Definizioni alternative del procedimento penale davanti al giudice di pace
Di Raffaele Vairo
Sommario: 1. Premessa – 2. Particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità – 3. Estinzione del reato per condotte riparatorie. – 4. Approfondimenti.
Bibliografia: Fiandaca-Musco 2001; Mantovani 2001; Marinucci-Dolcini 2001; Caringella-Garofoli 2002; Chiavario-Marzaduri 2002; Baldi 2003; Bucci-Ariolli 2003; R. Garofoli 2003; Carrettieri e altri 2004; Aprile-Silvestri 2006; Varraso 2006; Aghina-Stanziola 2007; Pagliaro 2007; Tonini 2007; Vairo 2008.
1. Premessa
Legislazione: art. 17 l. n. 468/1999; artt. 34, 35 d.lg. n. 274/2000
Il capo V del decreto legislativo n. 274/2000 ha introdotto, in attuazione della delega (art. 17 L. n. 468/1999), due meccanismi di definizione anticipata del procedimento penale davanti al giudice di pace:
1) la particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità;
2) l'estinzione del reato per condotte riparatorie.
L'intento del legislatore, quale appare nell'art. 17 della legge 24 novembre 1999, n. 468, è principalmente orientato verso la possibilità di deflazionare il carico di lavoro dei tribunali. Ma si ravvisa anche la consapevolezza che l'obbligo astratto del perseguimento totale dei reati non ha avuto fino ad oggi una completa attuazione.
Nella Relazione allo schema di decreto legislativo si legge anche che:
a) “l'obiettivo di una punizione generalizzata, oltre che impossibile da raggiungere, sembra anche insensata sotto il profilo politico-criminale”;
b) “Lo sviluppo assunto dalla criminalità di massa crea innanzitutto un problema di funzionalità del sistema penale”.
Ne consegue che il legislatore, consapevole che una giustizia a tutto campo possa rendere difficile il perseguimento di reati di maggiore allarme sociale, cerca soluzioni atte a liberare il sistema da intasamenti causati dai numerosi processi aventi ad oggetto:
a) reati “inoffensivi” mediante il ricorso a meccanismi di autoriduzione, quali la querela, la prescrizione, l'amnistia, la depenalizzazione, al fine di restituire razionalità ed economicità alla giustizia penale;
b) reati a basso indice di offensività, caratterizzati da esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, dalla occasionalità della condotta “criminosa”, dal basso grado di colpevolezza, dall'eventuale pregiudizio sociale per l'indagato o per l'imputato.
L'introduzione nel nostro ordinamento di istituti finalizzati a definizioni alternative dei processi ha aperto un interessante dibattito tra gli studiosi del diritto criminale.
La possibilità di smaltire il carico giudiziario riconoscendo la esiguità di condotte antigiuridiche che hanno avuto scarsissime conseguenze sul piano dell'offensività è stata ritenuta, evidentemente, meritevole di considerazione ai fini dell'abbattimento dei tempi processuali.
Nella stessa ottica si pone la possibilità di dichiarare estinto un determinato reato per condotte riparatorie, istituto, questo, che, oltre a concorrere alla realizzazione dell'intento deflattivo, può essere considerato, nella prospettiva della risocializzazione, quale indice di ravvedimento da parte del reo.
Questi istituti sono stati introdotti, forse in via sperimentale, nel rito penale avanti il giudice di pace.
Ovviamente, ove si consideri che il giudice di pace ha anche il compito di tentare la definizione dei processi attraverso la conciliazione (art. 2 comma 2 D.Lgs. n. 274/2000), non possiamo negare che l'intento del legislatore è anche quello di prevenire la ripetizione di comportamenti che hanno scarsa rilevanza penale, ma forte impatto sociale nella vita di tutti i giorni.
In questo senso si parla della funzione pedagogica della legge penale, che si evidenzia principalmente proprio nell'attività che il giudice di pace svolge per risolvere le controversie attraverso la mediazione conciliativa.
2. Particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità
L'art. 17 della legge n. 468/1999 (Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace) ha imposto al legislatore delegato di osservare, nell'emanazione del decreto legislativo, alcuni principi e criteri direttivi, tra i quali assumono grande rilievo quelli di cui alle lettere f) e h):
1) introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta, quando l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato;
2) previsione di ipotesi di estinzione del reato conseguenti a condotte riparatorie o risarcitorie del danno.
Con la norma contenuta nell'art. 34 del decreto legislativo è stata attuata la direttiva di cui alla lettera f).
La particolare tenuità del fatto può essere invocata quale causa di improcedibilità alle seguenti condizioni:
a) esiguità dell'illecito;
b) occasionalità del comportamento illecito;
c) rischio che lo sviluppo del procedimento possa produrre effetti desocializzanti e pregiudizievoli per l'indagato o per l'imputato.
L'esiguità dell'illecito va esaminata in funzione dell'offensività, secondo la quale non vi può essere reato senza offesa a un bene giuridico. E' questo un principio al quale il legislatore non ha voluto, né avrebbe potuto, sottrarsi. Pertanto, le attività umane che possono configurarsi come reati sono solo quelle che comportano una lesione, o l'esposizione a pericolo di lesione di un bene giuridico.
Secondo alcuni giuristi, il concetto di offensità sarebbe stato accolto dalla nostra Costituzione che, negli articoli 25 comma 2 e 27 comma 1, ritiene reati solo quei comportamenti ritenuti lesivi dei beni giuridici.
Noi condividiamo questa interpretazione anche per la sua compatibilità con il quadro generale dello Stato di diritto.
