Diffamazione online e responsabilità del gestore del sito web
di Filippo Lombardi - Il presente scritto si pone come fine quello di enucleare le più recenti impostazioni giurisprudenziali, di merito e di legittimità, su una delle questioni più "roventi" della c.d. era 2.0 e cioè la responsabilità del blogger per i contenuti diffamatori inseriti da terzi sul blog (ciò che si dirà può essere però facilmente esteso a qualsiasi sito internet o pagina personale aperti al commento altrui, ad esempio i social network).
In altri termini, la questione riguarda la definizione della responsabilità penale nel caso in cui un blogger permetta ad altri di accedere alla propria "piattaforma virtuale" e ivi commentare in modo lesivo dell'altrui reputazione.
1. La diffamazione tout court.
Il delitto di diffamazione è posto, assieme a quello di ingiuria (rispettivamente artt. 595 e 594 c.p.), a protezione del bene giuridico dell'onore, il quale viene abitualmente scisso nelle due species di onore in senso soggettivo ed onore in senso oggettivo (o reputazione).
Mentre il primo è definibile come "l'idea che un soggetto ha di sé", il secondo – che coincide con la reputazione – altro non è se non il modo in cui la collettività guarda al singolo.
Più specificamente, è chiaro che il diritto fondamentale a che l'individuo esprima se stesso come singolo o in gruppi allargati (art. 2 Cost.) comporti che il contesto sociale si formi un pensiero sulle qualità e sui caratteri di un suo componente. Dunque l'onore oggettivo o reputazione si atteggerà come il risultato dell'opera di "traduzione" operata dal collettivo, avente ad oggetto la proiezione individuale del singolo.
E' stato sostenuto, altresì, che la reputazione dipenda (anche) da un'aspettativa sociale, avente ad oggetto la capacità del singolo di "essere un buon cittadino", osservando le regole giuridiche e sociali. In questo modo, dunque, si configurerà la diffamazione anche qualora il soggetto non si sia ancora "espresso" nel collettivo di appartenenza, in quanto quest'ultimo già si pre-costituisce, in forma idealizzata, la reputazione dei propri membri.
Il reato è generalmente inteso come delitto di evento in senso naturalistico, poiché richiede la lesione della reputazione.
Esso si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione lesiva dell'altrui reputazione viene esternata in modo da essere percepibile da più soggetti, non richiedendo di essere compresa nel suo senso. Se tra i presenti vi è il destinatario del messaggio lesivo, la diffamazione si configura solo nel caso in cui per quest'ultimo risulti assolutamente non percepibile l'offesa (contrariamente, si perfezionerà il diverso delitto di ingiuria).
Ciò ha portato attenti Autori ad abbracciare una nuova concezione di onore, la c.d. "concezione di onore in senso normativo", fondata sull'art. 3 Cost., in virtù della quale i reati posti a protezione dell'onore puniscono in realtà il mero "ergersi a giudice dell'altro". L'adesione a tale tesi comporterebbe la necessità di (re)interrogarsi se il delitto de quo continui ad essere un reato di evento naturalistico o si tramuti in reato di condotta (o di evento di pericolo, abbracciando la concezione di evento in senso giuridico).
Quanto detto è giustificato dal fatto che il delitto di diffamazione, così come quello di ingiuria, ha per oggetto un bene giuridico di cui non è sempre dimostrabile e/o misurabile la lesione; essa viene, perciò, normalmente ricavata da massime di esperienza, il che non è molto distante da ciò che avviene durante il vaglio della pericolosità di una condotta.
Il tutto può essere chiarito con un esempio. Se Tizio definisce Caio un "arrampicatore sociale" dinanzi a più persone, molto probabilmente egli verrà condannato per diffamazione. Ma, alla domanda "cosa si sta punendo?", si potrebbe rispondere in due modi parimenti efficaci:
a) si sta punendo l'avvenuta lesione della reputazione, e per dirlo usiamo massime di esperienza;
b) si sta punendo l'alta probabilità che l'affermazione, metabolizzandosi nelle menti di chi l'ha carpita, sfoci nella lesione della reputazione dell'offeso; usiamo in ogni caso, per tale valutazione, delle massime di esperienza, ma non al fine di dire che la lesione si sia verificata, bensì per affermare che possa in concreto verificarsi.
Si comprende, cioè, come non sia allo stato attuale estremamente chiaro, stante l'adesione alla teoria normativa di onore, se il delitto di diffamazione rimanga di evento o si tramuti in reato di condotta.
