di Marina Crisafi - È legittimo il sequestro dei gioielli della moglie se si presume che siano stati acquistati con i soldi provenienti dal peculato del marito. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 45517/2015 depositata ieri (qui sotto allegata), rigettando il ricorso di una donna avverso l'ordinanza di sequestro probatorio dei beni preziosi rinvenuti nella cassetta di sicurezza alla stessa intestata. La donna era indagata per riciclaggio (ex art. 648-bis c.p.), per avere, secondo quanto sostenuto dall'accusa, acquistato beni con le utilità provenienti dal profitto dei delitti di peculato commessi dal marito. Veniva, pertanto, disposto il sequestro dei gioielli al fine di verificare se il loro acquisto fosse antecedente o successivo alla commissione del reato di riciclaggio. Per tutta risposta, la donna chiedeva il dissequestro dei documenti e la restituzione di alcuni dei beni sequestrati.
La vicenda finiva in Cassazione, ma per la seconda sezione penale il tribunale ha agito correttamente. In sede di riesame del sequestro
probatorio, hanno dichiarato infatti dal Palazzaccio, "il tribunale è chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il fumus commissi delicti in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell'accusa, ma con riferimento alla idoneità degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria".Nel caso di specie, la motivazione del provvedimento impugnato è coerente con la giurisprudenza della S.C. avendo il tribunale giustificato l'esigenza che i gioielli sequestrati restassero a disposizione dell'autorità giudiziaria per accertare se fossero pertinenti al reato di riciclaggio contestato. Per cui, la Corte ha concluso per l'inammissibilità del ricorso e la condanna della donna al pagamento delle spese processuali.
Cassazione, sentenza n. 45517/2015