Ciò precisato, atteso che gli istituti che stiamo esaminando rispondono non solo all'intento deflattivo ma anche all'esigenza di evitare che lo sviluppo del procedimento possa produrre effetti desocializzanti e pregiudizievoli per l'indagato o per l'imputato, è necessario ora esaminare le condizioni e le modalità di attuazione nei singoli procedimenti.
Sul piano strutturale e sistematico, il perno della causa di improcedibilità è rappresentato dalla categoria della “tenuità” (“esiguità”) dell'illecito, quale connotato di una strategia deflattiva che non si risolve nella mera abolizione
Vi è ormai concordia di opinioni nel ritenere il reato come un'entità graduabile, proprio nella sua dimensione quantitativa, apprezzabile non solo sul terreno della commisurazione della sanzione, ma anche sotto il profilo dell'an della responsabilità.
In questi casi, il fatto, seppure offensivo, risulta graduabile “verso il basso” in termini di complessivo disvalore, così da non giustificare l'esercizio dell'azione penale
Risulta appieno la differenza con la categoria dei cd “fatti inoffensivi conformi al tipo” che, come è noto, si traducono in una ipotesi di “tipicità apparente”, in cui il fatto si rivela sostanzialmente e completamente inoffensivo verso il bene tutelato. La giurisprudenza e la dottrina intravedono, in questo ambito, la carenza di un elemento costitutivo del tipo, cioè l'offesa al bene tutelato (Relazione 6).
La particolare tenuità del fatto quale causa di improcedibilità è applicabile ad ogni tipo di reato, purchè sussistano le condizioni indicate nell'art. 34 del decreto legislativo.
Ne consegue che la particolare tenuità del fatto (criterio oggettivo), da sola, non è sufficiente per arrivare alla pronuncia di improcedibilità, occorrendo anche la sussistenza degli altri parametri della occasionalità della condotta e del basso grado di colpevolezza (criterio soggettivo), nonché dell'eventuale pregiudizio sociale per l'imputato (criterio teleologico).
L'art. 34, comma primo, del decreto legislativo, recependo i principi e i criteri direttivi della delega, statuisce: “Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all'interesse tutelato, l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l'esercizio dell'azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato”.
Secondo la prevalente giurisprudenza, la valutazione del giudice di pace deve riguardare la fattispecie concreta sottoposta al suo esame.
La declaratoria di improcedibilità per la particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace implica la valutazione congiunta degli indici normativamente indicati - esiguità del danno o del pericolo; grado di colpevolezza; occasionalità del fatto - e del fatto concretamente commesso, non potendo essere limitata alla fattispecie astratta di reato Cass. pen., sez. V, n. 34227/2009).
Il citato articolo 34 richiede, al comma terzo, un'ulteriore condizione: la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono.
Per la Cassazione, la mancata presenza della persona offesa in udienza o la mancata costituzione civile non sono di per sé sufficienti a stabilire che essa non si oppone (Cass. pen., sez. V, n. 49781/2012).
In conclusione, il giudice di pace dovrà effettuare una triplice valutazione:
a) la prima riguarda il reato e l'entità delle sue conseguenze;
b) la seconda riguarda l'occasionalità;
c) la terza il pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute dell'indagato o dell'imputato:
a) esiguità del danno o del pericolo
A questo fine si dovrà considerare il quantum di danno provocato dal fatto-reato o l'incidenza delle probalità del suo verificarsi, utilizzando i criteri dettati dall'art. 133 c.p., che definisce la gravità del reato desumendola dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell'azione, nonché dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa;
b) occasionalità
L'occasionalità è da escludere ogni volta che risulta a carico dell'indagato o dell'imputato una precedente condanna che costituisca il presupposto per la dichiarazione di recidiva. Qui il giudice deve svolgere un'attenta valutazione, attraverso la quale, pur in presenza di precedenti penali dell’indagato o dell'imputato, si possa giungere alla conclusione che trattasi di una condotta non sistematica. Insomma, l'occasionalità della condotta criminosa dell'indagato o dell'imputato va valutata in relazione alle sue abitudini di vita e dovrà escludersi ogni volta che il fatto-reato si presenti non come fatto episodico, ma come risultato del modus vivendi del suo autore.
In ogni caso, nel valutatre l'esistenza del presupposto dell'occasionalità, occorre contemperare le esigenze dell'indagato o dell'imputato con quelle della persona offesa. Ma se la recidiva conseguente a sentenze definitive si può appurarla facilmente attraverso il casellario giudiziale, non altrettanto agevole appare per la reiterazione dei reati per i quali vi è stata una pronuncia di improcedibilità per tenuità del fatto. Per ovviare all'inconveniente, alcuni studiosi hanno suggerito l'istituzione di un apposito registro generale;
c) il grado di colpevolezza
Quest'ultimo criterio va valutato secondo i parametri dell'art. 133 c.p.. Ne consegue che il grado di colpevolezza va desunta dalla intensità del dolo o dal grado della colpa, elementi desumibili dall'esame delle modalità di esecuzione del reato.
Non è superfluo ricordare che la colpevolezza è uno degli elemento costitutivi del reato, tanto che l'art. 27 comma primo della Costituzione (La responsabilità penale è personale) esclude categoricamente qualsiasi responsabilità per fatti che non possano riferirsi alla volontà di un determinato soggetto. Dunque, un fatto dovuto al mero caso fortuito esclude la colpevolezza e, di conseguenza, la punibilità.
