"L'onore e la reputazione sono beni personali, che non possono essere lesi, in maniera gratuita, per nessuna ragione, in quanto anche i condannati, finanche per reati gravi, hanno diritto, quali membri del consorzio umano, al rispetto della dignità personale, che cede solo nel confronto con altri valori parimenti rilevanti (il diritto di informazione, di cronaca, di difesa, ecc.)".
Affermando tale principio di diritto la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 42825 del 13 ottobre 2014, ha confermato la condanna di una donna al risarcimento dei danni nei confronti dell'ex marito responsabile di violenza sessuale nei confronti della figlia e parte offesa del reato di ingiuria, per averlo apostrofato in presenza di più persone come "maniaco".
La donna presentava ricorso per Cassazione dolendosi dell'errata applicazione della normativa in materia di ingiuria e deducendo che "l'espressione utilizzata non aveva carattere ingiurioso perché giustificata dai rapporti fortemente conflittuali tra colpevole e offeso e dalla personalità di quest'ultimo, condannato per violenza sessuale nei confronti della figlia".
I giudici di piazza Cavour, invece, ritenendo decisivi i caratteri della perentorietà e gratuità delle offese provenienti dall'imputata, hanno ritenuto che l'esistenza di rapporti conflittuali tra le parti non potesse di per sé "scriminare la condotta", ma rendesse semmai "palese che l'epiteto era espressione di malanimo e di prava voluntas iniuriandi" cosa che rende inoperante "l'esimente del diritto di critica e di qualsivoglia altro diritto collegato alla manifestazione del pensiero".
Per questi motivi hanno rigettato il ricorso, ritenendo inoperante anche l'esimente della provocazione, giacché, "il concetto di immediatezza, espresso dall'art. 599, secondo comma cod. pen., con la locuzione avverbiale "subito dopo", pur nella elasticità con cui deve essere interpretato in relazione a ciascuna fattispecie, non può comunque trascurare il nesso eziologico tra fatto ingiusto e stato d'ira".
Corte di Cassazione -sentenza n. 42825/2014