La Corte d'appello ha sovrapposto e confuso il concetto civilistico di "danno" con quello assicurativo di "rischio"

di Paolo M. Storani - (seconda parte) In data 13 marzo 2014 è stata depositata dalla felice penna del Consigliere Estensore Dott. Marco ROSSETTI della Sez. III Civile, Pres. Libertino Alberto RUSSO, la sentenza n. 5791/2014 (PM Aurelio GOLIA) con cui il S.C. ribalta la pronuncia n. 385/2007 emessa il 13 febbraio 2007 dalla Corte d'Appello di Milano, fissando alcuni dirimenti paletti avuto riguardo alla responsabilità professionale dell'avvocato ed alla tutela che deve apprestare la compagnia assicurativa, nella fattispecie la RAS Riunione Adriatica di Sicurtà, ora Allianz, che curiosamente nella vicenda non ha svolto attività difensiva.

Quello che segue è il testo della motivazione con l'avvertenza che i grassetti e le sottolineature sono nostri e non dell'autorevole Estensore.


"1.2. Il motivo è fondato.

A pag. 4 della propria decisione la Corte d'appello di Milano individua e delimita la quaestio iuris ad essa devoluta: stabilire se, nell'assicurazione di responsabilità professionale dell'avvocato

, il 'fatto' che ex art. 1917 c.c., fa sorgere la responsabilità dell'assicurato, e quindi l'obbligo indennitario dell'assicuratore, vada ravvisato nella proposizione d'un appello tardivo, ovvero nel deposito della sentenza che ne dichiara la tardività. La sentenza prosegue affermando che la prima ipotesi deve scartarsi, perchè "la proposizione di un'impugnazione ad intervenuta decadenza, anche se configura un errore professionale, non è né può ancora considerarsi in sé produttiva di un evento dannoso, potendo nondimeno il processo seguitone trovare, per accadimenti vari, una conclusione che non generi un esito siffatto".

Alla successiva pag. 5 la Corte d'appello, chiamata a stabilire se il 'fatto' produttivo della responsabilità dell'assicurato, per i fini di cui all'art. 1917 c.c., potesse eventualmente ravvisarsi nella richiesta della cliente dell'avvocato di essere tenuta dalle conseguenze dannose dell'errore professionale da questi commesso, ha dato risposta negativa al quesito, soggiungendo che la pronuncia della sentenza di inammissibilità dell'appello tardivamente proposto dall'avv. D.G. fu "unica circostanza necessaria e insieme senz'altro sufficiente (...) a determinare l'insorgenza concreta dell'obbligazione di garanzia a carico dell'impresa assicuratrice".

Questa motivazione è, nello stesso tempo, carente per un verso, illogica per altro verso e contraddittoria sotto un terzo profilo.

1.3. La decisione della Corte d'appello è innanzitutto carente sul piano della valutazione degli elementi di fatto acquisiti nel corso del giudizio.

Vi si sostiene infatti che la proposizione d'un appello tardivo potrebbe in teoria concludersi con una pronuncia diversa dall'inammissibilità, e comunque non necessariamente può essere accompagnata dalla condanna dell'appellante alla rifusione delle spese di lite alla controparte. Tale affermazione, che potrebbe condividersi a livello generale, nel caso di specie andava tuttavia calata nel contesto della concreta fattispecie sottoposta all'esame del giudice di merito, e cioè una fattispecie nella quale l'avvocato dell'appellante aveva commesso un errore evidente ed inescusabile d'imperizia, consistito nell'impugnare una sentenza sottoposta a correzione di errore materiale, facendo decorrere il termine per il gravame dal deposito del provvedimento correzione anche per i capi non corretti.

La gravità e, soprattutto, l'indiscutibilità in iure dell'errore commesso dall'avvocato rendeva altissimamente probabile, se non pressochè certo, l'esito dell'appello da questi tardivamente proposto.