Il grado di colpevolezza (dolo o colpa) costituisce la misura di partecipazione interiore al fatto-reato e, quindi, l'assenza di colpevolezza esclude la responsabilità dell'autore del fatto.
In estrema sintesi, possiamo affermare che la colpevolezza implica che la persona può essere ritenuta pienamente responsabile solo per azioni da lei controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate.
E' illegittima costituzionalmente la punizione di fatti che non risultano essere espressione consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza, espressi dalle norme penali. Deve essere esclusa la punibilità ove sia stato impossibile, per fatto non ascrivibile alla volontà dell'interessato, conoscere il precetto penale. E' costituzionalmente illegittimo l'art. 5 c.p. nella parte in cui impedisce ogni esame sulla rimproverabilità e, pertanto, scusabilità dell'ignoranza della (od errore sulla) legge penale (Corte cost., 24.3.1988, n. 364, FA 1989, 3).
La corretta interpretazione della norma dell'art. 34 non può prescindere dall'esistenza, seppur minima, di colpevolezza dell'indagato o dell'imputato.
I tre parametri devono essere applicati congiuntamente, come correttamente ha stabilito la Cassazione nella sentenza n. 34227/2009).
La declaratoria di improcedibilità per la particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace implica la valutazione congiunta degli indici normativamente indicati - esiguità del danno o del pericolo; grado di colpevolezza; occasionalità del fatto - e del fatto concretamente commesso, non potendo essere limitata alla fattispecie astratta di reato (Cass. pen., sez. V, n. 34227/2009).
Infine, ricordiamo che:
a) il giudice di pace deve aver presente l'ulteriore criterio teleologico, consistente nelle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato;
b) senza il consenso delle parti processuali interessate (indagato o imputato e persona offesa) il giudice non potrà dichiarare l'improcedibilità per tenuità del fatto.
Nel procedimento per reati di competenza del giudice di pace, una volta esercitata l'azione penale, può essere pronunciata sentenza che riconosca la particolare tenuità del fatto solo quando sia stata verificata la volontà non ostativa della persona offesa. Ne consegue che è illegittima, nell'assenza di una specifica interlocuzione dell'offeso nel procedimento, la sentenza con la quale il g.i.p., richiesto dell'emissione di un decreto penale di condanna, dichiari ai sensi dell'art. 129 c.p.p. l'improcedibilità dell'azione per la particolare tenuità del fatto contestato. (Fattispecie relativa a reati commessi nel settembre 2000). (Cass. pen., sez. V, 13.4.2005, n. 19364, CED 2005, RV231310).
Per quanto concerne i dubbi di incostituzionalità della norma che esige il consenso della persona offesa, la Cassazione (Cass. pen., 25.6.2003, n. 2674, ANPP 2004, 312), convinta della necessità di garantire il bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti, ha così statuito: “…il dissenso della persona offesa, uno dei protagonisti del processo, è funzionale ad una ulteriore riflessione del giudice sulla particolare tenuità del fatto, non potendosi escludere a priori l'idoneità della opposizione della persona offesa a garantire quel bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti –l'esigenza deflattiva, per un verso, e, per altro verso, il rischio di un'impunità diffusa per i reati della criminalità quotidiana- nella vicenda giudiziaria, che si rende più impellente con la trasmigrazione del concetto di irrilevanza del fatto da un procedimento in cui l'interesse del minore è assolutamente predominante ad una realtà in cui le istanze da soppessare appaiono più nette”.
Nella medesima sentenza ha respinto l'eccezione di incostuzionalità della norma:
È manifestamente infondata la q.l.c. dell'art. 34 comma 3 d.lg. 28 agosto 2000 n. 274, recante disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, nella parte in cui consente che la particolare tenuità del fatto possa essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongano (la Corte ha ritenuto che il dissenso della persona offesa è funzionale a garantire il bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti nel nuovo istituto previsto dal citato art. 34, il primo rivolto alla deflazione processuale e l'altro diretto ad evitare il rischio di un'impunità diffusa per i reati della criminalità minore) (Cass. pen., sez. V, 25.6.2003, n. 2674, ANPP 2004, 312).
Va, comunque, sottolineato che la mancata, ingiustificata comparizione della persona offesa al dibattimento può essere assunto come manifestazione del suo totale disinteresse all'esito del giudizio, a meno che non vi siano altri elementi che fanno escludere questa interpretazione, come può essere la costituzione di parte civile da considerare, evidentemente, opposizione implicita alla declaratoria di non procedibilità dell'azione penale per irrilevanza del fatto.
È legittima la dichiarazione di non procedibilità dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto anche quando la non opposizione sia desunta dal solo fatto della mancata comparizione in udienza della parte. La dichiarazione di non procedibilità dell'azione penale non impedisce la proposizione dell'azione di risarcimento in sede civile. La decisione di non comparire all'udienza va ritenuta come inequivoca espressione di una precisa strategia processuale e cioè della volontà di rinuncia all'esercizio di tutte le facoltà consentite dalla legge, come la possibilità di opporsi alla dichiarazione di non procedibilità dell'azione per la particolare tenuità del fatto (Cass. pen., sez. V, n. 9700/2008).
A causa di tutte queste condizioni l'improcedibilità per la particolare tenuità del fatto è un istituto di applicazione molto scarsa e, perciò, rivelatosi perfettamente inutile.
3. Estinzione del reato per condotte riparatorie
Se l'imputato dimostra di aver risarcito o riparato il danno, il giudice di pace pronuncia sentenza di estinzione del reato , salvo che reputi tali condotte inidonee a compensare il disvalore dell'illecito e a salvaguardare le esigenze di prevenzione .
