Avv. Maurizio Vecchio - www.studiolegalevm.it
Il divieto del doppio giudizio per un medesimo fatto ( ne bis in idem) è applicabile anche nell'ipotesi di concorso tra reato ed illecito amministrativo. Ciò a condizione che i due processi abbiano ad oggetto lo stesso fatto e la sanzione amministrativa possa essere, nel concreto, assimilata ad una di natura penale ( ad esempio la pena pecuniaria). Così ha stabilito la Corte Europea dei Diritti dell 'Uomo nella sentenza Quarta Sezione, sent. 20 maggio 2014, Nykänen c. Finalandia fornendo una chiara e precisa interpretazione dell'art. 4 protocollo n7 della Convenzione che stabilisce il divieto di essere giudicati e puniti due volte per lo stesso fatto. Il caso deciso dalla Corte riguarda un cittadino finlandese accusato di aver occultato redditi di impresa, in realtà percepiti, per una somma di circa € 33.000 e condannato, in sede amministrativa, ad una sanzione pecuniaria (sopratassa). Egli veniva altresì sottoposto a procedimento penale per il reato di frode fiscale e condannato alla pena di mesi 10 di reclusione oltre al pagamento dell'imposta evasa. I Giudici di Strasburgo hanno precisato che, ai fini del riconoscimento del principio del ne bis in idem, occorre considerare la concreta natura delle sanzioni, indipendentemente dall'etichetta formale propria della legislazione interna. La sanzione ( anche pecuniaria ) deve essere considerata di natura penale allorchè abbia efficacia repressiva e preventiva.
Con riferimento alla Giurisprudenza della Corte il principio è ormai consolidato (Grande Camera, sent. 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, ric. n. 73053/01 ) ed una specifica pronuncia ha recentemente coinvolto l'Italia ( C. eur. dir. uomo, Seconda Sezione, sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, ric. n. 18640, 18647, 18663, 18668 e 18698/2010 )
Si trattava della vicenda Fiat ifil avente ad oggetto false informazioni al mercato con conseguenti violazioni di natura penale ed amministrative. Un noto professionista torinese, membro del cda, era stato sottoposto al procedimento amministrativo sanzionatorio di cui agli artt. 180 e segg t.u.f. e la relativa sentenza di condanna passata in giudicato. Il procedimento penale veniva celebrato avanti il Tribunale di Torino che assolveva l'imputato. La Procura
impugnava per saltum alla Corte di Cassazione che annullava la sentenza rinviando al giudice di primo grado. Ne seguiva la condanna del professionista che , in pendenza del ricorso per Cassazione, si rivolgeva alla Corte di Strasburgo. Anche in questo caso i Giudici della Convenzione affermavano l'applicabilità, alla fattispecie, del principio del ne bis in idem invitando lo Stato italiano a chiudere il procedimento penale pendente.La portata "rivoluzionaria" delle decisioni in commento è di evidenza se si considera che nel nostro ordinamento sono numerosissime le ipotesi normative che prevedono, a fronte della stessa condotta illecita, una sanzione di natura amministrativa accanto alla rilevanza penale del comportamento vietato. Un "doppio binario" che non si concilia affatto con quanto disciplinato dall'art. 4 protocollo n 7 della Convenzione, atteso che la quasi generalità delle sanzioni amministrative si caratterizzano per la loro natura repressiva e preventiva al pari di quelle penali. In materia tributaria il sistema del "doppio binario" costituisce la regola, tanto che risale al 1982 l'abolizione della c.d. Pregiudiziale tributaria, in virtù della quale il procedimento amministrativo e quello penale operano su piani diversi, autonomi e distinti. Analogo sistema è vigente in materia di violazioni del codice della strada ( ad esempio la guida in stato di ebbrezza ) e nelle numerose discipline penali speciali che spesso prevedono, accanto alla sanzione penale, la previsione dell'illecito amministrativo per uno stesso fatto ( diritto del lavoro, ambiente ed urbanistica, alimenti, ecc...).
La sfida riguarda tutti gli operatori del diritto: il Giudice, l'Avvocato e pure il legislatore. Come noto, infatti, le decisioni della CEDU non hanno efficacia diretta nel nostro ordinamento come autonoma fonte del diritto, ma il giudice nazionale è obbligato ad una interpretazione "conforme" della disciplina interna. In difetto - preso atto dell'assenza di un quadro interpretativo capace di adeguarsi alle disposizioni sovranazionali - non rimane che percorrere la via della illegittimità costituzionale delle disposizioni che impediscono l'adeguamento. Ciò in ragione di quanto previsto dall'art.10 della Carta che espressamente prevede l'obbligo dell'ordinamento giuridico interno di conformarsi alle norme di diritto internazionale riconosciute.
