di Valeria Zeppilli - In tema di assistenza a un familiare con handicap, il concetto di convivenza richiesto dalla legge per poter godere di determinati benefici, come quello al congedo retribuito dal lavoro, non può essere ridotto al concetto di coabitazione.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 24470/2017 (qui sotto allegata), precisando che, diversamente, si darebbe un'arbitraria interpretazione restrittiva della norma di cui all'articolo articolo 42, comma 5, del decreto legislativo numero 151/2001, così contrastando il fine dalla stessa perseguito, ovverosia quello di agevolare l'assistenza dei disabili.
Assistenza assidua e continuativa al disabile
Come già chiarito in passato dalla stesa Corte, non avrebbe alcun senso escludere dal predetto beneficio il lavoratore che convive costantemente con il disabile, ma solo in una determinata fascia oraria della giornata, di fatto abitando altrove ma prestandogli quotidianamente assistenza in un periodo di tempo in cui, altrimenti, ne rimarrebbe privo.
Nel caso di specie, un medico era stato imputato e condannato in secondo grado per reato di truffa aggravata ai danni della ASL di appartenenza, per aver attestato, nella dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, di essere convivente con la madre disabile, mentre in realtà dimorava altrove. Per la Cassazione, però, la pronuncia del giudice del merito non può essere condivisa: in casi come questi l'indicazione di convivenza con la persona da assistere non può ritenersi di per sé falsa, non essendo necessariamente incompatibile con la diversa dimora del sanitario con la moglie e i figli né, di conseguenza, con la fruizione del congedo previsto dal decreto legislativo numero 151/2001.
L'unica cosa che rileva a tal fine, infatti, è la "prestazione di un'assistenza assidua e continuativa alla portatrice di handicap". Si rinvia quindi alla Corte d'appello per un nuovo giudizio.
Corte di Cassazione testo sentenza numero 24470/2017• Foto: 123rf.com