Trattasi del meccanismo di definizione alternativa del procedimento previsto dall'art. 35 del decreto legislativo e si applica a tutte le ipotesi di reato appartenenti alla competenza del giudice di pace, siano essi procedibili di ufficio o a querela.
E' un istituto destinato a maggiore fortuna rispetto a quello di cui all'art. 34, in quanto pone rimedio all'inefficacia dell'istituto della improcedibilità per tenuità del fatto ridando equilibrio al sistema fortemente compromesso dalla possibilità offerta alla persona offesa di opporsi alla dichiarazione di improcedibilità, rendendo vano il fine conciliatorio cui si ispira il processo penale del giudice di pace.
L'imputato, il quale chieda la pronuncia di estinzione del reato per condotta riparatoria, deve dimostrare di aver provveduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno causato dal reato mediante le restituzioni o il risarcimento e l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose.
Dal tenore della norme si evince che la condotta riparatoria non si limita al mero risarcimento ma anche alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose.
In ordine al risarcimento, è ovvio che esso deve essere integrale, a meno che non si tratti di danno non facilmente quantificabile in termini economici, nel qual caso il giudice deve valutare la condotta dell'imputato nella eliminazione delle conseguenze del reato.
Ovviamente, nell'ipotesi in cui non si verifichino conseguenze, l'esame del giudice di pace dovrà limitarsi alla condotta riparatoria economicamente quantificabile.
Sulla necessità dell'integrale risarcimento sono sorti dubbi di costituzionalità della norma, che non fa alcun riferimento alle capacità economiche dell'imputato.
La questione circa i dubbi di costituzionalità può essere superata ove si consideri che il comma 2 dell'art. 35 affida al prudente apprezzamento del giudice di valutare, e ciò anche in contrasto con le richieste della persona offesa, l'idoneità della condotta riparatoria a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.
Sul versante concernente i presupposti di operatività della causa estintiva, si è ritenuto di dover riconoscere al giudice di pace il potere di sindacare la congruità delle attività risarcitorie, rafforzandone anche i poteri conformativi: si è infatti previsto che, qualora l'imputato chieda di poter riparare e risarcire nel corso dell'udienza di comparizione, il giudice, oltre che assegnare un termine per l'adempimento, possa altresì impartire prescrizioni che, nella maggior parte dei casi e ove possibile, saranno finalizzate all'eliminazione delle cause del reato (Relazione 6).
Per ovviare al rischio che la dichiarazione di estinzione del reato per condotte riparatorie si trasformi in un “mercato delle vacche”, la norma pone come condizione che tali condotte siano tali da soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Il giudizio sulla congruità della condotta riparatoria spetta al giudice.
Secondo alcuni autori, l'estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie avrebbe “una funzione essenzialmente deflativa, finalizzata cioè ad evitare una prosecuzione del giudizio: funzione la cui esplicazione dipende dalle scelte, o, per meglio dire, dalle iniziative restitutorie o riparatorie dell'imputato” (E. Aprile 2003).
Noi riteniamo che una simile concezione sia fortemente riduttiva. Infatti, a norma dell'art. 35, comma 2, del decreto legislativo, le attività riparatorie, oltre ad essere ritenute sufficienti sotto il profilo del quantum, devono essere idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione e, quindi, finalizzate a correggere ed orientare i comportamenti dell'imputato (funzione pedagogica).
La Cassazione (Cass. pen., sez. V, 24.3.2005, n. 14070, CP 2006, 9 2914) ha precisato che la declaratoria di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, così come quella di improcedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, oltre a costituire forma alternativa del procedimento penale innanzi al giudice di pace, ha una funzione conciliativa finalizzata alla riprovazione, da parte dell'imputato, del suo comportamento “criminoso”:
La speciale causa di estinzione del reato prevista dall'art. 35 d.lg. 28 agosto 2000 n. 274, non opera in presenza della sola dimostrazione, da parte dell'imputato, dell'avvenuta riparazione del danno cagionato alla vittima, mediante le restituzioni o il risarcimento nonché l'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, ma è necessario che il giudice ritenga che tali attività riparatorie risultino in concreto idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione, in modo da assicurare comunque una valenza retributiva e di prevenzione speciale all'intervento giurisdizionale dinanzi a condotte di particolare gravità e pericolosità. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto l'idoneità dell'offerta reale a costituire la condotta riparatoria normativamente prevista quale causa estintiva del reato, tenuto conto dell'entità del fatto, del pericolo di reiterazione del reato, della personalità dell'imputato, del comportamento susseguente alla commissione del fatto criminoso, della finalità pacificatoria della condotta e degli interessi in gioco, pur in presenza di un rifiuto dell'offerta da parte della persona offesa, non per sua soggettiva incongruità, ma solo per la sua volontà di vedere comunque perseguito l'imputato).
In conclusione, possiamo affermare:
a) il giudice di pace, sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e di aver eliminato le eventuali conseguenze dannose o pericolose del reato;
b) la verifica del giudice non deve limitarsi solo al quantum, ma anche all'idoneità delle condotte riparatorie e risarcitorie a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato da parte dell'imputato.
4. Approfondimenti
I temi trattati in queste note sono di fondamentale importanza, in quanto trattano di forme alternative di risoluzione delle liti e di definizione del procedimento penale ispirandosi a quel diritto mite di cui tanto si è discusso in questi ultimi anni.
