di Valeria Zeppilli - Rivelare il tradimento altrui nel corso di un'udienza non è necessariamente diffamazione.
Questo è quanto emerge dalla sentenza numero 54938/2016 depositata il 27 dicembre dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, a conclusione di un procedimento a carico di una donna instauratosi a seguito di alcune affermazioni pronunciate nel corso della sua escussione quale testimone.
In particolare l'imputata, nell'ambito di un procedimento per abusi su minore a carico del figlio, aveva dichiarato durante il suo esame testimoniale che sua nuora aveva intrattenuto una relazione extraconiugale.
Trascinata in giudizio, la suocera è stata "salvata" dai giudici, che hanno affermato che il suo comportamento non è idoneo a rappresentare una fattispecie di reato.
Innanzitutto, infatti, nel corso del processo non è mai stata contestata o messa in discussione la veridicità di quanto dalla stessa affermato quale teste, con la conseguenza che il tradimento deve reputarsi effettivamente avvenuto.
Le parole usate e "incriminate", poi, si limitarono a riferire solo fatti che la suocera conosceva e non ebbero carattere dispregiativo o umiliante, ma rimasero funzionali e proporzionate a quanto sollecitato dal perito. Non furono insomma pronunciate delle espressioni "gravemente infamanti e inutilmente umilianti" idonee a trasmodare in una mera aggressione verbale, ma fu rispettato il requisito della continenza quale "elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica".
La sentenza con la quale l'imputata era stata condannata alla pena di 500 euro di multa per il reato di diffamazione, quindi, va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Corte di cassazione testo sentenza numero 54938/2016