di Roberto Cataldi - Una delle poche certezze, che offre un fondamento alla precarietà delle nostre vite, è che gli altri hanno sempre un'opinione su di noi. Magari un'opinione poco veritiera, che ci sta scomoda, ma comunque qualcosa che ci identifica, che ci strappa all'anonimato in virtù di un gesto, di un apparire o di una parola detta. Si tratta quasi sempre di valutazioni collettive che si basano, prima di tutto, sul nostro aspetto esteriore, sulla nostra immagine.
Gli altri ci giudicano anche - e principalmente - senza conoscerci. E noi dobbiamo imparare a fare i conti con questa triste realtà: il mondo esterno è un giudice spietato e, soprattutto, molto superficiale.
L'abitudine a fare ricorso a segni di identificazione esteriori, piuttosto che alla conoscenza effettiva della persona, pervade ogni contesto sociale. Non ultimo il mondo giudiziario dove sembra quasi che l'apparenza e la forma siano diventate leggi più forti e più vincolanti di qualsiasi altro codice normativo. E se è vero, come si dice, che l'apparenza inganna, ciò è tanto più vero nella misura in cui si può fare un uso manipolatorio della propria immagine esteriore al fine di ottenere approvazione e riconoscimento sociale. Per il solo fatto di indossare un abito, piuttosto che un altro, ogni individuo diventa attore di se stesso.
Nel mondo giudiziario l'aspetto esteriore prende il sopravvento sulla vera essenza e questo fa sì che nonostante le sue intrinseche ed evidenti contraddizioni, nonostante le sue debolezze strutturali, riesca a sopravvivere dietro la maschera del decoro e del rispetto maniacale delle forme processuali.
L'apparenza e il rigore formale sono diventate le sue ultime risorse: una sorta di pietra miliare che evita il naufragio dell'apparato. Dall'austerità degli arredi, agli abiti degli operatori del diritto, al rigore delle regole processuali, tutto risulta intriso di una forte carica simbolica in cui la visibilità del segno esterno vorrebbe farsi garante dei contenuti. E così, dominati dalla "legge dell'apparenza" non ci rendiamo più conto della tragica e progressiva svalutazione della giustizia sostanziale, sulla quale ha preso sempre di più il sopravvento il potere formale del diritto. E' accettabile ancora oggi che si possa vincere o perdere una causa solo grazie a un errore di forma determinando così le sorti di un giudizio? Contano davvero di più le regole che le buone ragioni?
In realtà questa progressiva "debacle" del mondo giudiziario non fa che riflettere un disagio che abbraccia l'intera collettività. Quotidianamente assistiamo alla sistematica negazione dei valori portanti della nostra cultura, in favore di un ossequio incondizionato per la "legge dell'apparenza". E in questo scenario, diventa davvero difficile far emergere le proprie capacità laddove la potenza dell'immagine esteriore riesce ad avere il sopravvento sulla validità dei contenuti.
Un abito elegante ha guadagnato la capacità di supplire al sempre più discutibile livello qualitativo, relegando così all'ingiusto destino dell'oblio tutto ciò che non è in linea con determinati standard formali.
Se davvero vogliamo sottrarci a questo pericoloso meccanismo, dobbiamo innanzitutto riappropriarci della nostra libertà e riscoprire le nostre esigenze più autentiche, calandoci in quelli che lo psicologo Aldo Carotenuto aveva brillantemente definito "i sotterranei dell'anima".
Spesso il giudizio degli altri sulla nostra "presenza" diventa per noi terribilmente condizionante e, in questo caso, il vero ostacolo alla nostra libertà va rinvenuto in alcune lacune che affliggono la nostra anima. Ognuno di noi dovrebbe essere capace di raggiungere una sorta di "autonomia di giudizio", per poter stabilire cosa sia giusto in primo luogo per la propria coscienza, indipendentemente dal parere del collettivo.
Senza questa autonomia (che Jung avrebbe identificato con il c.d. "processo di individuazione") si corre il rischio di agire in funzione del giudizio e della soddisfazione altrui, piuttosto che in funzione di ciò in cui crediamo davvero.