Per comprendere le questioni trattate sotto il profilo dottrinario, non ci si può esimere dall'affrontare lo studio delle nuove teorie della pena, soprattutto in riferimento al profilo dell'offensività del reato. Ultimamente, alcuni studiosi hanno affermato l'inutilità della punizione di quei reati privi della capacità di offendere. Al riguardo, è sufficiente un buon manuale di diritto penale.
Uno dei manuali che affrontano il problema dell'offensività è il Corso di Diritto Penale di G. Marinucci - E . Dolcini, edizione Giuffrè 2001, nel quale un intero capitolo è dedicato alla struttura del reato, inteso come offesa colpevole a un bene giuridico.
Ma non possiamo omettere il riferimento al contributo offerto dall'autore di queste note nell'opera “Il processo penale davanti al giudice di pace – 2008 – UTET).
Un formidabile contributo al riguardo ha offerto la Cassazione penale con la sentenza 28.4.2006, n. 24249 (CED Cass. pen. 2006, 234416), nella quale è trattato con profondità il tema dell'offensività del reato, ma non viene trascurata la funzione pedagogica dell'intero sistema penale che riguarda il giudice onorario:
Peraltro, in via generale, l'argomentazione dell'impugnata sentenza sembra accogliere la tesi di una parte della dottrina, resistita da altra e superata dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, secondo cui esisterebbero reati senza offesa, mentre, invece, una possibilità di graduazione della lesione del bene protetto, poichè anche un reato di pericolo presunto deve rispondere al principio di offensività e, quindi, non è neppure configurabile ove non sussista un "vulnus" anche minimo, discende dalla individuazione della categoria dei reati bagattellari, elaborata dalla dottrina proprio per raggruppare in un concetto unitario tutte le ipotesi che, in base alla concezione gradualistica dell'illecito penale, si configurano quali fatti che per la loro esiguità, valutabile in concreto in tutti i reati ed in ognuno dei parametri di graduazione indicati dal legislatore, non determinano l'irrogazione di una pena in una visione della stessa conforme al dettato dell'art. 27 Costituzione.
Perciò la "particolare tenuità" del fatto non è un elemento a sè riferito all'entità del danno o del pericolo, ma è il giudizio sintetico sul fatto concreto elaborato alla luce di tutti gli elementi in una formula di sintesi e di rielaborazione dei dati stessi, comportando una complessiva valutazione della particolare condotta portata a conoscenza degli organi giudiziari.
Del resto a tale soluzione si perviene anche basandosi sul principio di offensività, la cui trattazione approfondita esula dai contenuti propri di una pronuncia giurisdizionale, in quanto con riguardo alla sua dimensione nel settore legislativo comporta la delimitazione del principio di ragionevolezza e di razionalità politico - criminale, l'enucleazione in seno al dettato dell'art. 3 Cost. dei contenuti e dei limiti dello stesso attraverso la verifica dei principi di proporzionalità, di offensività e di determinatezza, il rapporto con il c.d. "tertium comparationis" ed i criteri con cui effettuare il bilanciamento dei beni con tutte le discussioni inerenti alla possibilità o meno di individuare una gerarchia degli stessi, mentre non appare essenziale nell'ipotesi normativa in esame.
Tuttavia, sarà sufficiente rilevare come in una decisione risalente nel tempo (sent. n. 62 del 1986 in materia di armi ed esplosivi) la Corte Costituzionale abbia affermato che "può certo discutersi sulla costituzionalizzazione o meno del principio di offensività; ma che lo stesso principio debba reggere ogni interpretazione di norme penali è ormai canone unanimemente accertato", sottolineando come "spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto e dalla norma particolare interpretata, il bene od i beni tutelati, attraverso l'incriminazione d'una determinata fattispecie tipica, determinare, in concreto ciò che, non raggiungendo la soglia dell'offensività dei beni in discussione, è fuori del penalmente rilevante" ed aggiungendo che "l'art. 49 c.p. comma 2 non può non giovare all'interprete al fine di determinare in concreto la soglia del penalmente rilevante. E' appunto compito del giudice e non del legislatore stabilire se una minima quantità di esplosivo sia, nella concreta fattispecie, inidonea ad offendere i beni tutelati dalle normative in discussione".
Tale tesi ha subito ulteriori evoluzioni fino all'affermazione dell'intervenuta costituzionalizzazione del principio ed all'indicazione di detto parametro quale canone interpretativo per il giudice. Tuttavia "esiguità" ed "inoffensività" sono due fenomeni diversi, cui si attribuiscono significato ed effetti giuridici differenti: l'esiguità, invero, non è un criterio di individuazione dell'inoffensività, ma una caratteristica di particolare tenuità di un'offesa sicuramente esistente e tipica, giacchè, altrimenti, ove la condotta in concreto fosse inoffensiva, non sarebbe possibile configurare il reato. Si tratta, quindi, di un fatto costituente reato cui l'ordinamento è chiamato ad adeguare una risposta concreta, con strumenti e modalità che fanno parte di scelte di politica criminale e da queste dipendono, sicchè, in questo senso, l'esiguità costituisce un aspetto del principio di sussidiarietà - frammentarietà del diritto penale e ne rappresenta una delle possibili estrinsecazioni nella fase applicativa della norma, non tanto in funzione di supplenza di fronte alla concezione del diritto penale quale extrema ratio non attuata a livello di legge positiva, quanto come componente fisiologica del sistema penale in base all'impostazione dogmatica di un Chiaro Autore.
