di Marina Crisafi - Va assolto il cliente che preso dall'ira per la parcella troppo salata minaccia il proprio avvocato di denunciarlo. Ciò a maggior ragione se il legale a sua volta minaccia l'assistito di agire per la somma pretesa. Lo ha stabilito oggi la Cassazione, con la sentenza n. 9513/2016 qui sotto allegata, rigettando il ricorso di un avvocato e assolvendo tre imputati (tra cui una donna assistita dal legale) dai reati di minaccia e ingiuria (oggi, si ricorda, depenalizzato).
La vicenda
La vicenda ha per protagonista l'avvocato di una donna che ricorre avverso la sentenza del Gdp di Bologna che aveva assolto tre imputati dai reati di minaccia e ingiuria: il primo perché il fatto non costituisce reato e il secondo per "aver agito in stato d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui".
Dei tre imputati, la donna era stata assistita dalla professionista nella causa di separazione dal marito ed entrambe avevano concordato verbalmente un compenso determinato in percentuale sulla somma che la donna avrebbe dovuto ricevere dal marito a titolo di assegno divorzile. Successivamente, però l'avvocato aveva preteso una percentuale maggiore (pari al 15%) e per dirimere la controversia
le due donne arrivavano a stipulare una prima convenzione che fissava l'importo del compenso in circa 12mila euro e subito dopo una seconda scrittura con un compenso notevolmente più alto. Nel frattempo, veniva determinato l'assegno di divorzio e la cliente, ritenendo eccessivo il compenso del legale, si recava insieme all'ex marito e ad un amico presso il suo studio. Lì aveva origine la discussione nel corso della quale i tre accusavano la professionista di scorrettezza (chiamandola "approfittatrice" e "disonesta") e minacciavano di denunciarne la condotta alle autorità oltre che al fisco per non aver rilasciato la fattura per le somme già ricevute.Perdendo nel merito, l'avvocato adiva la Cassazione, cadendo però dalla padella nella brace.
La decisione
Per gli Ermellini infatti la decisione dei giudici di merito è corretta e va confermata.
Quanto al reato di minaccia, i tre imputati paventando le denunce non intendevano perseguire risultati non conformi a giustizia, ma soltanto esercitare un loro diritto, per cui il fatto non costituisce reato.
Quanto all'ingiuria, invece, la reazione della donna era dipesa dal contegno dello stesso avvocato, percepito "come ingiusto e gravemente vessatorio, sia per l'esorbitanza della richiesta - sproporzionata rispetto alla natura dell'attività prestata e alla tipologia dell'affare trattato - sia per le modalità della stessa, formulata in maniera da lasciarla incerta sulla percentuale pretesa, sia, infine, per le circostanze della 'transazione', cui era stata indotta per evitare di essere trascinata - da parte di operatore legale, e quindi attrezzato professionalmente - in una vertenza 'dalle conseguenze economiche peggiori'".
II rapporto di derivazione tra lo stato d'ira e il fatto ingiusto altrui, difatti, hanno sentenziato dal Palazzaccio, non può essere escluso dal "lasso temporale intercorso tra la transazione e la scadenza dell'assegno, essendo consolidato - in giurisprudenza - il principio secondo cui, ai fini del riconoscimento dell'esimente della provocazione nei delitti contro l'onore, non è necessario che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui sia ricevuta l'offesa, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d'ira suscitato dal fatto provocatorio, a nulla rilevando che sia trascorso del tempo, ove il ritardo nella reazione sia dipeso unicamente dalla natura e dalle esigenze proprie degli strumenti adoperati per ritorcere l'offesa ovvero - come nella specie - dal riesplodere dell'ira in concomitanza alla scadenza dell'assegno ritenuto 'estorto'".
Pertanto, ricorso rigettato e avvocato condannato anche al pagamento delle spese processuali.
Cassazione, sentenza n. 9513/2016