Pertanto l'affermazione secondo cui l'appello tardivamente proposto poteva concludersi, "per gli accadimenti più vari", con una pronuncia diversa dalla declaratoria d'inammissibilità è innanzitutto una asserzione che non tiene conto di tutte le specificità del caso concreto.

1.4. La motivazione adottata dalla sentenza impugnata è, in secondo luogo, illogica rispetto alle premesse da cui la stessa Corte d'appello aveva pur dichiarato voler muovere.

La Corte d'appello ha infatti affermato, a pag. 4, primo capoverso, della sentenza impugnata, di volere decidere la questione ad essa sottoposta "in conformità al solo dettato dell'articolo 1917 primo comma c.c.", e cioè a prescindere dall'esistenza d'eventuali clausole contrattuali che derogassero a tale previsione.

L'art. 1917 c.c., comma 1, come noto stabilisce che "nell'assicurazione della responsabilità civile l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto".

La Corte d'appello ha quindi affermato che il "fatto accaduto", in conseguenza del quale sorge il debito risarcitorio dell'assicurato, nel nostro caso andasse individuato nella sentenza della Corte d'appello di Bologna, la quale rigettò il gravame tardivamente proposto dall'avv. D.: e ciò sul presupposto che "non ogni fatto ingiusto produce un (...) vincolo obbligatorio, richiedendosi altresì che un evento pregiudizievole si verifichi in conseguenza del comportamento colposo".

Tale motivazione è illogica perchè non trae la debite conseguenze logico-giuridiche dalla premessa da cui pur dichiara di voler muovere.

La Corte d'appello infatti, dopo avere annunciato di volere risolvere la controversia alla luce del criterio dettato dall'art. 1917 c.c. (e quindi d'una norma assicurativa), ha individuato il fatto-fonte di responsabilità dell'assicurato verso il terzo (e quindi dell'obbligo dell'assicuratore verso l'assicurato) nella pronuncia della sentenza di condanna a carico del cliente dell'avvocato imperito.

In questo modo tuttavia la Corte d'appello ha sovrapposto e confuso il concetto civilistico di "danno" con quello assicurativo di "rischio", per giungere alla conclusione che nell'assicurazione contro i danni (nel cui genus rientra l'assicurazione di responsabilità civile) non possa esservi avveramento di rischio assicurativo sino a quando non si sia verificato un danno civilisticamente risarcibile.

1.5. L'iter logico seguito dalla Corte d'appello tuttavia non considera che il rischio, elemento essenziale del contratto di assicurazione, non coincide col concetto di danno.

Prima della stipula il contratto il rischio è la generica esposizione d'un bene od interesse dell'assicurato ad un pericolo (rischio c.d. extra assicurativo).

Al momento della stipula del contratto il rischio viene calato nelle concrete delimitazioni previste dalla polizza, ed assume il significato di evento futuro ed incerto al cui verificarsi l'assicuratore è tenuto al pagamento dell'indennizzo (rischio assicurato).

Dopo l'eventuale avverarsi dell'evento temuto e descritto nella polizza il rischio non v'è più ed è sostituito dal "sinistro", o "rischio avverato".

Con limitate eccezioni previete dalla legge (ad es., l'art. 514 c.n., che ammette l'assicurabilità del rischio putativo) il rischio dev'essere rappresentato da un evento futuro ed incerto, a pena di nullità o scioglimento del contratto (artt. 1895 e 1896 c.c.).

Ai fini della validità del contratto di assicurazione, tuttavia, quel che ha da essere "futuro" rispetto alla stipula del contratto non è il prodursi del danno civilisticamente parlando, ma l'avverarsi della causa di esso. Non è infatti mai consentita l'assicurazione di quel rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula, a nulla rilevando che l'evento - e quindi il concreto pregiudizio patrimoniale - si sia verificato dopo la stipula del contratto, quando l'avveramento del sinistro non rappresenta che una conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti prima di tale momento.

