di Lucia Izzo - Vanno restituite al figlio dell'indagato per criminalità organizzata le somme del suo conto corrente sottoposto a sequestro, laddove si accerti che il reddito disponibile deriva da una lecita attività lavorativa e non dal ruolo di prestanome svolto nell'impresa del padre in carcere.
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 21634/2017 (qui sotto allegata) che ha accolto il ricorso del figlio dell'indagato per criminalità organizzata, nei confronti del quale il Tribunale del Riesame aveva disposto il sequestro preventivo di vari beni.
In particolare, nei confronti del giovane era disposto il sequestro in riferimento a un conto corrente, per una somma di circa 14mila euro, che si riteneva alimentato dal canone di locazione di un immobile già sequestrato al padre poiché, attesa la totale assenza di reddito del figlio, nonché il suo ruolo di prestanome nella gestione dell'impresa individuale del padre di due appartamenti, la somma non poteva essere provento della madre.
Una conclusione non condivisa dagli Ermellini che rammentano alcuni principi correlati alla questione delle disponibilità di reddito da parte di soggetti legati da stretta parentela con il soggetto ritenuto reale intestatario dei beni e nelle condizioni soggettive (nel caso di specie responsabile di reati di criminalità organizzata) per la confisca prevista dall'art. 12 sexies del D.L. n. 306 del 1992.
In primis, precisa la sentenza, non essendosi in sede di misure di prevenzione, non opera alcuna presunzione di legge di fittizietà, pur se i rapporti personali, a fronte della non evidenza di disponibilità di reddito da parte del congiunto dell'indagato, possono certamente fungere da seri indizi dell' intestazione fittizia.
A una simile conclusione deve comunque giungersi in base ad una valutazione in concreto e non sulla scorta di una presunzione astratte. Ancora, evidenzia il Collegio, non è escluso che possa esservi valida donazione nell'ambito della famiglia del dato soggetto e anche in questo caso, ovviamente, le specifiche peculiarità del caso possono fungere da seri indizi.
Lecita gestione di un'impresa familiare
Venendo al caso di specie, la motivazione adottata dal Tribunale è ritenuta meramente apparente: difatti, nonostante in altra parte del provvedimento si dia atto di una (rilevante) disponibilità di reddito lecito della madre del ricorrente, e, nonostante vi sia la prova diretta della provenienza di una cospicua parte del denaro sequestrato dalla vendita di un'autovettura del ricorrente e prima ancora della madre, si indicano genericamente la assenza di reddito diretto del ricorrente ed un suo presunto ruolo di prestanome nella impresa del padre per affermare che tutto il denaro posseduto fosse, in realtà, del padre.
Nonostante il Tribunale abbia considerato il figlio come un "prestanome" nella gestione dell'attività commerciale del padre detenuto, in realtà, dal medesimo materiale probatorio si desume la concreta attività di conduzione dell'impresa durante la detenzione del padre.
Non vi è ragione di ritenere che la situazione si discosti da quella della "impresa familiare" di cui agli artt. 230-bis e ss. c.c.; peraltro, proprio lo svolgimento di attività effettiva in una impresa che secondo il provvedimento impugnato svolge un commercio lecito, giustificherebbe una disponibilità di reddito in capo al ricorrente, a tale punto neanche frutto di donazione, bensì legittima partecipazione agli utili.
In conclusione, considerando che si tratta di decisione assunta in sede di rinvio dopo un primo annullamento e che ha tenuto conto di tutto il materiale probatorio disponibile, la Cassazione dispone l'annullamento senza rinvio della ordinanza impugnata con restituzione all'avente diritto della somma in sequestro (del conto corrente) in quanto dallo stesso testo della ordinanza impugnata risultano le condizioni per escludere allo stato le ragioni del sequestro (ovvero che il denaro fosse di proprietà del padre).
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