Pertanto il riferimento al principio di offensività è stato effettuato nella presente motivazione non per assimilare i due fenomeni, ma per far rilevare, secondo la tesi della migliore dottrina, come non esista un reato senza offesa, sicchè è possibile procedere ad una sua graduazione.
Del resto, a questa "nuova sussidiarietà", non riguardante le scelte di criminalizzazione in astratto, ma la peculiarità del fatto in concreto, si ispirano le normative stabilite nel processo minorile ed i progetti di modifica del codice penale, sicchè, già sotto un profilo dogmatico appena accennato l'argomentazione svolta non appare fondata.
Ed invero, "l'offesa è elemento essenziale e costante di tutti i reati" e che anche i reati di pericolo astratto, in realtà, seppure in maniera strumentale, afferiscono alla protezione di beni finali e, comunque, di interessi giuridicamente rilevanti, giacchè i reati- funzione ed anche quelli-ostacolo possono ledere in via indiretta beni giuridici, giacchè i limiti della determinatezza della fattispecie e dell'offensività sia pure indiretta tale da non far "perdere completamente di vista l'evento offensivo" attengono ai principi costituzionali della tipicità e dell'offensività della fattispecie cioè alla concezione del reato come fatto tipico lesivo di un bene.
Infatti sembra ormai definitivamente acquisito che "il reato di pericolo presunto in realtà non si identifica con il c.d. reato di infedeltà, in quanto... poggia (anch'esso n.d.r.) su di una situazione sottostante di pericolo... (soltanto presunta dal legislatore) rispetto al pericolo concreto".
Del resto, la ritenuta costituzionalizzazione del principio di offensività e la sua utilizzazione non solo quale criterio legislativo, ma anche giuridico-interpretativo impongono una simile esegesi, giacchè non vi sono precetti penali che in astratto possano porsi in contrasto con il principio di offensività, sicchè sarà necessario appurare in concreto la carenza dell'offesa, che, però, deve essere valutata in relazione alla funzione svolta dall'atto ed a nozioni di comune esperienza.
Il principio di offensività, quindi, rivitalizza e delimita la dottrina del c.d. diritto penale minimo, serve, nella sua dimensione legislativa, al legislatore ed al giudice delle leggi quale criterio per il controllo del contenuto delle stesse.
L'esiguità del fatto, invece, attiene ad un modello di tipicità bagattellare, in cui i diversi elementi costitutivi del reato sono graduabili in base ad una formulazione analitica o sintetica dei requisiti in modo da escludere violazioni di principi cardine della Costituzione quali quello di eguaglianza (art. 3 Cost.) quello di tipicità della fattispecie penale e delle cause di esclusione del reato (art. 25 Cost.) e dell'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale (art.112 Cost.), e si presenta sussistente anche nel caso in cui si riuscisse a raggiungere un diritto penale minimo, espressione di quella considerazione del diritto e della sanzione penale quale "extrema ratio", giacchè, pure in dette fattispecie criminose, potrebbero manifestarsi in concreto fatti di particolare tenuità.
La griglia di questi elementi consente di ricostruire la struttura tipica del reato concretamente esiguo, espressione che evidenzia la presenza di un'offensività, anche se minima ("reato"), da valutare in relazione al fatto concreto, in cui non esistono pretese presunzioni legislative, ed alla nozione di esiguità, il cui connotato deve essere ulteriormente chiarito dall'analisi ermeneutica e da un esame complessivo logico - sistematico e teleologico della normativa relativa. Pertanto il meccanismo dell'improcedibilità dell'azione penale per particolare tenuità del fatto si colloca nell'ambito di più vaste tematiche quali la deflazione penale, la concezione gradualistica dell'illecito ed una lettura "realistica" del dettato costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale, mentre il fatto di cui deve essere valutata la tenuità si atteggia a fatto tipico, antigiuridico e colpevole, pur se dotato di un minimo disvalore, sicchè si attua una forma di "deprocessualizzazione soggettiva" con un'improcedibilità non astratta ed un riferimento ad una fattispecie di reato astratta in sè bagattellare, ma attraverso l'esame di una fattispecie concreta, correlata al suo autore e non limitata al profilo oggettivo, includendo pure quello soggettivo.
Del resto la stessa Relazione al D.Lgs. in parola sottolinea che l'esiguità rappresenta il "connotato di una tecnica deflativa che non si risolve nella mera abolizione del reato come figura astratta, ma conduce al conio di un congegno sensibile alle caratteristiche morfologiche della fattispecie concreta, il cui basso coefficiente di disvalore abilita al non esercizio dell'azione penale".
Peraltro, la sentenza impugnata non considera che tutto il D.Lgs. n. 274 del 2000 è ispirato alla creazione di un diritto penale "mite", efficace ma non ingiustificatamente affittivo e tendenzialmente votato alla ricomposizione del conflitto causato dalla commissione del reato (la c.d. "giustizia conciliativa"), sicchè il fatto di particolare tenuità risponde pure alla necessità di escludere un'indifferenziata applicazione delle medesime sanzioni in un ampio ventaglio di condotte criminose concrete, fra loro graduabili, in una rinnovata visione dell'art3 Cost.
Inoltre non tiene conto come la stessa relazione al citato decreto legislativo miri ad estendere detta particolare forma di improcedibilità dell'azione penale a tutti i reati, sottolineando che "proprio il riferimento all'esiguità del danno o del pericolo fa sì che questa valutazione possa riguardare anche il disvalore della condotta nei reati sprovvisti di evento naturalistico o comunque caratterizzati dalla rilevanza delle modalità della lesione".
