L'eccessiva durata dei processi civili, un problema cronico irrisolvibile?
Di Casimiro Mondino
Ogni volta che il discorso verte sul tema della giustizia, la durata interminabile del processo civile è senza dubbio l'argomento portante, il principale elemento rilevato di disfunzionalità del sistema.
Da molte parti si avanzano continuamente richieste o proposte per risolvere quello che sembra essere il problema cronico più grave, modificando i codici e le procedure.
Ma siamo sicuri che la lunga durata dei processi sia un problema di sistema, di metodo e di dottrina, ovvero siamo sicuri che si debba cambiare la giustizia italiana per ottenere processi più brevi?
Questa breve riflessione propone un punto di vista assolutamente personale, che potrà essere non condiviso, ma che si basa sull'osservazione di eventi reali e non di affascinanti proposizioni teoriche ad alto contenuto etico-dottrinale.
Personalmente ritengo che moltissime disfunzionalità della giustizia siano da individuare in comportamenti errati ed imprecisi dei singoli operatori, in forme di approssimazione inopportune, che vorrei illustrare sinteticamente in punti che a mio giudizio sono fondamento essenziale del ritardo cronico e dell'inefficienza della giustizia italiana:
alterazione del sistema giuridico che nella pratica quotidiana non si fonda più sul solo diritto (leggi, regolamenti ed usi) ma, ormai, in modo sempre più pressante sulla giurisprudenza;
è agevolmente rilevabile, leggendo l'articolo 1 del codice civile, cosa sia fondamento del diritto: “leggi, regolamenti, usi”
è altrettanto agevolmente rilevabile leggendo l'articolo 27 del Codice Civile, ovvero l'articolo 12 della legge n. 218 del 2 settembre 1995, rilevare che “Il processo civile che si svolge in Italia è regolato dalla legge italiana”, quindi il processo si fonda sulle leggi che possono richiamare regolamenti e usi, e non sono ammesse, nel processo, ne la giurisprudenza di legittimità ne quella di merito per norma di diritto;
le sentenze, ovviamente si applicano, ma il farvi ricorso con sistematicità ossessiva nei processi snatura i fondamenti del diritto stesso;
inoltre ci si deve domandare come mai si citano continuamente ed a profusione sentenze di legittimità o di merito, nell'apparente intento di utilizzarle ha scopo illustrativo e chiarificatore, e non si citano parimenti saggi, conferenze o relazioni al fine di chiarire le proprie posizioni interpretative;
l'erronea e diffusa concezione che nel diritto italiano si possano interpretare le leggi;
l'articolo 12 del Codice Civile non pone dubbi sul fatto che in Italia le leggi non possano essere interpretate, infatti il succitato articolo recita: “Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” quindi le leggi:
non possono essere interpretate;
devono essere esclusivamente applicate, e per applicarle vanno capite, utilizzando la lingua italiana;
nell'applicarle si deve tener conto della connessione esistente tra le parole, ovvero si deve tener presente l'aspetto strutturale dei codici e delle singole norme, ovvero si deve analizzare la legge partendo dalla struttura gerarchica dei codici: libro, titolo, norme e successione delle norme (le norme che precedono prevalgono su quelle che seguono);
l'erronea e diffusa convinzione che il Giudice non abbia autonomia operativa e che si assoggettato all'azione delle parti;
in realtà il giudice non può decidere oltre i limiti della domanda perché lo impone l'articolo 112 c.p.c., ma sempre il codice civile chiarisce con grande semplicità che il giudice nel pronunciarsi sulla causa deve seguire le norme del diritto o pronunciarsi secondo equità;
quindi mentre le domande le pongono l'attore o il convenuto, mentre le procedure le svolgono i difensori, le norme di diritto che si devono applicare al processo ed in base alle quali il giudice si deve pronunciare sono nella sola disponibilità del giudice;
le proposte normative avanzate dalle parti non devono essere tenute in considerazione dal giudice, il quale deve decidere applicando le norme del diritto in totale autonomia perché è addirittura la Costituzione ad imporlo con l'articolo 101 che recita:
La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Quindi i giudici non sono soggetti alle ipotesi od alle proposte normative delle parti, ma solo alle domande ed ai fatti allegati che le parti pongono al giudice per il tramite dei difensori, ed il giudice ha il dovere (art. 183 c.p.c.) di accertarsi di quali siano le reali intenzioni delle parti, infatti l'articolo recita:
“Nell'udienza di trattazione...il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”
il trasformare “consuetudini lavorative” in “consuetudini giuridiche” attribuendo loro un fondamento di diritto che nei fatti è inesistente, a titolo di esempio riporto alcune situazioni diffuse e consolidate, agevolmente accertabili:
la fissazione di un udienza ex 281 sexies, ai sensi dell'articolo 187 c.2 c.p.c., per pronunciarsi sulle questioni di competenza;
si pensi che malgrado le modifiche apportate dalla legge 69/2009 in molti tribunali giudici ed avvocati continuano a ritenere normale e legittima la fissazione di udienza ex 281 sexies, che è udienza di pronuncia di sentenza orale, per pronunciarsi sulle mere questioni di competenza malgrado le modifiche al codice di procedura impongano per tale pronuncia l'utilizzo dell'ordinanza nel minor tempo possibile;
la consuetudine è agevolmente rilevabile eppure il legislatore ha chiarito che le competenze si devono presentare e pronunciare nel minor tempo possibile, infatti con la modifica degli articoli succitati, ha imposto una precisa tempistica che prima non era presente nel previgente articolo, ovvero ha:
imposto al convenuto di presentare le eccezioni con la comparsa di risposta;
imposto al giudice di decidere le questioni di incompetenza inderogabile, ex art. 28 c.p.c., entro l'udienza ex 183 c.p.c.;
imposto al giudice di pronunciarsi sull'inammissibilità delle eccezioni presentate avverso competenze inderogabili correttamente radicate entro l'udienza ex 183;
imposto all'attore di presentare eccezioni di competenza avverso le domande riconvenzionali all'udienza ex 183 c.p.c., al più tardi con la prima memoria con rimessione in termini;
Ora se le eccezioni di competenza devono essere presentate entro l'udienza ex 183 c.p.c., se non è necessario pronunciarsi sulle competenze con sentenza ma è sufficiente un'ordinanza, per quale ragione il giudice non dovrebbe pronunciarsi entro la prima udienza disponibile, ovvero l'udienza ex 184 c.p.c., ma dovrebbe arrivare all'udienza istruttoria, fissare una nuova ed ulteriore udienza per decidere delle sole competenze?
Non vi è motivo, dopo la modifica degli articoli 38 e 279 c.p.c., il giudice che deve pronunciarsi sulle sole competenze lo deve fare entro e non oltre l'udienza ex 184 c.p.c.;
altra consuetudine diffusa e consolidata in molti tribunali è quella che ritiene normale, legittima e corretta la presentazione delle ultime 3 dichiarazioni dei redditi per determinare i rapporti patrimoniali dei coniugi senza alcun riscontro con le norme del diritto nei procedimenti di separazione e divorzio;
infatti i documenti da presentare sono indicati nell'articolo 4 comma 6 e nell'articolo 5 comma 9 della legge 898/70 e si parla sempre e solo delle ultime dichiarazioni dei redditi senza indicazioni numeriche di sorta, mentre si impone la consegna di tutta la documentazione necessaria a stabilire il patrimonio personale delle parti ed il patrimonio dei coniugi;
altra convinzione comune e diffusa ritiene che nella fase presidenziale dei procedimenti di separazione e divorzio non sia possibile attività istruttoria, senza che amche tale convinzione trovi riscontro nelle norme;
infatti tale convinzione è addirittura contraria alle norme vigenti perché l'articolo 5 comma 9 della legge 898/70 impone che in caso di contestazione, durante l'udienza presidenziale, “il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”;
si pensi a come sia convinzione diffusa che mentire o alterare le informazioni nel processo non produca consumazione di illecito mentre viola l'obbligo di lealtà e probità previsto dall'articolo 88 e dopo la riforma della legge 69/2009 prevede appositi strumenti sanzionatori a disposizione del giudice con le modifiche all'articolo 92 c.p.c;
il termine lealtà, in italiano corretto, indica l'essere leale, indica l'agire con sincerità, con franchezza, quindi non si può mentire e non si può alterare o modificare artatamente la realtà fattuale del processo e se vogliamo essere letterali non si può nemmeno tacere ciò che si conosce altrimenti non si è franchi;
il termine probità, in italiano corretto, indica onestà, rettitudine morale e nuovamente ogni tentativo di alterare la verità, manipolarla e occultarla risulta consumare un atto illecito;
e sempre l'articolo 88 c.p.c. impone addirittura che “in caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi”, se queste disposizioni venissero applicate con rigore i processi non si snellirebbero?