Così, ad esempio, sarebbe nulla ex art. 1895 c.c., per inesistenza del rischio l'assicurazione contro le malattie stipulata da persona in cui la patologia sia già insorta, a nulla rilevando che questa divenga oggettivamente visibile dopo la stipula del contratto; allo stesso modo, sarebbe nulla per inesistenza del rischio l'assicurazione del credito stipulata da chi abbia erogato un mutuo a debitore già insolvente, a nulla rilevando che il fallimento del debitore dell'assicurato sia stato dichiarato dopo la conclusione del contratto; sarebbe nulla, sempre per la stessa ragione, l'assicurazione della responsabilità civile stipulata da persona che abbia già tenuto una condotta illecita, a nulla rilevando che il danno da essa causato sia destinato a prodursi nel futuro.

Nè è rilevante in questa sede affrontare il delicato problema della derogabilità pattizia di tali principi, non essendo tale questione in discussione nel presente giudizio.

Questo dunque essendo il diritto assicurativo quo utimur, è evidente l'illogicità della motivazione della sentenza impugnata, là dove da un canto annuncia di volere fare applicazione dell'art. 1917 c.c., e dall'altro ne individua il presupposto fattuale nella produzione del danno civilistico derivante dalla condotta dell'assicurato, piuttosto che nell'avveramento dei presupposti causali del rischio dedotto in contratto.

Che tale motivazione sia irragionevole, del resto, risulta confermato dalla prova logica della reduetio ad absurdum: se, infatti, fosse corretta l'affermazione della Corte d'appello (secondo cui il "fatto accaduto" di cui all'art. 1917 c.c., coincide con l'avverarsi d'un danno civilistico), si dovrebbe pervenire all'assurdo che, quando il fatto illecito dell'assicurato causi a terzi un danno permanente (ad esempio, alla persona), l'assicuratore non sarebbe mai obbligato a tenere indenne l'assicurato per i danni da questi causati ma maturati a partire dal giorno successivo a quello di scadenza dell'efficacia del contratto.

1.6. La sentenza impugnata è poi illogica sotto un terzo e rilevante profilo: quello della coerenza deduttiva.

E', infatti, canone antico e noto della logica deduttiva quello secondo cui "illogicità" si ha tanto nell'ipotesi di inspiegabilità d'una tesi (come nel caso dell'assioma, del postulato o del dogma, ovvero quando si compie un'affermazione non suscettibile di dimostrazione razionale: c.d. entimema), tanto nel caso di contraddittorietà od incoerenza dello svolgimento di quella tesi, sussistenti quando le conseguenze non siano congrue con le premesse (come nel caso del paralogismo o falso sillogismo).

Nel nostro caso, la Corte d'appello ha affermato che, al momento in cui l'avv. D.G. propose il suo tardivo gravame, nessuna sua responsabilità potesse ipotizzarsi nei confronti del cliente, giacchè quel gravame mille e uno esiti avrebbe potuto avere, diversi dalla pronuncia di inammissibilità.

Giusta o sbagliata che sia tale affermazione nel suo fondo, essa costituisce comunque esercizio d'un giudizio controfattuale: la Corte d'appello si è posta infatti idealmente nel momento in cui l'avv. D.G. notificò il suo atto d'appello dinanzi la Corte d'appello di Bologna, per concludere che a quella data sarebbe stato non inevitabile l'esito sfavorevole della lite.

Ora, nel momento in cui la Corte d'appello ha ritenuto di risolvere la lite accertando i fatti sulla base d'un giudizio controfattuale (o prognosi postuma), avrebbe dovuto coerentemente considerare che la giurisprudenza di questa Corte di cassazione è ormai da tempo costante nell'affermare che un evento può ritenersi causato da un altro quando, al momento in cui si verificò il secondo, il primo ne appariva una conseguenza ragionevolmente prevedibile, in base al criterio del "più probabile che no" (ex permultis, Sez. 3, Sentenza n. 21255 del 17/09/2013, Rv. 628702; Sez. 3, Sentenza n. 13214 del 26/07/2012, Rv. 623565; Sez. 3, Sentenza n. 15991 del 21/07/2011, Rv. 618880; Sez. 3, Sentenza n. 12686 del 09/06/2011, Rv. 618137).

