di Lucia Izzo - Il reato di violenza sessuale scatta nei confronti del marito che ha imposto alla moglie rapporti sessuali ritenendoli "dovuti": la relazione tra i due non integra la minore gravità del fatto in quanto, ricostruita globalmente la vita di coppia, è emerso un rapporto "malato" fatto di angherie, soprusi e completa soggezione fisica e morale della donna al marito aggressivo e spesso ubriaco.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza n. 28492/2016 (qui sotto allegata) che ha rigettato il ricorso di un uomo, condannato, tra l'altro, per maltrattamenti e violenza sessuale nei confronti della moglie.
La Corte territoriale osservava che era stata raggiunta la prova della responsabilità penale del prevenuto in ordine a detti reati, in particolare confermando il giudizio di attendibilità piena della persona offesa, anche con riguardo al dissenso in relazione all'unico episodio di violenza sessuale ritenuto nella sentenza del primo giudice.
Il giudice del gravame, infatti, aveva puntualmente ricostruito l'esistenza costellata di angherie e soprusi che la donna era tata costretta a subire a causa del problematico rapporto coniugale, che aveva portato a pregresse denunce e condanna per fatti analoghi.
In particolare, i giudici hanno analiticamente valutato l'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni accusatorie della donna, con particolare riguardo allo stato di completa soggezione fisica e morale nel quale essa era stata ridotta dal comportamento aggressivo del marito.
Addirittura, le "prestazioni sessuali" richieste ed ottenute dal marito sono state la derivazione inevitabile di questo assoggettamento permanente della donna. È proprio quest'unico episodio ad inchiodare l'uomo, spesso ubriaco, e portare alla definitiva condanna dell'uomo.
Su questa base giuridica il giudice ha rilevato che nel generale contesto di abiezione e sottomissione nella quale era costretta da anni a vivere la moglie, quella notte la stessa era a dormire in un'altra stanza della casa coniugale e vi è stata letteralmente "prelevata" dall'imputato
, che poi l'ha assoggettata alle attività sessuali che riteneva, senza che evidentemente avesse la necessità di usare altri particolari mezzi di costrizione, dato appunto il suo "costume" di vita coniugale accertato, sostanzialmente un atto dovuto.Per gli Ermellini la Corte territoriale si è attenuta allo standard che, per costante giurisprudenza di legittimità, impone un esameì particolarmente rigoroso delle dichiarazioni della persona offesa.
Per i giudici di legittimità, va poi ribadito il principio secondo cui "Il delitto di cui all'art. 609-bis cod. pen. è integrato ogni qual volta sia lesa la libertà dell'individuo di poter compiere atti sessuali in assoluta autonomia, senza condizionamenti di ordine fisico o morale".
Da ciò consegue che non hanno rilevanza, nella valutazione della condotta criminosa, "eventuali giustificazioni dedotte in nome di presunti limiti o diversità culturali nella concezione del rapporto coniugale, posto che le stesse porterebbero al sovvertimento del principio dell'obbligatorietà della legge penale e all'affievolimento della tutela di un diritto assoluto e inviolabile dell'uomo quale è la libertà sessuale"-
Inoltre, in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all'art. 609-bis, ultimo comma, c.p., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest'ultima, anche in relazione all'età, mentre per il diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità.
Dunque correttamente il giudice di appello, appunto valutando il fatto "globalmente", ha rilevato che il rapporto coniugale tra imputato e persona offesa, non potesse ritenersi motivo di attenuazione della gravità intrinseca della violenza sessuale, considerata la sostanziale abitualità del comportamento dell'imputato stesso, il quale, del tutto indebitamente, riteneva l'attività sessuale una sorta di prestazione dovuta dalla moglie.
In questo contesto relazionale il "caso" di violenza sessuale non può in alcun modo considerarsi di "minore gravità".
Cass., III sez. pen., sent. n. 28492/2016