Peraltro, se si rivaluta il concetto di offesa alla luce della concezione di evento in senso giuridico, nel senso che essa potrà significare tanto la lesione quanto la messa in pericolo del bene giuridico protetto, il problema ermeneutico si fa ancor più serio, in quanto nella norma si legge "Chiunque [...] offende l'altrui reputazione", potendo ciò significare sia che l'agente abbia potuto ledere la reputazione, sia che lo stesso abbia potuto metterla a repentaglio.
2. Responsabilità dell' "avventore virtuale" che faccia dichiarazioni lesive dell'altrui reputazione.
Come già segnalato nell'incipit, l'utente che accede ad un blog (o pagina personale di un social network o sito internet in senso ampio) può avere la possibilità di postare qualcosa, vale a dire lasciare un commento, partecipare a discussioni attraverso appositi spazi di risposta o attraverso l'utilizzo di un forum o di una chat.
Le sue dichiarazioni, qualora lesive dell'altrui reputazione, daranno certamente origine al delitto di diffamazione, con l'aggiunta dell'aggravante speciale di cui al comma 3 dell'art. 595: "Se l'offesa è recata [...] con qualsiasi altro mezzo di pubblicità".
L'aggravante è progettata per punire con maggior rigore il caso in cui la dichiarazione lesiva possa essere veicolata, stante la natura dello strumento utilizzato per renderla nota, fino a raggiungere un enorme numero di destinatari (in altri termini, non una cerchia ristretta e ben determinata di individui, bensì il pubblico). La ratio è dunque quella di punire più aspramente chi cagiona danni incalcolabili alla reputazione altrui.
Muovendo da tale assunto, deriva che la responsabilità per diffamazione è diretta per l'offensore, mentre maggiori questioni interpretative ha sollevato la tematica della responsabilità di colui che ha l'amministrazione e/o la gestione del sito ove si sia perfezionato il reato.
Non può però omettersi una segnalazione: il vaglio della responsabilità dell'offensore deve sempre fare i conti con la configurabilità della scriminante di cui all'art. 51 c.p., riempita col contenuto del diritto di cronaca o di critica. Nel caso in cui la stessa operi, la condotta, pur penalmente rilevante, non sarà antigiuridica e dunque il fatto non costituirà reato.
Il diritto di cronaca, in realtà, è conferito restrittivamente al solo giornalista, il quale deve narrare un fatto con l'utilizzo di tre "accortezze":
1) verità (nel senso di verosimiglianza). Tale requisito, afferente la dichiarazione inserita nell'articolo giornalistico, si traduce in un dovere di ricerca delle fonti, da parte dell'articolista, nel senso che egli non deve procedere alla pubblicazione della notizia se prima non ha vagliato che essa sia confermata da altre testate. Egli non può accontentarsi di un'unica fonte, nemmeno basandosi sull'autorevolezza della stessa.
2) pertinenza (nel senso di interesse pubblico alla ricezione della notizia). La notizia va pubblicata se sussiste un interesse della collettività alla "presa visione" della stessa.
3) continenza (nel senso di linguaggio pacato). L'articolista deve tenere un tenore lessicale rispettoso dell'altrui persona, che non miri all'attacco gratuito, alla demolizione della personalità morale, che non sia ironico, sbeffeggiante, o subliminalmente aggressivo. La continenza, in altri termini, altro non è se non l'educazione che si deve riporre anche nei riguardi del più spietato criminale.
Il diritto di critica, al contrario, appartiene a tutti i consociati, e si sostanzia in una situazione giuridica attiva che consente di esprimere un'argomentazione decostruttiva dell'altrui tesi, anche attraverso toni forti. La critica deve però sottostare a regole simili a quelle previste per il diritto di cronaca, pur con delle differenze:
a) non esiste l'obbligo di verità. La critica ricalca un'opinione personale, di stampo puramente soggettivo, e dunque non può atteggiarsi né come verità oggettiva né come dovere di ricerca di altre fonti dal contenuto uguale.
b) sussiste la pertinenza, in senso "affievolito". Certamente non si deve valutare l'interesse del pubblico alla conoscenza della critica nel senso chiarito prima, ma è sufficiente che la critica sia giustificata mediante motivazioni ricavate "aliunde", essendo essa lecita nel momento in cui il suo contenuto possa essere sufficientemente "interessante" per l'opinione pubblica.
c) resta la continenza, in senso meno rigoroso. La critica permette toni aspri, poiché tesi alla sopraffazione ragionata e argomentata dell'altrui posizione espressa. Rimane fondamentale, però, che essi non trasmodino in un attacco personale: obiettivo della critica deve cioè essere l'opinione altrui, non l'altrui personalità morale o psico-fisica.
