di Licia Albertazzi - Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 2692 dell'11 Febbraio 2015.
Quando un atto offensivo, manifestato dal dipendente nei confronti del proprio superiore, può essere qualificato come illecito disciplinare "grave", così da legittimare il conseguente licenziamento per insubordinazione?
Alcuni parametri di riferimento li indica questa sentenza della Cassazione. Nel caso di specie il giudice di primo grado ha accolto la domanda di un dipendente che non ha contestato l'esistenza dell'illecito ma la lavutazione della sua gravità.
Nel rivolgersi al suo superiore, che lo aveva richiamato all'ordine, con parole offensive ha lamentato l'errata qualificazione dell'illecito disciplinare che a suo dire, si tratterebbe di illecito lieve, tale da non giustificare il licenziamento. Del resto l'interessato non aveva rifiutato alcuna prestazione lavorativa richiesta e nel corso del giudizio faceva notare che nel contratto collettivo di categoria la sanzione espulsiva era accostata a gravi reati accertati con sentenza definitiva.
Annullato il licenziamento dai giudici di merito, la società ha proposto ricorso in Cassazione che però osserva come le parole profferite dal lavoratore sono state di fatto ricondotte a un turbamento psichico transitorio (accertamento di merito precluso in Cassazione).
La Suprema corte ha così confermato la sentenza impugnata evidenziando che "il contratto collettivo parifica all'insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, gravi reati accertati in sede penale, quali il furto e il danneggiamento" per questo si deve "ritenere rispettosa del principio di proporzione la decisione della Corte di merito, che non ha riportato il comportamento in questione, certamente illecito, alla più grave delle sanzioni disciplinari, tale da privare dei mezzi di sostentamento il lavoratore e la sua famiglia".
La sanzione dunque è totalmente sproporzionata rispetto ai riflessi economici e sociali che la stessa avrebbe potuto avere sull'interessato.
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