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L'esercizio dei Diritti Politici dei cittadini in uniforme.



La Carta Costituzionale ha previsto, per i cittadini in divisa, attraverso il combinato disposto degli artt. 49, 52 e 98, il potere/dovere di concorrere democraticamente all'esercizio della sovranità popolare, all'interno di una propria scelta di natura politica.


All'inizio dell'era repubblicana questo potere/dovere fu temperato dal Costituente attraverso una riserva di legge generale che nel tempo è stata adottata soltanto per la magistratura e che, seppur avviata nel 1981 e contestualizzata nella Legge 1 Aprile 1981, n. 121(Pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 10 aprile 1981, n. 100. Nuovo ordinamento dell'Amministrazione della pubblica sicurezza), è stata disattesa nel tempo per tutti i cittadini in uniforme a seguito di decadenza del decreto attuativo annualmente non più riproposto dal 1990.
Soltanto attraverso disposizioni normative successive e strettamente di ordine regolamentare, sono stati posti dei limiti all'esercizio dei diritti politici, sia attivi che passivi, costituzionalmente previsti anche per i militari e gli appartenenti alle FF PP., riconoscendo implicitamente che garantire a questi servitori dello Stato una totale libertà di attività politica avrebbe potuto configgere in parte con l'essenza stessa della struttura militare e delle sue necessità operative e dall'altra con la corretta e imparziale amministrazione dello Stato e della vita democratica, laddove questi suoi dipendenti non calibrassero l'esercizio di tale diritto ed il proprio agire ad una imparzialità assoluta ed equidistanza dalle contese politiche.
La ratio dispositiva di queste disposizioni legislative deve essere individuata nel fatto di non considerare irragionevoli delle limitazioni dei diritti costituzionali dei cittadini in divisa, in quanto, essendo le Forze Armate e le Forze di Polizia organi speciali dello Stato proprio perché ordinativamente armati e titolari di un potere effettivo e concreto, capace di condizionare la decisione politica della direzione di governo dello Stato stesso, risulta necessario mitigare così, attraverso l'applicazione di rigide norme disciplinari, ove fosse necessario, il pericolo di eventuali derive antidemocratiche.
Questo tipo di regolamentazione si ricollega appunto all'art. 98 comma 3° della Costituzione con cui si affida al legislatore la facoltà di limitare tale diritto in capo a certe categorie di dipendenti pubblici “sensibili”, così com'è avvenuto, per esempio, per i magistrati a cui è stato posto il divieto di iscriversi ai partiti, oltre a forti limitazioni anche in caso di esercizio passivo del diritto politico.
Oggettivamente è da riscontrare che le premesse di fondo, rispetto alle limitazioni poste al personale militare e di polizia, sono di ordine diverso rispetto alla magistratura, nel senso che, mentre per i militari e gli appartenenti alle FF.PP è prevista la limitazione di alcuni diritti in funzione e solamente della specificità del rispettivo settore e della funzionalità dello stesso strumento militare e di polizia, per quanto riguarda i magistrati le limitazioni di alcuni diritti costituzionali sono previsti in funzione della fondamentale imparzialità e terziarità dell'ordinamento giudiziario.

Per i militari di carriera, nonostante l'applicazione del contenuto dell'art. 98 comma 3° fosse stato “caldeggiato ” dai vertici delle FF. AA. stesse, che giustificarono tale richiesta per sottrarsi alla forte politicizzazione della società nei primi anni del dopoguerra, esso alla fine, e giustamente, non ha mai ricevuto applicazione legislativa, seppur il legislatore più volte ha proposto diversi progetti di legge in tal senso, giunti anche a discussione in aula, ma che alla fine non sono mai stati realizzati.
I due progetti più conosciuti sono il disegno di legge Pacciardi del 1949 e il disegno di legge che sarebbe poi diventato la legge 382/78, oggi in parte riversata nel T.U.R.O.M. e nel C.O.M., che nella stesura originaria aveva previsto, peraltro, per i militari il divieto d'iscrizione a partiti politici e comunque ad associazioni con finalità politiche.