Pertanto, la sentenza impugnata non considera che nel procedimento davanti al giudice di pace la particolare tenuità del fatto quale causa di improcedibilità (D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34) è applicabile ad ogni tipologia di reato, purchè sussistano le condizioni ivi previste.
Infatti, occorre aver riguardo non solo alla esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, il quale in un reato di pericolo presunto o astratto è pure individuabile, giacchè la lesione del bene che si vuole proteggere esiste sempre, ma anche alla sussistenza degli ulteriori indici della occasionalità della condotta, del basso grado di colpevolezza e dell'eventuale pregiudizio sociale per l'imputato, i quali ultimi non sono alternativi ma concorrenti con il primo. Pertanto, nell'ipotesi in cui il danno o il pericolo non sia esiguo, la declaratoria di improcedibilità è esclusa anche nell'ipotesi in cui sussistano gli altri parametri di giudizio appena enunciati.
Ed invero, sia il tenore letterale della norma che l'interpretazione logica rendono comprensibile che i parametri di applicazione dell'istituto non sono ancorati a meri principi deflattivi, ma piuttosto indirizzati ad evitare l'eccessiva invasione della sanzione penale in fattispecie che - tradotte in termini concreti, sempre rilevabili dal singolo accadimento, anche nei reati di c.d. pericolo astratto o presunto - non costituiscono un particolare allarme sociale, tenuto anche conto della personalità di chi le ha commesse (Cass. sez. 5^, 1 marzo 2005 n. 7573 rv. 230811).
Non appare, neppure, condivisibile l'argomentazione, secondo cui il mero superamento della soglia di punibilità comporterebbe l'inapplicabilità dell'istituto per un accertamento presuntivo, iuris et de iure, del legislatore, in quanto il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 prevede l'improcedibilità dell'azione penale in una situazione di fatto concretizzatasi e meritevole di tutela per la presenza di profili oggettivi e soggettivi, caratterizzata pure dall'occasionalità della condotta, sicchè esiste un modesto disvalore, il quale, ove non fosse superato il tasso alcolimetrico, non esisterebbe, in quanto non sarebbe configurabile nemmeno il reato (Cass. sez. 4^ 13 ottobre 2004 n. 40203, rv. 229574).
Esaminata l'erroneità dell'argomentazione svolta dall'impugnata sentenza sotto il profilo generale ed in base all'indirizzo costante di questo giudice di legittimità, di cui sono state riferite alcune pronunce particolarmente significative, l'esame dei singoli parametri, cui ancorare la particolare tenuità del fatto, evidenziano ancora meglio l'impossibilità di accogliere la tesi ivi esposta. Ed invero, superato, tramite la specificazione dei vari parametri cui riferire detta particolare improcedibilità, ogni sospetto di costituzionalità in relazione all'art. 112 Cost. (cfr. ord. n. 250 del 1991 e soprattutto la relativa ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale in tema di D.P.R. n. 448 del 1988, art. 27 che, però, in maniera più semplice configurava una causa di estinzione del reato o una condizione di non punibilità), occorre notare che all'interno della qualificazione della "particolare tenuità del fatto" entrano considerazioni e valutazioni legate a sfere di interessi diversi: dagli indici di "esiguità" oggettiva e soggettiva (entità dell'offesa all'interesse tutelato, grado di colpevolezza ed occasionalità del fatto) alle esigenze personali dell'indagato o dell'imputato (il pregiudizio derivante dall'ordinario evolversi del procedimento alle esigenze di lavoro, di famiglia o di salute), ritenute, in parte, aggiuntive o integrative agli altri parametri come rende evidente il lemma "altresì", ed all'interesse della persona offesa, costituente un ulteriore elemento della giustizia conciliativa ed un limite non presente in tutti i reati e variamente apprezzato nelle differenti fasi del procedimento, sul quale ultimo non ci si soffermerà perchè inutile nella fattispecie criminosa sottoposta all'esame di questa Corte.
La trattazione approfondita di questi parametri comporterebbe, da un lato, in parte la ripetizione di principi già illustrati, sia pure sinteticamente, e, dall'altro, un'esposizione diffusa delle diverse problematiche ermeneutiche sottese ad ogni singolo elemento, che, in alcuni casi, esulano dall'ipotesi in esame, sicchè si procederà ad una concisa illustrazione.
L'esiguità del danno o del pericolo costituisce, secondo la citata Relazione, "il primo indice rivelatore" della particolare tenuità del fatto, che si atteggia "come forme di manifestazione dell'offesa penale" (Rel. pag. 39 nota 16), sicchè anche in fattispecie penali, il cui evento sia grave, potrebbe applicarsi detta causa di improcedibilità, tanto più che la selezione dei vari reati è stata già operata, individuando la competenza per materia del giudice di pace per alcuni reati.
Peraltro il riferimento operato dalla norma al "fatto" e non al "danno" di particolare tenuità dimostra come non sia prevista una selezione dei fatti sulla base del titolo del reato, mentre il requisito dell'esiguità del danno o del pericolo non va valutato in termini assoluti, ma relativi in modo da appurare l'esistenza di una offesa anche minima al bene protetto (Rel. pag. 65).
Il richiamo al carattere oggettivo di tale prognosi vale, poi, chiaramente a distinguere il momento della rilevazione da quello valutativo, nel quale ultimo si impone "la relativizzazione del danno" o della probabilità del verificarsi della lesione, in ciò sostanziandosi il pericolo, all'interesse tutelato.
