di Lucia Izzo - Scatta l'ammenda o l'arresto per il datore di lavoro che installa nella sede telecamere in grado di spiare i dipendenti durante l'orario di lavoro, indipendentemente dal fatto che queste vengano poi effettivamente o usate o meno.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza n. 45198/2016 (qui sotto allegata) dichiarando inamissibile il ricorso avanzato dalle amministratici di una società.
Le donne erano state condannate alla pena di euro 1.000,00 di ammenda per il reato di cui agli artt. 4, commi 2 e 3, e 38 I. 300/70 e 114 d.lgs. 196/2003, per avere, installato e posto in funzione nei locali del night club, da loro gestito, impianti ed apparecchiature audiovisive dalle quali era possibile controllare a distanza l'attività dei lavoratori dipendenti, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali e con la commissione interna e senza osservare le modalità indicate dalla locale Direzione Territoriale del lavoro.
Inutile per le ricorrenti lamentare che uno solo dei testi escussi avesse riferito della presenza di una sola telecamera, di cui non era neppure stata accertata la funzionalità, ed avendo l'unica telecamera esistente funzione difensiva, essendo prossima alla cassa e volta quindi a prevenire ed accertare comportamenti illeciti dei dipendenti, e non anche a raccogliere notizie sulla attività lavorativa dei dipendenti stessi.
Gli Ermellini rammentano che l'art. 4 L. 300 del 1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) vieta espressamente l'uso di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentano il controllo a distanza dei lavoratori, permettendone l'installazione, se richiesti da esigenze organizzative e produttive o di sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale, solamente previo accordo con le rappresentanze sindacali unitarie o con quelle aziendali, o, in mancanza di accordo, previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro.
La disposizione resta tuttora vigente, pur non trovando più sanzione nell'art. 38, comma 1 dello Statuto stesso, stante la soppressione operata dall'art. 179 d.lgs. 196 del 2003, che ha colmato la lacuna mediante il combinato disposto dei suoi artt. 114 e 171, che confermano quanto disposto dall'art. 4 e rinviano alle sanzioni contemplate dal summenzionato art. 38.
Ciò, precisano i giudici, esclude la depenalizzazione della fattispecie ad opera dell'art. 1, comma 1, d.lgs. 8 del 2016 poiché. essendo prevista la pena alternativa dell'ammenda o dell'arresto e non la sola pena pecuniaria, si prevede una condotta criminosa rappresentata dalla installazione di impianti audiovisivi idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori, qualora non vi sia stato consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati) o permesso dall'Ispettorato del lavoro.
Si tratta di un reato di pericolo, essendo diretto a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori, con la conseguenza che per la sua integrazione è sufficiente la mera predisposizione di apparecchiature idonee a controllare a distanza l'attività dei lavoratori, in quanto per la punibilità non è richiesta la messa in funzione o il concreto utilizzo delle attrezzature, essendo sufficiente l'idoneità al controllo a distanza dei lavoratori e la sola installazione dell'impianto.
Pertanto, da tali principi deriva la manifesta infondatezza della censura relativa al mancato accertamento della funzionalità delle telecamere di cui è stata accertata l'installazione all'interno del locale notturno gestito dalla società amministrata dalle ricorrenti (con la precisazione del loro collegamento ad un monitor posto in una stanza attigua a quella nella quale si svolgevano gli spettacoli).
Cass., III sez. pen., sent. n. 45198/2016