Spero che non tutti storceranno il naso se provo ad affermare che l'eccessivo rigore delle forme può diventare una sorta di "maschera" che occulta la nostra reale personalità e la nostra reale capacità professionale.
I valori di giustizia di cui vogliamo farci portatori dovrebbero invece trasparire da ciò che siamo, dalle nostre parole, dal modo in cui ci comportiamo non soltanto dall'abito che indossiamo.
In genere chi ci osserva non è mai al corrente delle dinamiche e dei processi che si animano nel nostro mondo interno, né può sapere quali siano le reali motivazioni che ci inducono ad apparire o a comportarci in un certo modo. Per questo l'impatto visivo riesce a supplire alla carenza di altri elementi valutativi.
In simili circostanze, corriamo il rischio, se ci identifichiamo con quel tipo di giudizio, di non giungere mai a manifestare la nostra vera personalità, di rimanere per sempre dei "brutti anatroccoli", convinti di essere goffi e sgraziati, quando, invece, potremmo dimostrare di possedere la regalità di un cigno.
Utilizzando le parole dello scrittore danese Hans Christian Andersen, che con la forza numinosa sprigionata dai suoi personaggi ha saputo rappresentare magistralmente queste dinamiche, dovremmo chiederci invece: "che importa se siamo nati in un pollaio, quando siamo usciti da un uovo di cigno?".
Purtroppo l'abito, come nostra prima immagine esterna, è divenuto uno strumento in grado di utilizzare un linguaggio più efficace di mille parole: riesce a diversificare i ruoli sociali, a conferire uno status e, soprattutto, a evidenziare ciò che di sé si desidera esibire, all'insegna del principio dell'apparenza. Ma l'abito rischia di nascondere la realtà, di coprire le vere "nudità" della nostra anima. E così l'immagine esterna che preferiamo offrire di noi diventa un'immagine che non sempre corrisponde alla nostra realtà.
Le vesti che indossiamo esprimono un insieme di significati, di valori e simboli, che racchiudono tutta la complessità di noi esseri umani, "animali vestiti" e ormai incapaci di rinunciare alla strategia dell'abbigliamento e alla protezione psicologica e fisica delle vesti.
Eppure come giustamente ha sottolineato il sociologo americano Thorstein Veblen, nella società del benessere, il desiderio di un'apparenza, non soltanto dignitosa, ma più che invidiabile, è il motore primo che induce alla scelta di un certo tipo di abbigliamento e di determinati comportamenti. Il problema, però, è dato dall'enorme potere che si attribuisce all'abito: la capacità di "fare il monaco", per intenderci.
E il mondo giuridico ha voluto conferire all'abito proprio questo potere, nel momento stesso in cui ha accettato e divulgato l'idea che l'abbigliamento, la "presenza", annuncino la nostra professione, il tenore di vita e, soprattutto, il nostro diritto di essere stimati, apprezzati e rispettati.
Il contesto socioculturale in cui viviamo crea ogni giorno valori effimeri e il desiderio di farsi notare ad ogni costo o, peggio, di essere "identificati" e classificati sulla base della nostra immagine, sembrano ormai gli unici valori a cui ci è consentito ricorrere, durante il cammino della nostra esistenza. Così la regola che delinea i rapporti umani è quella, tragicamente ingannevole, della simulazione.
Si fa sempre più evanescente, così, la "linea di confine" tra l'autenticità dell'essere e la sua immagine occultatrice; tra ciò che ci appartiene nel profondo e ciò che diventa nostro per imitazione; tra l'apparire delle cose e ciò che esse sono realmente.
Ma facciamo di nuovo un tuffo nella psicologia: lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger riteneva che l'individuo non può essere considerato né un soggetto astratto, né un oggetto naturale, ma, più semplicemente, un uomo concreto, calato all'interno di una realtà fisica e sociale, in cui egli progetta e costruisce la propria esistenza. In questo contesto, secondo Binswanger, la diversità individuale dovrebbe essere il principale valore e traguardo da perseguire.