3. Il ruolo del gestore del sito. E' responsabile del reato altrui?
Ci si deve ora chiedere se esistano ripercussioni, ai danni di chi ha il controllo del sito web, per il reato posto in essere sullo stesso dai "visitatori". Si enucleeranno di seguito gli spunti più rilevanti e le tesi sostenute.
3.1. Punibilità ex art. 57 c.p. Giurisprudenza di merito vs Giurisprudenza di Legittimità.
L'art. 57 del codice penale pone a carico del direttore (o del vice-direttore) del giornale la responsabilità per i reati commessi dal giornalista nell'espletamento del proprio lavoro (es. diffamazione) all'interno dell'azienda.
La norma fa salvi i casi di concorso nel reato, per i quali si applicherà l'art. 110 c.p., cioè i casi in cui il soggetto in veste apicale abbia almeno accettato il rischio che si verificasse il compimento del reato o abbia comunque agito con dolo affinché ciò avvenisse.
Dunque, l'articolo 57 cit., stante la "espulsione" dall'ordinamento penale di ogni forma di responsabilità oggettiva, viene inteso da alcuni come configurante un concorso omissivo colposo nel reato doloso altrui, da altri come reato autonomo in quanto non sarebbe dogmaticamente possibile un concorso colposo nel reato doloso.
Il direttore verrà sanzionato nel caso di omesso controllo sull'attività del giornalista, qualora ciò derivi da negligenza, considerata la complessità dell'organizzazione interna aziendale e il minimum di libertà valutativa che deve essere riconosciuta all'articolista, dovendosi appuntare il maggior controllo sugli aspetti informativi dell'articolo e, solo in maniera secondaria e meno stringente, sugli aspetti di commento.
L'art. 1 della legge sulla stampa definisce stampa "le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione".
Si è posto, allora, il problema di comprendere se il sito web può considerarsi "stampa" o meno: nel primo caso, esso vedrà assoggettarsi il regime di cui all'art. 57 c.p., con emersione di profili di responsabilità per il gestore del sito; nel secondo caso, dovrà concludersi per la liceità della condotta (dal punto di vista processuale, la formula assolutoria sarà "Il fatto non è previsto dalla legge come reato").
E' proprio a tal riguardo che emerge la necessità di presentare le molteplici posizioni dei giudici di merito e della Corte di Legittimità, spesso in aperto contrasto.
La Corte di Cassazione ha oramai consolidato i propri orientamenti, abbracciando la tesi c.d. "autonomista", la quale fa leva sulla differenza ontologica del mezzo cartaceo rispetto al web, sicché non è possibile applicare l'articolo 57 c.p., pena la violazione del divieto di analogia della norma incriminatrice, disciplinato dall'art. 14 delle Preleggi.
Va dato rilievo però anche alla tesi c.d. "assimilazionista", per la quale risulta applicabile l'art. 57 cit., non per il tramite dell'analogia legis, quanto con l'utilizzo dell'interpretazione estensiva.
Per asserire ciò, è necessario considerare come rilevante non il mezzo diverso (il cartaceo è fisicamente diverso dal telematico) quanto il fine informativo comune. Valorizzando lo scopo, condensato nell'articolo 1 della l. 47/1948 nell'inciso finale "in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione", si è in grado, secondo i sostenitori di siffatta tesi, di estendere le maglie concettuali della stampa fino a ricomprendere anche la pubblicazione su web.
Tale interpretazione estensiva sarebbe però possibile solo qualora la pagina web abbia caratteristiche intrinseche, fenomeniche e formali tali da rendere possibile l'equiparazione sul piano sostanziale tra essa e un giornale di informazione reso in cartaceo.
In sintesi, la tesi maggioritaria – espressa dalla Cassazione – riguarda l'impossibilità, allo stato attuale di considerare il web "stampa", e la conseguente indebita estensione al blogger o al gestore di sito web della responsabilità ex art. 57 c.p., pena la violazione del divieto di analogia in malam partem; la tesi espressa da parte della giurisprudenza di merito è nel senso della punibilità del gestore del sito web per i reati ivi commessi dagli utenti, attraverso una interpretazione estensiva del concetto di stampa, operabile a seguito di un'attività ermeneutica che l'interprete deve condurre valutando l'assimilabilità del sito web ad un normale quotidiano cartaceo di informazione.