In parlamento duramente si fronteggiarono tesi opposte quali la necessaria totale apoliticità delle FF. AA. e il riconoscimento di ampie libertà politiche ai singoli militari che avrebbero in ogni caso garantito la neutralità delle FF. AA. nel loro complesso, giungendo poi alla ormai nota e attuale soluzione di compromesso, che vieta l'attività politica ai singoli militari in determinate circostanze ma consente loro, in modo assoluto e pacifico e fuori da ogni dubbio, l'iscrizione a partiti politici.
Per le Forze di Polizia si era provveduto ancor prima della nascita dell'Istituzione Repubblicana attraverso il decreto legge luogotenenziale 205/45 con cui era stato vietato ai dipendenti civili e militari della amministrazione della pubblica sicurezza di iscriversi a partiti e sindacati, ma poi con la legge 121/1981 il secondo divieto venne cancellato e stranamente il primo, di contro, venne esteso, come meglio si rileva dal dispositivo dell'art. 114 (Divieto di iscrizione ai partiti politici. Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici).
Questa norma a carattere transitorio, in visione di un'attuazione generale del dettato costituzionale del comma 3° dell'art. 98, presuppone erroneamente l'obbligatorietà e non la facoltà della realizzazione normativa della riserva di legge contenuta nel dettato costituzionale, che poi alla fine non avvenne, come è stato più volte ribadito.
Laddove invece si fosse realizzata effettivamente detta previsione costituzionale, attraverso la conferma del dispositivo di cui alla Legge 121/81, si sarebbero verificati dei disallineamenti inspiegabili perchè si sarebbe ottenuto un divieto d'iscrizione ai partiti oltre che per la Polizia di Stato ed altre FF.PP. fino a qualche anno fa ordinamento militare (Polizia Penitenziaria e Guarda Forestale dello Stato) anche per l'Arma dei CC e la Guardia di Finanza, che ai sensi dell'art. 16 della precitata legge sono considerate Forze di Polizia ad ordinamento militare e non per le FF.AA. di cui curiosamente fanno parte la prima come quarta Forza Armata e la seconda come Corpo Armato dello Stato.
Difficilmente si sarebbe potuta giustificare una schizofrenia normativa di tale portata con la volontà di voler limitare un soggettivo potere sul territorio di CC e GdF in prospettiva di un eventuale potere di condizionamento della scelta democratica e non invece con una cattiva armonizzazione dello strumento legislativo, peraltro su diritti di rango costituzionale.

Fino al 199o tutti i governi hanno prorogato il termine di un anno, previsto nell'art. 114 della legge 121/1981, per l'applicazione dell'art. 98 della Costituzione con scarsi risultati poiché mai si ebbe a realizzare questa ipotesi, anche se un estremo tentativo era stato avviato con il progetto di riforma della Costituzione redatto dalla Commissione Bicamerale che intendeva prevedere esplicitamente in un articolo, il 108, il divieto di iscrizione ai partiti per i militari di professione. In mancanza dunque di ulteriori proroghe il divieto è reso oggi inoperante, permettendo ope legis che tutti i militari e gli appartenenti alle Forze di Polizia possono iscriversi liberamente a partiti politici senza limitazioni di sorta.
Tuttavia, soprattutto nelle FF. AA. esiste ancora una tendenza a confondere la portata specifica delle leggi con un'operazione verticistica di disinformazione, tanto che è ormai diffusa l'ipotesi che i militari non possono fare politica e non posso iscriversi ai partiti.
Genericamente esistono formulazioni le più fumose, ma quella che fra tutte ha dell'inverosimile è quella ultra sibillina adottata dall'Arma dei Carabinieri secondo cui: “l'iscrizione ad un partito politico non può essere, in via di principio, vietata e soggetta ad autorizzazione dell'Amministrazione militare; ai militari in servizio in servizio è vietata qualsiasi forma di attività politica non espressamente consentita dalla legge“, nonché: “l'iscrizione in argomento, ancorché, in sé, non vietata, è da intendersi assorbita dal divieto di esercizio di attività politica”, per giungere poi all'interpretazione dell'interpretazione con cui, in alcuni casi, si “invita“ il militare, che fa comunicazione ai sensi dell'art. 748 del Turom di una sua iscrizione ad un partito politico, di recedere dall'iscrizione!