Tuttavia, la rilevanza attribuita al bene protetto non comporta, secondo quanto già illustrato, l'impossibilità di configurare la particolare tenuità del fatto in reati, in cui, in base ad una certa parte della dottrina, non sarebbe configurabile alcuna offesa, giacchè detta lesione è sempre esistente senza necessità di dover forzare il dato normativo, affermando che detto parametro non è utilizzabile ed occorre solo considerare gli altri, anche perchè il riferimento al fatto determina una considerazione del disvalore complessivo della fattispecie da accertare in concreto in una visione gradualistica dei fatti-reato attraverso il bilanciamento con l'interesse tutelato.
La graduazione dell'illecito penale balza ancor più evidente dall'ulteriore indice del "grado di colpevolezza" tale da spaziare, nello doppia scala gradata, dall'intensità del dolo alle varie tipologie della colpa ed al suo grado ed all'esistenza "di situazioni semi-scusanti" (Rel. pag. 66), mentre il dettato del precetto sembra richiamare la concezione normativa della colpevolezza e le nozioni di rimproverabilità o riprovevolezza, capaci di far esprimere giudizi graduati di disvalore penale in rapporto alla qualità dell'elemento psicologico, che lega il fatto all'autore, nonchè le formule adoperate dall'art. 133 c.p. comma 1, n. 3.
Esclusa la possibilità di ritenere l'occasionalità del fatto come unicità, sicchè ancora una volta viene in rilievo la valutazione della vicenda nel suo complesso, non occorre approfondire tutte le problematiche inerenti a detto requisito sia perchè non risulta contestata alcuna recidiva sia perchè lo stato di ebbrezza non sembra costituire un "modus vivendi" del ricorrente sia perchè non sono evidenziate prognosi di ricaduta in una visione di prevenzione, generale e speciale, di detto indice, sicchè qualsiasi teoria si segua (quella cronologica, basata sulla seriazione di atti, o l'altra psicologica, fondata sull'atteggiamento psicologico dell'autore rispetto all'azione o quella mista, in cui il criterio temporale viene coniugato con una prognosi favorevole di non reiterazione del reato o perchè le circostanze del fatto non si verificano normalmente e generalmente o perchè l'aggressione del bene giuridico protetto non appare sistematica), in assenza di qualsiasi dimostrazione di reiterazione della predetta "causa" di improcedibilità, deve affermarsi l'occasionalità del fatto.
Identiche sintetiche argomentazioni circa l'assenza nelle due decisioni dei giudici di merito di circostanze ostative all'applicazione del D.Lgs. cit., art. 34 vanno svolte in relazione all'altro parametro, giacchè nel reato di guida in stato di ebbrezza non esiste una parte offesa. A tal proposito, risolto dalla stessa relazione al decreto legislativo il dubbio di costituzionalità avanzato in ordine a detto indice, ove costituisse un elemento scriminante nei confronti di chi non possa allegare pregiudizi ad esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute (pag. 67), ritenendo che la prognosi di desocializzazione si ponga su un piano solo accessorio, integrativo e non decisivo rispetto agli altri parametri, indipendentemente dalla difficoltà di non rinvenire detti pregiudizi in un procedimento, sicchè, ancor previene esaltata la valutazione globale di tutta la vicenda, la rilevanza dei valori costituzionali indicati dimostra come la deroga all'esercizio dell'azione penale trovi importante bilanciamento in alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione, per cui, anche sotto questo punto di vista, non sembra prospettabile una questione di legittimità costituzionale per violazione dell'art. 112 Cost
Infine, l'escludere l'applicazione del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 per alcune tipologie di reato comporterebbe dubbi di legittimità costituzionale, sicchè, oltre ad un'analisi ermeneutica letterale e logico-teleologico-storico - sistematica della norma, milita per l'accoglimento dell'esegesi proposta dalla quasi unanime dottrina e dalla costante giurisprudenza di legittimità l'obbligo del giudice ordinario di procedere ad un'interpretazione adeguatrice della disposizione.
Ciò chiarito, esaminando la fattispecie concreta, bisogna notare che il tasso alcolicometrico è esiguo (0,65 e 0,58) e proprio la possibilità di graduazione scientifica con l'etilometro, la cui utilizzazione è divenuta obbligatoria in virtù del D.L. 151 del 2003, convertito con modificazione, nella L. n. 214 del 2003, dimostra la possibilità di accertare l'entità del pericolo per il bene della pubblica incolumità e sicurezza, mentre le conseguenze derivanti dallo stato di ebbrezza (incidenti stradali, lesioni personali e danni alle cose) consentono di rilevare la tenuità del fatto.
Inoltre il pregiudizio sociale dell'imputato e la necessità di inserimento nel mondo del lavoro, ed il grado di colpevolezza del prevenuto, nonostante il rilevato tasso alcolimetrico, sono ammessi espressamente o per implicito nella decisione del giudice di pace e non contestati da quella impugnata, sicchè sono stati valutati dai giudici di merito tutti i requisiti richiesti per applicare detta causa di improcedibilità, poichè non è neppure necessaria la presenza di una persona offesa, (Cass., sez. 4^ 17 giugno 2003 n. 25917, Ritucci rv. 25676), non sussiste un obbligo di motivazione esplicita in ordine a tutti gli elementi richiesti (Cass. Sez. 4^ 17 settembre 2004 n. 36757, Perino rv. 229688) ed è configurabile l'esercizio di un potere discrezionale non sindacabile se non nei limiti propri del giudizio di legittimità (Cass. Sez. IV, 26.10.2004 n. 41702, CED Cass. pen. Rv 2300277).
Di Raffaele Vairo
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Autore: Raffaele Vairo