3.2. Punibilità del gestore per responsabilità diretta ex art. 40 comma 2 cod. pen.
In una recente pronunzia del Tribunale di Varese, viene palesata, oltre all'adesione alla tesi della possibile interpretazione estensiva del concetto di stampa fino a ricomprendere il sito web, una impostazione ancora più rigorosa e decisiva: la responsabilità diretta in forma omissiva, ex art. 40 comma 2 del codice penale.
Si rivendica, cioè, l'esistenza di un dovere in capo al gestore della pagina web di evitare il fatto illecito altrui, stante un potere concreto esistente in tal senso, derivante dalla relazione fattuale e funzionale tra l'amministratore e il proprio sito.
In realtà, attenta dottrina critica l'impostazione adottata, in quanto, aderendo alla oramai maggioritaria tesi del "trifoglio", secondo la quale la posizione di garanzia può solo derivare dalla legge, dal contratto e dalla precedente azione pericolosa, non vi sarebbe la possibilità di rintracciare la responsabilità del gestore del sito per la diffamazione da altri perpetrata.
Non esiste, innanzitutto una legge da cui derivi tale posizione di garanzia, né è possibile ritenere che, all'atto di "aprire" una pagina web, l'utente si accordi contestualmente con chi mette a disposizione lo spazio virtuale, nel senso di impegnarsi ad evitare il compimento di illeciti altrui; e neppure la stessa apertura della pagina virtuale si può considerare "precedente azione pericolosa", in quanto essa è una semplice facoltà che rientra nella posizione giuridica soggettiva dell'utente.
3.3. Punibilità per concorso morale (istigazione o determinazione) ex art. 110 c.p. o per istigazione a delinquere.
La presente trattazione può essere conclusa interrogandosi se, stante l'assenza (almeno secondo l'impostazione prevalente della Corte di Legittimità) di una responsabilità del gestore del sito web ex artt. 40 comma 2 o 57 cod. pen., sia possibile rinvenire profili di responsabilità penale alternativi.
Ciò si verifica senza dubbio nei casi di condotta del soggetto agente finalizzati a produrre dolosamente l'intervento altrui avente contenuto diffamatorio; in altri termini, la responsabilità penale andrà circoscritta ai casi in cui il titolare della pagina web, con una propria condotta animata dal requisito volontaristico, spinga taluno appartenente ad una cerchia indeterminata di possibili utenti, o un soggetto specifico, ad esternare affermazioni lesive dell'altrui reputazione.
Rispetto al secondo caso, si possono immaginare soltanto due accadimenti plausibili:
1) il soggetto viene "evocato" dall'agente attraverso un sistema di tagging (come accade sui social network) e spronato al turpiloquio o all'offesa;
2) il soggetto sia già intervenuto sul sito web e il gestore, con un ulteriore intervento – ad esempio in risposta al commento dell'utente – istighi il soggetto a diffamare.
L'istigatore risponderà in base al combinato disposto degli articoli 110 e 595 c.p.
Al di fuori della ordinaria istigazione intesa come concorso morale nel reato altrui ex art. 110 cit., è chiaro che potrà ben configurarsi l'ipotesi dell'istigazione a delinquere, p. e p. ex art. 414 c.p., in quanto essa richiede, oltre alla condotta di istigazione, che questa avvenga pubblicamente. Per "pubblicamente", si intende che il fatto deve avvenire in un luogo pubblico, o aperto al pubblico, od anche attraverso un mezzo di propaganda (art. 266 comma 4, c.p.).
Essendo il web un "luogo" inteso come piattaforma virtuale a cui può accedere un numero indeterminato di persone, si può ritenere che esso ben configuri l'elemento richiesto ai fini dell'istigazione a delinquere.
E' comunque necessario che, essendo il reato de quo un reato di pericolo concreto, le affermazioni del soggetto agente non si limitino ad essere delle semplici manifestazioni di pensiero, bensì arrivino, per le loro modalità, ad integrare un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti.
La responsabilità penale ex art. 414 c.p. dipenderà dunque dalla sola condotta di istigazione del gestore. Nel caso in cui un qualsiasi utente, accogliendo l'istigazione, realizzi il delitto di diffamazione, il gestore risponderà non solo ex art. 414 cit. bensì anche di concorso ex art. 110 c.p. nel reato doloso altrui concretamente posto in essere.
I reati potranno subire il trattamento del concorso formale, ex art. 81 co. 1 del codice penale.
Data: 24/06/2013 16:40:00Autore: Filippo Lombardi