Parecchie interrogazioni parlamentari sono state poste da più onorevoli in relazione a questo strano e altalenante comportamento dell'Arma dei Carabinieri che in un dato momento storico ha trovato un'ottima spalla nei rappresentanti del Governo che hanno volutamente disattendere, in alcuni casi, il significato letterale e intrinseco della legge stessa, addirittura minacciando scenari penali e disciplinari per quei militari che avessero disatteso un'interpretazione “filo-verticistica e governativa” della normativa di settore, mentre in altre occasioni si sono limitati ad affermare la legittimità dell'iscrizione ai partiti ma non quella di esercizio attivo dei diritti politici.
Alla luce invece di una letterale interpretazione della normativa di settore, ancora costante ai nostri giorni, si può invece affermare che l'unico limite, che così oggettivamente può essere inteso, si può forse scorgere in un generico divieto di adesione ad associazioni incompatibili con i doveri del giuramento prestato, qualora la dottrina politica e lo statuto del partito di adesione sia effettivamente incompatibile con quei doveri e principi costituzionalmente previsti, ad esempio quelli che si pongo fuori dall'arco costituzionale, ovvero di estrema destra o di estrema sinistra o quelli che si pongono come finalità il sovvertimento dell'ordine democratico della Nazione.
In ambito militare, come già è stato illustrato molto genericamente, gli unici divieti legittimi promanano solo dall'art. 1483 del C.O.M. che vieta ai militari di partecipare a manifestazioni politiche e di svolgere propaganda politica quando si trovino nelle condizioni di cui all'art. 1350 del COM, cioè quando sono alternativamente o contemporaneamente in servizio, in luoghi militari, in uniforme, oppure quando si qualifichino come militari, o quando si rivolgono a militari in divisa, o che si qualificano come tali, anche se quest'ultima ipotesi non sembra di per sé sufficiente ad integrare il divieto dell'art. 1483 del COM, poiché in caso contrario la limitazione al diritto di attività politica fuori dall'ambiente militare sarebbe troppo e irragionevolmente estesa tanto da sembrare una compressione arbitraria del diritto stesso.
La definizione di propaganda politica, nella sua accezione più completa, va dal semplice invito al voto fra colleghi, all'esortazione posta dal comandante ai subalterni e maggiormente, più evidente e pericolosa, quando la propaganda viene svolta nei confronti di un inferiore poiché sorgerebbe il sospetto di un una limitazione di un diritto costituzionale, quale quello alla libertà di determinare le proprie scelte politiche soggettivamente dell'inferiore, in considerazione di una compressione dovuta allo stato di soggezione disciplinare operante.

Comportamenti lesivi dei principi appena enunciati e inseriti in quello più complesso della estraneità delle FF. AA. alle competizioni politiche sono sanzionati ai sensi del C.O.M. e del T.U.R.O.M. e se limitazioni esistono per l'elettorato attivo, di contro, non ne esistono per l'esercizio dell'elettorato passivo, infatti, ogni militare che intenda candidarsi a elezioni politiche o amministrative può liberamente svolgere propaganda al di fuori dell'ambiente militare, usufruendo inoltre di una licenza speciale e in caso di elezione, i militari di professione, saranno messi in aspettativa per tutta la durata del mandato.
Disciplina particolare è dettata per i militari di leva o richiamati, perché la leva è stata dal 2000 solamente sospesa, in quanto in caso di elezione a funzioni pubbliche comunali o provinciali l'eletto deve essere destinato, compatibilmente con le esigenze di servizio, ad una sede che gli consente l'espletamento del mandato.
Per i cittadini in uniforme i diritti di petizione al Parlamento, di proposta di legge d'iniziativa popolare e di richiesta di referendum trovano l'unico limite nel divieto, insito nella disciplina complessiva, sussistente allorché queste riguardino argomenti riservati d'interesse militare o di servizio.
