di Marina Crisafi - Cercare di vendicarsi della ex inviando foto a luci rosse che la ritraggono al suo capo è molestia idonea a integrare atti persecutori. A stabilirlo è la terza sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 12208/2016 (qui sotto allegata), pronunciandosi sulla vicenda di un uomo condannato in appello a tre anni di reclusione, tra l'altro, per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. per aver inviato una lettera anonima al datore di lavoro della ex contenente allusioni sulla moralità della donna e foto e dvd che la ritraevano nuda e nell'atto di compiere un rapporto sessuale.
L'uomo adiva la Cassazione lamentando la mancanza della prova in ordine al perdurante e grave stato d'ansia o di paura provocato nella vittima, nonché del fondato timore per l'incolumità propria o dei di lei familiari (considerata anche la successiva riappacificazione con la donna) nonché l'inattendibilità delle sue dichiarazioni alterate da una "formulazione suggestiva delle domande" poste nel corso dell'istruttoria dibattimentale, tale da rendere l'esposizione disordinata, contraddittoria e reticente.
Ma per gli Ermellini, la valutazione operata dalla corte territoriale sulla vicenda è logica e congrua e non incorre in alcun vizio.
La condotta dell'uomo è indubbiamente qualificabile come molestia idonea "a cagionare - per l'ampiezza, durata e carica dispregiativa della condotta criminosa - un grave e perdurante stato d'ansia nella persona offesa, correlato all'aggravamento e consolidamento, in ambito lavorativo oltre che familiare, della lesione della sua riservatezza e della manipolazione dell'identità personale nel contesto familiare e lavorativo".
Quanto alla prova, i giudici di merito hanno pienamente seguito i principi fissati dalla S.C., secondo cui, "in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata".
Nel caso di specie, la veridicità delle affermazioni della vittima è stata sufficientemente corroborata mediante il richiamo a significativi elementi di riscontro, tra cui, in primo luogo, la deposizione del datore di lavoro che ha dichiarato di aver effettivamente ricevuto la lettera anonima contenente le foto osè della dipendente, e di averla in un primo momento persino licenziata.
Da qui l'inammissibilità del ricorso.
Cassazione, sentenza n. 12208/2016
• Foto: 123rf.com