La risposta soggettiva al senso comune sarebbe, dunque, il percorso più auspicabile per ogni essere umano. La scelta di apparire ad ogni costo, in questo senso, diventa un tradimento del proprio essere più autentico, un'infedeltà a se stessi messa in atto per far propria, in modo incondizionato, una modalità esistenziale progettata da altri.
Quando la nostra scelta è nella direzione di un progressivo adattamento a modelli già dati, finiamo col rinunciare alla nostra individualità, precludendo ogni possibilità di mostrarci nella nostra essenza più vera.
Insomma, per essere accettati ricorriamo a dei "travestimenti" e non abbiamo il coraggio di accettarci per ciò che siamo, nel timore che la nostra immagine non sia la più adatta per entrare in relazione col mondo. Cerchiamo a tutti i costi di operare una "metamorfosi", secondo il modello che riteniamo più adatto per esporci allo sguardo degli altri.
Eppure la quotidiana frequentazione delle aule dei Tribunali mi ha portato a diffidare delle apparenze, perché non sempre dietro un abito elegante si nasconde un bravo avvocato. Non sempre l'eleganza è sinonimo di decoro professionale. Occorre allora affinare i nostri mezzi di percezione, acquisire una diversa capacità di giudizio, saper cogliere anche quei dati di sfondo che non emergono mai al primo impatto visivo. Ma dobbiamo in primo luogo rimuovere dalla nostra mente l'idea che l'omologazione sia l'unica possibile via di salvezza.
Al vaglio del senso comune, il concetto di "alterità" risulta estraneo e conturbante: una sorta di intruso che non riesce a trovare cittadinanza nel regno dei sentimenti umani. La scelta dell'adattamento, però, comporta sempre una rinuncia: un sacrificio della possibilità di esprimersi al di fuori dei banali emblemi di identificazione e di omologazione. Di certo è difficile conciliare le esigenze dell'individuo con quelle della "massa". Si tratta di due entità per loro natura da sempre contrapposte e non vi è dubbio che il tentativo di avvicinare questi due termini risulterebbe vano, incongruo, se non addirittura contraddittorio.
Andersen, che poc'anzi ho volutamente chiamato in causa, è riuscito a comprendere queste dinamiche meglio di qualsiasi altro studioso della psiche umana e ad analizzarne, attraverso le sue fiabe, i risvolti psicologici. Il brutto anatroccolo non è una "persona" che lotta per trovare il suo posto in una massa indistinta, ma un individuo che vuole far parte di un consorzio di individualità consapevoli. Il suo dramma è dato dal fatto che deve scontrarsi con le convenzioni, con l'opacità e l'ottusità di un mondo che non sa emanciparsi dai pregiudizi e dall'abitudine.
Il brutto anatroccolo subisce una caduta ma alla fine risorge, si "spoglia" e poi si "riveste" e, dalle sue vicissitudini, riesce a trarre una misura di riscatto che lo rende un vero "individuo", forte perché fautore della diversità.
Anche noi dovremmo imparare a riconoscerci come "individualità consapevoli", a credere nella necessità di differenziarci. Ma questo significa rompere con l'abitudine dell'omologazione, per recuperare ciò che di più prezioso di nasconde nella nostra anima.
Spesso vi sono delle potenzialità del nostro essere che abbiamo voluto negare, occultare per essere sempre più simili agli altri; dovremmo invece riappropriarci di questo "patrimonio" nascosto, per aprirci a un diverso sviluppo comunicativo tra noi e il mondo esterno, anche quando questo deve passare semplicemente attraverso l'aspetto esteriore. Dovremmo imparare a fidarci in primo luogo di noi stessi, trovando il modo di andare oltre "la legge dell'apparenza". Solo così avremo modo di trovare "un lago tutto per noi", dove specchiarci e scoprire, magari, di non essere affatto dei brutti anatroccoli ma dei magnifici cigni.
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