In sintesi esiste oggi una legislazione, in attuazione di un pensiero contemperato di esercizio dei diritti politici del cittadino, che discende direttamente e inequivocabilmente dal dispositivo Costituente, che contempla contemporaneamente tanto una tutela che garantisce l'esercizio dei diritti politici erga omnes, quanto una limitazione ex lege, anche nelle previsioni generali di cui all'art. 97 della Costituzione, che trova legittimamente attuazione generale nel combinato disposto degli artt. 1350 e 1483 del COM, vietando soltanto quelle manifestazioni più significative che potrebbero pregiudicare una formale estraneità delle FF. AA. all'agone politico nazionale e minare quell'imparzialità e correttezza della P.A. necessaria per una serena e pacifica vita democratica delle istituzioni e della società civile stessa.
La ratio giuridicamente che si rileva dall'architettura di livello Costituzionale e di rango legislativo ordinario, è quella di evitare che l'attività politica del cittadino-militare possa coinvolgere l'istituzione che esso anche singolarmente rappresenta.
In molti teorizzano, a detrimento della legge di principio sulla disciplina militare, adesso presente diffusamente nel C.O.M. e nel T.U.R.O.M. e della Legge 121/81, come illegittimo il divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni delle organizzazioni politiche, perché questo comprimerebbe la possibilità stessa di concorrere a determinare la politica nazionale e tacciano il divieto di propaganda politica di inopportunità perché chiuderebbe nell'ambiente interno del militare quanto egli apprende sulla vita del Paese o, addirittura, di incostituzionalità in quanto violerebbe il principio di democratizzazione in quanto preclude il dibattito politico-culturale, strumento di controllo di qualsiasi cittadino sia esso in uniforme o meno.
Per terminare si ribadisce ancora che l'attuale disciplina legislativa non impedisce alcun esercizio dei diritti politici, sia attivi che passivi, degli appartenenti alle FF.AA o alle FF.PP, ma impone solamente di evitare quelle condizioni che ufficialmente lo potrebbero indicare come militare o membro delle FF.PP e associarlo formalmente all'ordinamento a cui appartiene, come ormai consolidata giurisprudenza della Giustizia Amministrativa insegna.

In particolare ogni militare può svolgere attività politica attiva se si trova fuori da un contesto di servizio e di appartenenza anche solo formale all'Istituzione di cui fa parte, come indicato nell'art. 1483 del C.O.M. in riferimento all'art. 1350: “, poiché ogni comportamento non riconducibile ad una delle suddette limitazioni espresse, deve ritenersi consentito, qualora, come nel caso di specie, costituisca esercizio di un diritto costituzionalmente riconosciuto a tutti i cittadini, così come affermato per la partecipazione all'attività politica dall'articolo 49 Cost.” (Sentenza Tra Veneto, Sez. 1, n. 01480/2012 Reg. prov. Coll.) e al contempo non può trovare accoglimento l'ipotesi di un divieto onnicomprensivo dell'attività politica del singolo soggetto in forza del principio di estraneità delle FF.AA. alle competizioni politiche in quanto: “Il principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche, sancito dal comma 1 dell'articolo 6, non può essere inteso estensivamente, come riferibile anche ai comportamenti tenuti da ciascun singolo appartenente. Altrimenti – a parte la evidente difficoltà di ritenere che i comportamenti dei singoli siano in grado di “impegnare”, o possano di per sé risultare rappresentativi di un orientamento dell'insieme dell'Istituzione cui appartengono - non vi sarebbe stato bisogno di precisare, al comma 2, il divieto di svolgere attività politica per i (singoli) militari.”. (Sentenza TAR Umbria Sez. 1, n. 409/2011 Reg. Prov. Coll.
Dr. Carmelo Cataldi
Consigliere Giuridico in D.I.U. e D.O.M.
* Si riportano integralmente le due Sentenze del TAR Umbria e Veneto .
Data: 07/03/2014 10:40:00
Autore: Carmelo Cataldi