di Lucia Izzo - Nulla da fare per il dipendente gay, legittimamente licenziato dall'amministrazione per cui lavorava: a nulla vale il suo tentativo di accusare la datrice di lavoro di discriminazione.
Infatti, non è l'orientamento sessuale ad aver fondato la misura espulsiva, ma l'aver svolto attività di prostituzione tramite alcuni siti internet, attività che, seppur privata, va a ledere il prestigio e l'immagine dell'amministrazione.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 12898/2016 (qui sotto allegata), rigettando il gravame di un ex dipendente, avverso la sentenza che aveva respinto la sua domanda contro il datore di lavoro pubblica amministrazione, con la quale egli chiedeva accertarsi la nullità del licenziamento discriminatorio, poiché fondato sull'orientamento sessuale intimatogli dalla datrice.
In realtà, già i giudici di merito avevano rilevato che, nonostante l'uomo sottolineasse la discriminazione a causa dell'orientamento sessuale, il licenziamento era stato intimato in ragione della pubblica e riconoscibile attività di prostituzione da egli esercitata su alcuni siti internet, attività chiaramente lesiva del prestigio e dell'immagine dell'amministrazione, anche a motivo della visibilità del lavoratore, atteso il ruolo esterno rivestito come istruttore informatico.
Una ricostruzione confermata anche in Cassazione, nonostante il ricorrente deduca che i comportamenti posti a base del licenziamento si sarebbero svolti tutti nell'ambito della vita privata ed al di fuori di quello lavorativo.
il provvedimento di licenziamento, evidenziano gli Ermellini, è stato assunto esclusivamente in relazione all'attività di prostituzione pubblicamente esercitata su alcuni siti, in cui egli offriva le proprie prestazioni sessuali a pagamento (con un annuncio corredato da tariffario, rimborso spese, supplemento per le riprese con telecamere e da fotografie che ne ritraevano il volto), attività ritenuta lesiva dell'immagine dell'Ente, in quanto gettava discredito su tutta la P.A.
Si è trattato di un licenziamento per giusta causa che punisce comportamenti tenuti dal dipendente al di fuori dell'attività di lavoro, ma ritenuti tali da influire sugli obblighi discendenti dal rapporto.
Esso non ha alcuna connotazione discriminatoria, nè diretta né indiretta, sentenzia il Collegio, tanto meno con riferimento all'orientamento sessuale.
Infatti, come si legge nella contestazione disciplinare il ricorrente è stato licenziato per avere esercitato attività prostituiva (sia essa omo o etero sessuale) e non per il suo orientamento sessuale.
È vero, riconoscono i giudici, che nella prima contestazione era stato addebitato al dipendente anche il discredito causato all'Ente dalla dizione "civil servant" da egli utilizzata nella descrizione della posizione occupazionale, sulla pagina di un portale network frequentato da persone appartenenti alla comunità GLBT.
Tuttavia, il provvedimento di licenziamento, dopo i chiarimenti da lui forniti, non solo non fa più alcun riferimento a tale diverso fatto, ma ne esclude espressamente la rilevanza affermando esplicitamente che il comportamento del ricorrrente "è lesivo dell'immagine dell'Ente, non ha nulla a che vedere con l'orientamento sessuale di alcun dipendente ma risiede nella riprovazione sociale per l'esercizio della prostituzione omo o etero sessuale".
Ne discende pertanto che non sia possibile ancorare il licenziamento ad alcun riferimento, neppure remoto, di natura discriminatorio: lo stesso provvedimento ha sanzionato, infatti, non l'orientamento sessuale del dipendente professato in siti frequentati dalla comunità GLBT, ma esclusivamente l'attività di prostituzione esercitata su altri siti.
Il ricorso va, dunque, rigettato.
Cass., sezione lavoro, sent. n. 12898/2016• Foto: 123rf.com