Nel caso di infortunio sul lavoro, il danno morale non deve configurarsi soltanto come riparazione delle sofferenze psichiche ma anche come lesione della dignità personale, particolarmente evidente quando un padre di famiglia venga ridotto allo stato vegetativo e così perda ogni legame con la vita, compresi i vincoli affettivi nell'ambito della comunità familiare, tutelata dagli artt. 2, 29 e 30 Cost. Sarebbe infatti iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento di un danno non patrimoniale diverso dal pregiudizio alla salute e consistente in sofferenze morali, e negarlo quando queste sofferenze non siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del danneggiato. E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione che, con sentenza n. 1716 del 7 febbraio 2012, ha rigettato il ricorso proposto da una società avverso la sentenza con cui la Corte d'Appello, confermando la decisione del giudice di primo grado, la riteneva responsabile dell'infortunio accorso ad un proprio dipendente il quale, mentre attendeva alla pulizia dell'orlo di una botola sita nel pavimento di un locale di lavoro, era stato colpito dal pesante coperchio della botola stessa, oscillante perché tenuto sospeso e trasportato da un carroponte, ed era precipitato nel locale sottostante con conseguente trauma cranico che ne aveva provocato un coma. La Suprema Corte sottolinea inoltre che a norma dell'art. 2087 cod. civ. l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori. Questa norma non impone all'imprenditore una responsabilità oggettiva ogni volta che il prestatore di lavoro abbia comunque sopportato un danno. Occorre invece che l'evento sia pur sempre riferibile alla colpa del primo, per violazione di obblighi di comportamento previsti da espresse disposizioni, anche infralegislative, o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuabili. (…) Una volta, poi, che il prestatore di lavoro o il suo rappresentante in giudizio abbia provato, come nel caso di specie, tanto il danno quanto il nesso causale con l'attività lavorativa, incombe sulla controparte l'onere di provare la mancanza della colpa.
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