una diffusa difficoltà nel comprendere le norme del diritto, per una non piena ed esauriente conoscenza della lingua italiana aulica utilizzata nella redazione dei codici, e di conseguenza la difficoltà di saper individuare correttamente l'applicabilità delle norme ai casi di specie proposti nel processo, si pensi a mero titolo di esempio:
alla convinzione che una volta concessi i termini per le memorie ex 183 debbano essere obbligatoriamente presentate tutte le memorie mentre non è così se le parti ripresentano quanto proposto nell'atto di citazione o nella comparsa di risposta senza aggiungere fatti sostanziali il Giudice ha facoltà di ritenere la causa matura per la decisione ai sensi dell'articolo 187 c.p.c. anche dopo la prima memoria ex 183 c.p.c., mentre la “consuetudine processuale” attualmente in vigore vuole che le parti scrivano le memorie senza che vi sia una attiva partecipazione del giudice al dibattimento scritto, quindi si ha un allungamento spesso capzioso del procedimento;
ai provvedimenti anticipatori di condanna (articoli 186-bis, 186-ter, 186-quater c.p.c.);
si tratta di istanze introdotte per accelerare la durata dei procedimenti eppure sono provvedimenti pressoché sconosciuti;
l'istanza 186-bis, ad esempio, è un'istanza che per norma di diritto può essere proposta, su istanza di parte, fino al momento della precisazione delle conclusioni, ovvero la norma non limita ne proibisce di ripresentare tale istanza in un qualunque fase del procedimento o di ripresentarla in diversi momenti del procedimento, eppure è un'istanza quasi totalmente disapplicata;
sarebbe interessante poter disporre di statistiche che illustrino quante volte vengono presentate istanze di applicazione di provvedimenti utili a ridurre i tempi del procedimento e quante volte vengono accolti, la mia personale ipotesi è che siano totalmente disapplicati e senza che se ne possa comprendere la reale ragione;
infatti si avvia una causa civile per ottenere il ripristino di un danno patrimoniale, quindi il primo interesse del cliente ed il principale diritto del cliente è il vedersi riconoscere nel minor tempo possibile il danno con l'ottenimento del denaro;
se la giustizia produrrà questo ripristino patrimoniale in tempi accettabili, se applicherà seriamente e severamente le sanzioni per lite temeraria e per attività dilatoria, aumenterà il ricorso ai professionisti forensi ma al tempo stesso si ridurrà il numero dei procedimenti, perché verrà meno la convenienza di procedere con il processo;
all'obbligo di assumere come provati i fatti non specificamente contestati (art. 115 c.p.c.);
in merito alla nuova formulazione dell'articolo 115 c.p.c., recita:
“Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita.
Il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.”
Cosa intende il legislatore per “I fatti non specificamente contestati”?
I fatti sono un termine inequivocabile, perché essendo presentati in un processo devono essere necessariamente fatti giuridici, ovvero devono essere che producono o hanno effetti connessi in forza della volontà della legge;
il termine specificamente in italiano significa “in modo particolare, con un preciso riferimento”;
mentre il verbo contestare ha un senso preciso nel linguaggio giuridico, infatti significa “comunicare all'imputato, da parte dell'autorità giudiziaria, che un fatto costituente reato è a lui attribuito”;
mentre in italiano il significato di contestare è “negare, contrastare, mettere in dubbio la validità o legittimità di qualche cosa”, quindi è evidente che la traduzione in un italiano meno aulico dell'articolo 115 c.p.c., è la seguente:
“Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti giuridici proposti dall'attore di cui il convenuto non ha specificamente contrastato la validità giuridica, la legittimità”
