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Cassazione: fingersi carabiniere per derubare non è truffa ma rapina



Nulla di più vile che fingersi un esponente delle forze dell'ordine per raggirare anziani, così da poterli tranquillamente alleggerire di contanti e gioielli. Ancor più vile poi accanirsi su cavilli "legalesi" per poter alleggerire la propria pena.

Questa però è stata la via maestra di un giovane ligure, che spacciandosi per maresciallo dei carabinieri era riuscito a entrare nella casa di due anziani coniugi, e farsi consegnare una mazzetta di banconote da 50 euro con la scusa di dover verificare l'autenticità (o meno) del loro numero di serie. Sin lì i coniugi non avevano sospettato di nulla, pensando in un servizio "door-to-door"; a far sorgere qualche dubbio era stata invece la richiesta di depositare tutti i loro gioielli su un tavolo. Proprio a questo punto il marito aveva deciso di chiamare i carabinieri, quelli veri però. All'arrivo dei militi, l'aspirante maresciallo aveva spintonato un brigadiere nel tentativo di darsi alla fuga. Naturalmente fallendo.

Nei processi di primo e secondo grado (Tribunale di Savona, sentenza del 1/10/2008 e Corte d'appello di Genova, sentenza del 7/12/2011) l'imputato era stato giudicato colpevole di tentata rapina aggravata e resistenza a pubblico ufficiale. Sentenza a cui si era opposto, facendo ricorso in Cassazione.

Motivo principale del ricorso era proprio la natura stessa del proprio crimine, che secondo l'imputato era stata ingiustamente aggravata, passando dall'essere un semplice tentativo di truffa ad uno di rapina. Un cavillo "legalese" che avrebbe causato un'erronea qualificazione giuridica del fatto, e che avrebbe però aggravato, e non di poco, il crimine commesso.

Per la sua difesa la "Corte avrebbe omesso di accertare la direzione finalistica dell'azione tenuta dal ricorrente non avendo considerato che la minaccia di perquisizione rivolta ai coniugi era fisiologica alla riuscita del piano. Ma poi, in concreto, nessuna violenza era stata esercitata, sicché l'affermazione della Corte- secondo la quale l'imputato non avrebbe esitato ad usare violenza o minaccia per conseguire il possesso dei beni- non trovava alcun valido suffragio negli atti né a corroborarla giovava la considerazione che il ricorrente paventò al signor M. e alla di lui moglie di procedere a perquisizione se non avessero esibito i gioielli. Questo comportamento, al più, avrebbe potuto configurare, in caso di effettiva coartazione della vittima, il diverso reato di estorsione ma non quello di tentata rapina."

I giudici della Seconda sezione penale della Suprema Corte, con sentenza 11090/2013, hanno però rigettato il ricorso, ritenendo che "il fatto fosse stato esattamente configurato come una rapina impropria osservando che proprio la presenza delle persone offese e la loro sorveglianza sui beni, richiamata dall'appellante, dimostra che ben difficilmente l'imputato sarebbe riuscito, soprattutto per quanto riguarda i preziosi, a sottrarli con l'inganno; cosicché egli, all'occorrenza, avrebbe fatto ricorso alle condotte tipiche del reato di rapina per ottenere il proprio scopo."

La consegna dei gioielli non avvenne a "mezzo di una condotta decettiva ma con una vera e propria minaccia tant'è che il M. telefonò ai C.C., cosa che, invece, non aveva fatto quando gli era stato chiesto di consegnare le banconote". Data: 28/03/2013 10:30:00
Autore: Barbara LG Sordi