di Valeria Zeppilli - Se l'infermiere chiama, il medico deve rispondere altrimenti rischia di subire una pesante condanna penale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza numero 21631/2017 qui sotto allegata, nel sancire la definitiva condanna per omissione di atti di ufficio di un sanitario che si era rifiutato di andare a visitare un paziente gravemente malato (e poi deceduto) nonostante l'appello degli infermieri.
Urgenza e indifferibilità dell'atto sanitario
Infatti, se il personale infermieristico segnala l'urgenza e l'indifferibilità di un atto sanitario, riscontrando una situazione di rischio effettivo per il paziente, il medico ha sempre l'obbligo di recarsi con tempestività a visitare il malato per valutare direttamente le condizioni nelle quali egli si trova.
Per la Cassazione, poi, non va dimenticato che il giudice ha la facoltà di controllare l'esercizio della discrezionalità tecnica del sanitario e di concludere, laddove non vi sia un minimo di ragionevolezza, che il medico abbia agito con arbitrio.
La decisione della Cassazione
Nel caso di specie, quindi, giustamente i giudici del merito avevano ritenuto che il comportamento del sanitario era stato tale da integrare il rifiuto di atti d'ufficio, nonostante le condizioni difficili nelle quali il paziente versava già al momento del ricovero. Infatti, per la Cassazione, "esula da ogni preteso esercizio della discrezionalità il fatto che il ricorrente non fosse intervenuto per una visita diretta dopo che il personale infermieristico aveva segnalato la progressiva ingravescenza, fino alla letargia, delle condizioni di salute del ricoverato".
Il reato di omissione di atti di ufficio
Per completezza si ricorda che il reato di omissione di atti di ufficio si configura ogniqualvolta un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, rifiuta indebitamente un atto del proprio ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo. La pena è quella della reclusione da sei mesi a due anni.
Corte di cassazione testo sentenza numero 21631/2017