di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione civile, sezione terza, sentenza n. 24471 del 18 Novembre 2014.
In sede di appello, è negato a un uomo il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico poiché "non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da un uomo". Una motivazione che, tralasciando ogni commento etico e sociale, finisce sotto la scure della Cassazione civile poiché viziata da illogicità e contraddittorietà.
Dopo aver premesso che il lavoro domestico è sicuramente una "utilità suscettibile di valutazione economica, e che la perduta possibilità di svolgerlo costituisce un danno risarcibile" la Suprema corte - oltre a mettere in dubbio tale "ordine naturale delle cose" - conferma che il riparto del lavoro domestico tra i coniugi è "ovviamente frutto di scelte soggettive e costumi sociali", di sicuro non sindacabili da un giudice.
Il principio vigente nel nostro ordinamento è infatti quello della pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, così come enunciato dall'art. 143 cod. civ. E, in assenza di prove contrarie, "è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che il contrario".
L'aver riportato, a seguito di un incidente stradale e come nel caso in oggetto, lesioni gravi e invalidanti che per parecchio tempo hanno costituito impedimento al regolare svolgimento del lavoro domestico, rappresenta sicuramente idonea fonte di risarcimento del danno.
Il ragionamento della Corte d'appello è errato e discriminatorio, avendo presunto, sulla sola base del sesso maschile, che l'interessato non apportasse alcun vantaggio domestico diretto alla famiglia. Per le motivazioni sopra esposte, poiché "la perduta possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce un danno patrimoniale, pari al costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima non ha potuto sbrigare da sè", il ricorso è accolto e la sentenza cassata con rinvio.
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