Sullo specifico tema la Corte di legittimità ha già mostrato alcune resistenze, ponendosi peró in aperto contrasto con il dictum della Corte Internazionale: cfr. Cass. Cass., Sez. III, sent. 8 aprile 2014 (dep. 15 maggio 2014), n. 20266, Pres. Squassoni, Rel. Pezzella, P.G. in proc. Zanchi. La decisione è intervenuta con pochi giorni di anticipo rispetto a quella pronunciata della Corte EDU , sebbene il presupposto argomentativo dei giudici di piazza Cavour tragga origine dalla sentenza Grande Stevens ( del tutto analoga a quella ultima ... ). In particolare il giudizio di legittimità aveva riguardo ai rapporti fra illecito amministrativo e precetto penale con riferimento alla fattispecie di omesso versamento di ritenute ( art. 10 bis D.lgs n. 74 del 2000). La Corte ha escluso ogni ipotesi di specialità fra violazione amministrativa e condotta penalmente rilevante, assumendo, al contrario, l'esistenza di un fenomeno di "progressione illecita" fra le due fattispecie.
Ciò in ragione delle diverse caratteristiche delle disposizioni sanzionatorie: soglie di punibilità e momento consumativo. La tesi si "scontra" irrimediabilmente con i precisi presupposti valutativi evidenziati dai Giudici di Strasburgo: ai fini del l'applicabilità del principio del ne bis indem occorre fare riferimento al caso concreto, quindi alla unicità e medesimezza della condotta illecita. Al contrario la Corte di legittimità ha considerato esclusivamente le fattispecie astratte, violando il principio dell'art. 4 protocollo n. 7 della Convenzione. Ed invero, non può che definirsi erroneo, nella prospettiva di analisi, il riferimento al principio di specialità. La decisione della CEDU non riguarda fenomeni giuridici di "sussunzione" o di "assorbimento" di un unica condotta riconducibile, in astratto, a più fattispecie, quanto l'inammissibilità di una reiterazione di condanne, concretamente di natura sanzionatoria penale, per un medesimo fatto. La coesistenza di due distinti procedimenti , per la stessa condotta, non determina secondo la Corte di Strasburgo alcuna violazione. Ciò che rileva - e che risulta inammissibile - è il venire ad esistenza di due autonomi giudicati ed è esattamente tale fenomeno che si intende prevenire ed escludere.
Sul punto l'opzione interpretativa "conforme" alla decisione dei Giudici europei è, per il nostro ordinamento, solo parzialmente agevole. Allorché uno dei due procedimenti è definito, mentre l'altro risulta pendente, potrà comunque soccorrere una interpretazione "orientata" e conforme dell'art. 649 c.p.p. Assai più complicati i profili di intervento in ipotesi di due situazioni egualmente coperte dal giudicato. L'intangibilità della cosa giudicata impone una vasta riflessione, soprattutto in considerazione del diverso concetto di giudicato in ambito amministrativo nei casi in cui l'atto della Pubblica Amministrazione non è stato oggetto di gravame giurisdizionale. In queste ipotesi la lacuna ordinamentale è palese. Ma pure grave, perché rischia di essere impedita una interpretazione conforme al diritto internazionale , creandosi, contestualmente, un vulnus costituzionale per violazione dell'art. 10 della Costituzione.
In questo quadro lo Stato italiano si espone al rischio di numerose condanne in sede europea per violazione della Convenzione, salvo che non si ponga rimedio in sede legislativa, dove dovrebbe essere strutturata una riforma di sistema. Più precisamente la previsione di un sistema sanzionatorio amministrativo riservato esclusivamente a condotte non penalmente rilevanti. Laddove, invece, il comportamento illecito risulta già efficacemente presidiato dal precetto penale, l'intervento amministrativo non dovrebbe più avere finalità preventive o afflitive, ma esclusivamente "riparative".
Certamente auspicabile, invece, l'intervento dell'Avvocato che dovrà porre attenzione alle scelte strategiche in favore del proprio assistito e promuovere le azioni opportune nelle giuste fasi processuali , allorché una interpretazione conforme alle decisioni della CEDU è , da parte del Giudice nazionale, concretamente praticabile.
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