di Redazione - "Il mio scopo nella vita è farti piangere": una frase simile fa scattare il reato di minaccia anche se alla stessa non segue una condotta diretta ad intimorire. Lo ha chiarito la Cassazione (sentenza n. 12756/2017 qui sotto allegata), confermando la condanna nei confronti di un soggetto ritenuto responsabile del reato di cui all'art. 612 c.p. per aver pronunciato l'espressione suddetta nei confronti della propria ex.
Per gli Ermellini, a nulla valgono le critiche generiche dell'imputato rispetto all'efficacia intimidatoria della frase pronunciata, le quali:
- da un lato "non considerano in punto di diritto che elemento essenziale del reato in esame è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante, invece, l'indeterminatezza del male minacciato, purchè questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente" (cfr. Cass. n. 45502/2014);
- dall'altro, in punto di fatto, trascurano di considerare che soprattutto la sentenza di primo grado ha dato ben conto del contesto tutt'altro che sereno nel quale vivevano la fine del loro rapporto l'imputato e la vittima, come, peraltro, finisce per riconoscere lo stesso ricorrente.
Nulla da fare neanche per la tenuità del fatto, la quale, ricordano dal Palazzaccio, può essere dichiarata solo quando oltre all'imputato anche la persona offesa non si oppone. Tuttavia, tale volontà di opposizione "è da ritenersi sussistente nel momento in cui la persona offesa come nel caso di specie una volta costituitasi parte civile formuli pure richieste risarcitorie".
Cassazione, sentenza n. 12756/2017
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