Per cui se il convenuto non presenta fatti giuridici o diritti azionabili utili a paralizzare le pretese avversarie, i fatti presentati dal convenuto devono essere assunti come provati;
dovrebbe essere evidente che la mancanza di contestazione specifica non ha nulla a che vedere con la formulazione linguistica della contestazione proposta dal convenuto ma ha a che vedere con la sostanza giuridica di tale contestazione;
alla lite temeraria ed alla resistenza temeraria (art. 96 c. 1) o alla punibilità della slealtà processuale (art. 88 c.p.c.) o alla sanzionabilità della resistenza temeraria (art. 96 c.p.c.);
tutte situazioni che nella pratica corrente e reale dovrebbero essere quasi sistematicamente applicate perché sono innumerevoli i procedimenti che si fondano su mere difese dilatorie e temerarie;
anche in questo caso non, credo esista una statistica che fornisca dati precisi su quante richieste di applicazione degli articoli succitati siano state avanzate e quante siano state accolte, ma la mia personale ipotesi è che anche questi provvedimenti, indispensabili a riportare la giustizia in un corretto alveo di normalità, siano sostanzialmente disapplicati;
all'obbligo di presentarsi all'udienza presidenziale con tutti i documenti necessari a definire il patrimonio personale e dei coniugi prevista dalla legge 898/70 (art. 5 comma 9);
all'obbligo di indagine patrimoniale nella fase presidenziale dei procedimenti di separazione e divorzio prevista dalla legge 898/70 (art. 5 comma 9);
una sempre meno precisa, corretta e lecita interpretazione del ruolo che hanno realmente nel processo le parti, i giudici e i difensori;
innanzi tutto non si deve dimenticare che attore e convenuto, per agire in giudizio devono presentare fatti;
le parti in causa, malgrado oggi si tenda a marginalizzarle, partendo dal pregiudizio che non possano comprendere il diritto correttamente e quindi non siano in grado di contribuire correttamente allo svolgimento del processo, sono sostanzialmente le uniche parti titolari della causa, quindi ne sono protagonisti e questa interpretazione è confermata dal disposto dell'articolo 82 c.p.c. che, omettendo le situazioni particolari, recita “le parti non possono stare in giudizio se non col ministero o con l'assistenza di un difensore”;
ora il termine ministero significa: “servizio, prestazione di servizio (nella condizione di servitore o di subalterno in genere); incarico o funzione particolare; impiego, mestiere; ufficio alto e nobile, assunto per vocazione e inteso come dovere, come apostolato, come missione”;
mentre il termine assistenza significa “atto dell'assistere: dell'essere presente”;
Quindi, applicando alla lettera il disposto dell'articolo 82 c.p.c., trasposto in italiano corrente risulta che le parti agiscono in giudizio con la presenza ed il servizio di un difensore;
non vi è possibilità che il difensore possa assumere il controllo e la totale autonoma gestione del processo, questo significa che il difensore deve svolgere tutte quelle attività specialistiche che la parte non è in grado di svolgere, il difensore deve individuare i diritti azionabili, mediare traducendo in termini tecnici le richieste della parte e quando fosse necessario, porsi come “traduttore” tra la parte ed il giudice, ma per nessuna ragione il difensore può sostituire integralmente la parte;
ne tanto meno il giudice si può permettere, come invece sembra essere consuetudine ricorrente, di rivolgersi sistematicamente ed esclusivamente al difensore quando la parte sia presente;
a tale proposito è fondamentale ricordare che l'articolo 183 c.p.c. statuisce ai commi 2 e 3 quanto segue:
“Nell'udienza di trattazione ovvero in quella eventualmente fissata ai sensi del terzo comma, il giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.
Nella stessa udienza l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto.”
