di Lucia Izzo - Commette diffamazione l'avvocato che accusa i magistrati di fare una giustizia razzista: non sussiste la scriminante del diritto di critica in quanto nelle sue dichiarazioni manca sia la continenza formale che quella sostanziale, rese nei confronti dei magistrati personalmente e in relazione a un provvedimento di cui non era stata neppure resa nota la motivazione.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 23025/2017 (qui sotto allegata) pronunciatasi a seguito dell'impugnazione delle parti civili contro la sentenza d'appello.
La Corte territoriale, infatti, aveva riformato il provvedimento di primo grado che aveva condannato un avvocato, una giornalista e il direttore responsabile del quotidiano, per il reato di diffamazione pluriaggravata (per i primi due) e di omesso controllo (per il terzo).
Il caso
La giornalista aveva pubblicato un articolo che riportava l'intervista al legale che, dopo aver criticato il provvedimento del tribunale del riesame, con il quale era stata confermata la misura cautelare della custodia in carcere nei confronti della sua assistita di nazionalità rumena, concludeva affermando che i giudici facessero una giustizia razzista.
Per la Corte d'Appello, tuttavia, era stato esercitato il diritto di critica poiché l'avvocato, traendo spunto dal caso specifico, era giunto alla conclusione, di pubblico interesse, della presenza di pregiudizi razziali nella giustizia italiana.
E per i giudici ciò avveniva senza superare i limiti della continenza in quanto l'articolo si era limitato a stigmatizzare i modi di esercizio del potere giudiziario senza attaccare la sfera personale dei magistrati componenti il collegio del riesame, tra l'altro neppure nominativamente citati, per quanto individuabili.
Infine, secondo la corte di merito, sussisteva anche la verità del fatto, da individuare non nella valutazione soggettiva da parte del professionista dell'operato dei magistrati, ma nella pronuncia sfavorevole alla cittadina rumena da lui assistita.
A diversa conclusione giunge la Cassazione a seguito dell'impugnazione proposta dalle parti civili: per gli Ermellini appare evidente che il commento del professionista fosse riferibile ai magistrati del tribunale che avevano emesso il provvedimento sfavorevole alla sua assistita.
Critica diretta agli autori
Il virgolettato dell'intervista stabilisce, come correttamente osservato dai ricorrenti, un inscindibile nesso di consequenzialità tra la qualificazione come "ingiustificabile" del provvedimento di cui l'intervistato afferma di non comprendere le ragioni e "la conclusione che in Italia c'è una giustizia razzista, adusa a lasciare accanto ai figli donne, sottinteso italiane, condannate per reati anche più gravi, quali l'omicidio".
Non si è trattato dunque di una critica generalizzata al modo di operare della magistratura italiana, ma di una critica che ha attinto la sfera personale proprio degli autori del provvedimento che ne avrebbe costituito lo spunto, in quanto affermare che quell'atto giudiziario era privo di giustificazione, e poi richiamare successivamente la giustizia razzista, significa che lo stesso era frutto di un pregiudizio del collegio del riesame verso l'indagata di nazionalità straniera.
Questo è tanto più grave alla luce del fatto che, come emerge dall'articolo, non era neppure stata ancora resa nota la motivazione del provvedimento, sicché i giudizi del professionista non potevano investire l'atto giudiziario in sé o la condotta dei magistrati in quel procedimento, ma soltanto gli autori di esso, gratuitamente tacciati di farsi condizionare, nelle loro decisioni, dall'etnia dell'indagato, invece di ispirarsi ai principi guida dell'opera del magistrato.
Il limite della continenza
Ha dunque sbagliato la Corte d'Appello a ritenere rispettato il limite della continenza che, per gli Ermellini, "va intesa in primo luogo in senso formale, come assenza di espressioni pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica".
Secondo la giurisprudenza di legittimità ogni provvedimento giudiziario può essere oggetto di critica, anche aspra, in ragione dell'opinabilità degli argomenti che lo sostengono, ma questa non deve tuttavia, come avvenuto nel caso in esame, trasmodare in un attacco alla stima di cui gode il soggetto criticato, che ha diritto alla tutela della propria reputazione e alla intangibilità della propria sfera di onorabilità, tanto più rilevante in ragione del ruolo svolto.
La continenza va intesa, aggiunge il Collegio, anche in senso sostanziale, come stretto collegamento tra l'offesa e il fatto dal quale la critica ha tratto spunto, dovendo la prima rimanere contenuta nell'ambito della tematica attinente al fatto alla base di essa.
Nella situazione di cui è causa tali limiti risultano superati, in quanto l'attacco non poteva essere diretto alla condotta professionale dei ricorrenti nello specifico procedimento, posto che la motivazione dell'ordinanza non era stata ancora depositata, essendo quindi messa in discussione, a prescindere dalle ragioni del provvedimento, la personale onorabilità dei giudici, sospettati di mancanza di imparzialità perché animati da pregiudizi razziali.
La posizione della Corte EDU
Infine, sottolinea la Cassazione, va rammentato che la Corte EDU ha fissato diversi principi con riferimento alla diffamazione da parte di un avvocato ai danni di un magistrato, applicabili alle professioni legali.
Ciò in quanto il peculiare status degli avvocati li pone in una situazione centrale nell'amministrazione della giustizia, al buon funzionamento della quale essi devono contribuire e, in particolare, alla fiducia del pubblico nella stessa.
Gli avvocati, secondo la Corte di Strasburgo, hanno indubbiamente il diritto di pronunciarsi pubblicamente sul funzionamento della giustizia, ma la loro critica, che deve avere una solida base fattuale e presentare un legame sufficientemente stretto con i fatti della causa, non può oltrepassare alcuni limiti volti a tutelare il potere giudiziario da attacchi gratuiti e infondati, motivati dalla strategia di portare il dibattito giudiziario su un piano strettamente mediatico o di entrare in polemica con i magistrati che si occupano del caso.
La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio, in quanto l'esimente del diritto di critica è insussistente sia nei confronti del legale sia della giornalista e del direttore responsabile: sul giornalista stesso, spiega la Cassazione, incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite ed è responsabile penalmente se non manifesta distacco dalle affermazioni dell'intervistato che risultino prive di verosimiglianza e tali da indurre discredito sulla persona offesa.
Cass., V sez. pen., sent.n. 23025/2017• Foto: 123rf.com