di Valeria Zeppilli - Con la sentenza numero 8059/2016, depositata il 21 aprile scorso, la Corte di cassazione ha offerto un'interessante interpretazione della normativa italiana in materia di IVA.
L'occasione è stata quella di una controversia instauratasi a seguito dell'impugnazione, da parte di un contribuente già esercente la professione di architetto, di un avviso di accertamento Irpef, Irap e Iva relative al 2002.
Nella pronuncia di legittimità che ne è derivata, nel dettaglio, i giudici hanno sancito che i compensi derivanti da un'attività professionale o da un'attività di natura imprenditoriale, conseguiti dopo che l'attività sia cessata e dopo la relativa formalizzazione, devono ritenersi come assoggettati all'imposta sul valore aggiunto.
Per la Corte, infatti, lo "statuto" impositivo di tali compensi è definito dalla contestuale ricorrenza del presupposto soggettivo e del manifestarsi del fatto generatore dell'Iva, anche in considerazione del fatto che l'articolo 6, comma 3, del d.p.r. n. 633/1972, nel rispetto della normativa comunitaria, va letto nel senso che al conseguimento del compenso non va ricondotto l'evento generatore del tributo quanto piuttosto la sua condizione di esigibilità.
Peraltro, a detta dei giudici tale soluzione è imposta anche dalla necessità di assicurare la neutralità fiscale dell'Iva senza che il tributo rappresenti uno svantaggio o un vantaggio per gli operatori economici che si frappongono nel ciclo produttivo/distributivo prima che si giunga al consumatore finale.
A tutto ciò si aggiunge il rischio che, interpretando diversamente la questione, si favorirebbero strumentalizzazioni elusive.
Il principio di diritto è sancito.
Cassazione, sentenza n. 8059/2016• Foto: 123rf.com