da questi commi risultano chiaramente due aspetti:
il primo è che il giudice deve interrogare le parti per ottenere i chiarimenti necessari e questa verifica obbligatoria ha sia una funzione di puntualizzazione sia una funzione di garanzia, ovvero quella di accertare che quanto presentato dalle parti per mezzo dei difensori corrisponda con le reali intenzioni delle parti, gli errori ed i fraintendimenti sono sempre possibili ma non auspicabili nel processo;
il secondo è che si conferma pienamente la titolarità della causa, infatti il codice dà all'attore il diritto di proporre domande riconvenzionali ed eccezioni e non al difensore, questo conferma la natura di supporto ed affiancamento della funzione del difensore;
una profonda carenza di capacità di analizzare i fatti di causa e comprendere quali norme applicare realmente da parte di difensori e giudici; ed è questa carenza che è produce sia il sempre più pressante utilizzo, illegittimo, della giurisprudenza di legittimità e di merito nelle pratiche di causa, e che al tempo stesso produce una così incredibile quantità di ricorsi alla Suprema Corte di Cassazione ed alle corti di appello;
è innegabile che moltissimi professionisti forensi hanno una buona od ottima conoscenza del diritto, ma moltissimi quando devono agire individuando le norme da applicare al procedimento o da impugnare per contrastare le difese avversarie o le decisioni del giudice rivelano gravissime carenze e dimostrano notevoli limiti;
questo problema non è ascrivibile ai singoli individui ma alla formazione accademica ed al sistema delle abilitazioni, se si vuole rendere l'agire in giudizio parte integrante del quotidiano si deve garantire la qualità del servizio, ovvero si deve garantire al cliente di ottenere la reintegrazione totale dei danni subiti, per farlo servono operatori che non abbiano solo competenze teoriche ma che abbiano dimostrato nei fatti di saperle utilizzare nel quotidiano del lavoro con efficacia ed efficienza;
per cui sarebbe molto più utile che il praticantato avvenisse in due parti:
un esame di stato che garantisca che la formazione accademica ricevuta fosse adeguata agli standard qualitativi indispensabili per poter svolgere la professione (e sarebbe opportuno che ogni anno lo stato pubblicasse statistiche puntuali sui livelli di successo conseguiti dai vari atenei ridistribuendo i finanziamenti in funzione della qualità di tali risultati)
e poi un periodo di praticantato, dalla durata determinata, retribuito ma costituito da esperienze diversificate, e per la precisione da:
un periodo presso i tribunali civili;
un periodo presso i tribunali penali;
un periodo presso un tribunale speciale a scelta;
un periodo presso tre diversi professionisti;
ognuno di questi periodi di prova deve essere assoggettato ad una valutazione di merito riportata su un libretto specifico, come avviene per i medici, e deve produrre, se superata positivamente, l'autorizzazione ad operare in autonomia, fin tanto che questo tirocinio non viene concluso positivamente si deve poter lavorare in qualità di collaboratore con compensi stabiliti per legge e tali da garantire la dignità dell'avvocato;
da ultimo, ma solo in relazione a questa breve riflessione, si deve citare anche la incredibile ed inaccettabile disparità numerica tra magistrati ed avvocati, oggi in Italia ci sono meno di 11 mila magistrati togati e meno di 11 mila magistrati onorari, mentre sono abilitati più di 280 mila avvocati;
lo stato spende 300 miliardi per la sanità e meno di 4 miliardi per la giustizia è una vergogna che non può essere tollerata oltre;
personalmente ritengo che, dato l'altissimo numero di professionisti forensi, dati gli alti costi di gestione, data la concreta impossibilità di accedere alla difesa che il nostro sistema sviluppa nei fatti, si potrebbe pensare molto seriamente a procedere con la creazione di una magistratura difensiva pubblica in grado di operare sia come avvocatura pubblica sia come struttura di supporto integrativo a pieno supporto della magistratura quando fosse necessario, in cui inserire tutti quei professionisti che pur volendo vivere facendo la professione forense, non vogliano trasformarsi in imprenditori (perché tutte le attività professionali sono inevitabilmente attività imprenditoriali);
Queste sono brevi ed incomplete riflessioni personali, che non vogliono assurgere a disamina scientifica dei problemi della giustizia ma che nascono da esperienze dirette, personali e quotidiane che, per come sono state vissute, non possono essere ridotte a mere esperienze soggettive, quindi sono riflessioni serie di limiti e problemi reali che oggi inficiano la giustizia e ne riducono l'efficacia funzionale.
Ritengo che si possa intervenire strutturalmente con interventi relativamente semplici, poco onerosi ma comunque molto efficaci e mi auguro che questo si possa fare molto ma molto in fretta.
Oggi la giustizia non ha alcun valore sociale reale perché non garantisce prevedibilità del risultato, tempi utili a conseguirlo e garanzia del diritto.
Vorrei fornire un ultimo piccolo spunto di riflessione, quando si svolge un lavoro l'indeterminatezza del risultato è, nel mondo del lavoro normale, sempre segno di incapacità e comporta sempre una perdita di capacità reddituale, qualunque lavoro si faccia, più è difficile ottenere il risultato e più si è legittimamente pagati. Oggi questo principio non vale per la giustizia e finché non verrà corretto la giustizia sarà una componente sociale problematica inefficiente e praticamente incostituzionale.
Non si deve dimenticare che se un diritto non è accessibile o viene garantito attraverso la discriminazione sociale quel diritto non esiste.
Casimiro Mondino
Data: 29/01/2014 16:10:00Autore: Casimiro Mondino