine di tre anni previsto per chiudere i giudizi sul danno da ritardo. Valgono i criteri di Strasburgo

di Marina Crisafi - Non si può attendere tre anni per chiudere il primo (e unico) grado di merito previsto per il procedimento sull'equa riparazione offerto ai cittadini che rimangono vittime della giustizia lumaca. Così ha deciso la Consulta (con la sentenza n. 36/2016 pubblicata oggi, qui sotto allegata), bocciando l'art. 2, comma 2- bis della l. n. 89/2001 (la c.d. legge Pinto) nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento finalizzato ad ottenere il ristoro dai ritardi della giustizia.

Ciò in quanto i principi comunitari del giusto processo impediscono al legislatore nazionale nel disciplinare i termini della ragionevole durata dei procedimenti ai fini dell'equa riparazione di consentire una tolleranza pari a quella degli ordinari procedimenti civili di cognizione.

Il giudizio per l'equa riparazione nasce, infatti, per porre rimedio all'inerzia di una giustizia lumaca e quindi il procedimento non può avere la stessa durata delle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, ma deve concludersi "in termini più celeri".

Quali?

Quelli indicati dalla stessa Cedu e recepiti dalla giurisprudenza nazionale. Ossia, il limite biennale adottato dalla corte di Strasburgo "per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi".

Per cui la questione di legittimità costituzionale è fondata e la disposizione della legge Pinto va dichiarata illegittima, per violazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione.

Corte Costituzionale, sentenza n. 36/2016
Vedi anche:
La legge Pinto - Guida, testo della legge e Modelli
Approfondimenti vari sulla legge pinto

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