Nel nostro caso, la proposizione d'un appello incontestabilmente tardivo rendeva, al momento stesso della notificazione, "più probabile che non" una pronuncia di inammissibilità, e parimenti una condanna alle spese, posto che non si ravvisava causa veruna idonea a giustificarne la compensazione. La sentenza della Corte d'appello, in conclusione, è illogicamente motivata nella parte in cui ha da un lato ritenuto di valutare i possibili esiti della condotta dell'avv. D.G. al momento della notifica dell'atto d'appello tardivo, e dall'altro compiuto tale valutazione con criterio diverso dall'unico applicabile, e cioè quello d'una ragionevole previsione dell'esito del gravame.

1.7. Infine, ma non da ultimo, la motivazione adottata dalla Corte d'appello e trascritta al p.1.2 è contraddittoria.

Mentre, infatti, a pag. 4 della sentenza impugnata si afferma che la condotta illecita dell'assicurato "non è nè può ancora considerarsi in sè produttiva di un evento dannoso", così chiaramente mostrando di ritenere che quella condotta sia comunque un presupposto necessario per rendere operante il contratto di assicurazione della responsabilità civile, alla successiva pag. 6 arriva ad affermare che la sentenza dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello tardivamente proposto sia "l'unica circostanza necessaria ed insieme sufficiente" a determinare il sorgere dell'obbligo indennitario dell'assicuratore.

Conclusione che contraddice la premessa, perchè se una condotta colposa dell'assicurato è pur sempre necessaria perchè questi possa essere chiamato a rispondere d'un illecito od d'un inadempimento, la produzione dell'evento di danno non può di per sè ritenersi "unica condizione necessaria" per far sorgere l'obbligo indennitario dell'assicuratore della responsabilità civile.

1.7. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata e rinviata ad altra sezione della Corte d'appello di Milano, la quale nell'accertare i fatti di causa, alla luce di quanto esposto avrà l'onere di adeguatamente ed esaurientemente motivare:

(a) tenendo ben distinto il concetto di "rischio" assicurato da quello di "danno" civilistico;

(b) tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, ed in primo luogo della natura e dei presumibili effetti dell'errore commesso dall'avv. D.G. nell'esecuzione del mandato professionale;

(c) adottando, per compiere l'accertamento sub (b), il criterio logico c.d. del "più probabile che non".

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso l'avv. D.G. lamenta la violazione di legge, ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento all'art. 112 c.p.c.. Lamenta che la Corte d'appello ha posto a fondamento della propria decisione una valutazione (l'individuazione del "fatto-fonte" dell'obbligo risarcitorio per l'assicurato nel deposito della sentenza della Corte d'appello di Bologna, reiettiva del gravame) rilevata d'ufficio, e mai eccepita dalla società convenuta.

2.2. Il motivo è inammissibile per l'assenza di un valido quesito di diritto, ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c.: quello formulato dal ricorrente, infatti, è tautologico e privo di qualsiasi aggancio alla fattispecie concreta, il che ne comporta l'inammissibilità, come più volte affermato da questa Corte (ex multis, basterà ricordare al riguardo le due pronunce delle Sezioni Unite di questa Corte, ovvero Sez. U, Sentenza n. 28536 del 02/12/2008, Rv. 605848;

Sez. U, Sentenza n. 11210 del 08/05/2008, Rv. 602895).

3. Le spese.

Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 3."

E qui termina la motivazione allestita dalla sapiente penna del Dott. Marco Rossetti.

La prima parte di questa news è stata pubblicata in data 24 marzo 2014.


Vedi anche: La responsabilità professionale dell'avvocato. Un'anno di pronunce della Cassazione - Con raccolta di articoli e sentenze

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