di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione sezione lavoro sentenza n. 467 del 14 Gennaio 2015.
Se il coniuge, a causa dell'attività lavorativa esercitata, contrae patologia che di fatto gli inibisce di avere regolari rapporti sessuali, il marito o la moglie hanno diritto a richiedere il relativo risarcimento del danno.
Ma se questo è il principio generale, nel corso del giudizio va dimostrato il nesso causale tra la patologia e l'attività lavorativa esercitata, non essendo sufficiente la prova di una mera possibilità di aver contratto la malattia.
Il ricorrente aveva lamentato che i giudici d'appello non avevano considerato che le prove testimoniali avevano confermato l'esposizione del lavoratore ad agenti patogeni.
Secondo la Cassazione però la corte territoriale ha correttamente valorizzato il fatto che le testimonianze hanno confermato la non continuità della vicinanza del lavoratore agli agenti patogeni.
La corte d'appello, spiegano i giudici di Piazza Cavour, ha correttamente applicato Principi di diritto affermati già da questa stessa corte secondo cui "in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro" deve essere valutata "in termini di ragionevole certezza".
Non basta dunque una mera possibilità dell'origine professionale. Occorre piuttosto che sussista un rilevante grado di probabilità.
Ancora una volta la Corte ricorda che, quando chiamata a ripetere valutazioni che riguardano i fatti di causa, la Cassazione, in quanto giudice del merito, deve limitarsi a conoscere degli elementi fattuali tramite un sindacato indiretto sulla motivazione: se essa resiste al vaglio di logicità e ragionevolezza, allora la decisione del giudice del merito risulta esente da vizi, circostanza verificatisi nel caso di specie.
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