Condanna penale ed incandidabilità.
di Gerolamo Taras - Vi propongo la sentenza n. 695/2013 in data 6 febbraio 2013 del Consiglio di Stato. Senza commenti ma che, comunque, ritengo abbastanza adeguata e sapiente, anche perché emessa a poca distanza dall' entrata in vigore del decreto legislativo n. 235/2012 e, sicuramente, non condizionata dal penoso spettacolo di discussioni e tirate di giacca cui stiamo assistendo in questi giorni.
Le considerazioni svolte dai Giudici, possono essere utili per il formarsi di un' opinione personale ed indipendente, sulle conseguenze della Sentenza Mediaset. Riflessione quanto mai necessaria, in una giornata come questa, che si appresta a diventare decisiva per tante situazioni giunte all' 8 settembre (giornata per molti versi infausta) col loro carico di apprensioni e tensioni da ultima spiaggia e che rischia di diventare amara per le sorti della legislatura e, soprattutto, per i tanti problemi, ancora irrisolti, degli italiani.
Il Consiglio di Stato (Sezione Quinta) con la decisione sopra citata, aveva respinto l'appello contro la sentenza breve del T.A.R. MOLISE n. 00027/2013, presentato da M.M. Il TAR aveva confermato, a seguito del ricorso di M.M. il provvedimento dell'Ufficio Centrale Regionale per le elezioni regionali in Molise che ne cancellava il nominativo dalla lista regionale a supporto del candidato a presidente Paolo di Laura Frattura (elezioni regionale del 24 e 25 febbraio 2013).
Dal casellario giudiziale, a carico del ricorrente era risultata, infatti, una sentenza di condanna, divenuta definitiva il 19.12.2001, relativa al delitto di abuso d'ufficio. Prevista dall'art. 7, comma 2, lett. c), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 quale causa di incandidabilità.
Queste le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato, per replicare alla tesi dell' appellante, secondo cui la normativa inibitoria di cui al citato D.Lgs. n. 235/2012 sarebbe applicabile solo con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore.
Osserva, infatti, la Sezione che l'applicazione delle cause ostative introdotte da nuove norme alle sentenze di condanna intervenute in un torno di tempo anteriore, non si pone in contrasto con il dedotto principio, ricavabile dalla Carta Costituzionale e dalle disposizioni della CEDU, dell'irretroattività delle norme penali e, più in generale, delle disposizioni sanzionatorie ed afflittive. Non è infatti suscettibile di condivisione il presupposto, da cui muove l'appellante, della natura sanzionatoria della disposizione preclusiva in parola, in quanto, nel caso in esame, non solo, non si tratta di misure di natura sanzionatoria penale, ma neppure di sanzioni amministrative o di disposizioni in senso ampio sanzionatorie.
La disposizione in questione contempla casi di non candidabilità che il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di configurare in relazione al fatto che l'aspirante candidato abbia subito condanne in relazione a determinate tipologie di reato caratterizzate da uno speciale disvalore (Corte Cost. sentt. n. 407/1992; n. 114/1998).
Il fine primario perseguito dalla norma è quindi quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia. In questo quadro, la condanna penale irrevocabile è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di "indegnità morale" a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, quindi, configurata alla stregua di "requisito negativo" o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica.
Dal carattere non sanzionatorio della norma discende il corollario della non pertinenza del riferimento all' esigenza di addivenire ad un'interpretazione compatibile con le disposizioni dettate dall'art. 25 Cost., in materia di sanzioni penali, e dall'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in tema di misure lato sensu sanzionatorie. L'applicazione della richiamata disciplina ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore, pur se con riferimento a requisiti soggettivi collegati a fatti storici precedenti, non dà la stura ad una situazione di retroattività ma costituisce applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l'applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell'esercizio del potere amministrativo.
La preclusione in esame, infatti, non rappresenta un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto di natura amministrativa che, in applicazione della disciplina generale dettata dall'art. 11 delle preleggi sull'efficacia della legge nel tempo, regola le procedure amministrative che si dispieghino in un arco di tempo successivo. Una diversa opzione ermeneutica, la quale desse rilievo solo alle sentenze di condanna successive, costituirebbe, invece, una deroga al regime ordinario in quanto implicherebbe un regime di ultra-attività della precedente disciplina più favorevole.
Data: 10/09/2013 09:30:00Autore: Gerolamo Taras