Nessun dubbio per gli Ermellini sul carattere offensivo delle parole rivolte da un uomo a un familiare

di Marina Crisafi - Chiamare "mongolo" qualcuno anche se tramite sms e anche se si tratta di un parente integra ingiuria. A ricordarlo è la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 11416/2016, depositata oggi (qui sotto allegata), confermando la condanna per il reato ex art. 594 c.p. (oggi depenalizzato e trasformato in illecito civile) nei confronti di un uomo che tramite sms aveva apostrofato malamente lo zio.

Il Palazzaccio ha respinto senza ombra di dubbio la tesi "modernista" della difesa che sosteneva l'inoffensività della condotta alla luce dell'evoluzione dei costumi sociali.

La S.C. ricorda che in tema di tutela dell'onore, "è necessario fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase ingiuriosa sia stata pronunciata, esistono, tuttavia, limiti invalicabili, posti dall'art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, di guisa che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano e/o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate ioci causa".

Per cui, dare del "mongolo" e "ladro", come nel caso di specie, ha un carattere oggettivamente ingiurioso, riducendosi a "gratuiti e volgari insulti che sono tuttora considerati tali anche tenendo conto dell'invocata evoluzione della percezione sociale dell'uso del linguaggio".

Da qui l'inammissibilità del ricorso e la condanna per il nipote al pagamento di mille euro in favore della Cassa delle Ammende oltre alle spese processuali.

Cassazione, sentenza n. 11416/2016

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