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Missione all'estero e causa di servizio



Avv. Francesco Pandolfi, specializzato in diritto militare.

Missione all'estero, causa di servizio ( leucemia mieloide acuta ), sindrome dei Balcani e domanda risarcitoria, contatto con armi ad uranio impoverito.
L'ammissibilità del risarcimento del danno in favore dei congiunti del Carabiniere vittima dell'esposizioni prolungata a nano particelle di uranio impoverito durante la missione estera in Kosovo, viene ampiamente giustificata ed accordata dal Tar Campania con la sentenza n° 2800/2013; si tratta di fattispecie rispetto alla quale il Giudicante assume a criterio valutativo utile a dirimere la controversia anche il "fatto notorio" della Sindrome dei Balcani, oltre al documentato nesso causale tra fatto (esposizione alla sostanza altamente tossica) ed evento (decesso del Militare).
Accadeva che il Luogotenente M.S. si arruolava nell'Arma dei Carabinieri nel 1970; nel corso del predetto servizio prendeva parte a due missioni militari nell'area Balcanica: la prima in Albania, la seconda in Kosovo fino al 2005.
Al rientro da quest'ultima missione veniva sottoposto a controlli medici in base al c.d. "Protocollo Mandelli" di cui alla legge n. 27 del 2001. All'indomani di tali accertamenti venivano disposti ulteriori approfondimenti diagnostici all'esito dei quali gli veniva riscontrata una "Leucemia Mieloide Acuta". A distanza di sedici mesi dalla manifestazione di tale patologia l'interessato decedeva nel 2007.
Veniva dunque chiesto l'equo indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio (in ragione del contatto, durante le predette missioni al'estero, con armi ad uranio impoverito) che dopo un primo diniego veniva infine riconosciuto con decreto n. 226 del 1° febbraio 2010.
Con il ricorso sfociato poi nella sentenza del Tar 2800/13 gli eredi del defunto sottufficiale hanno invece chiesto il riconoscimento del diritto a conseguire il risarcimento del danno biologico subito a seguito della citata malattia, accusata dopo aver prestato servizio per più periodi di tempo in Albania e Kosovo ed essere rimasto esposto - come già detto - a radiazioni emesse dall'uranio impoverito presente nelle armi ivi utilizzate.

Al riguardo è stata allegata diffusa perizia di parte con la quale si evidenzia il nesso causale tra attività prestata all'estero a contatto con armi ad uranio impoverito e patologia subita (c.d. "Sindrome dei Balcani"). Venivano inoltre allegati elementi circostanziati circa la natura del danno, anche ai fini della sua quantificazione, nonché in ordine alla colpa dell'amministrazione della difesa, la quale non avrebbe in particolare adottato idonei sistemi di prevenzione e di precauzione.
Si costituiva in giudizio l'amministrazione militare intimata per chiedere il rigetto del gravame. Veniva peraltro sollevata eccezione di difetto di giurisdizione, nonché eccezione di inammissibilità in quanto il danno subito sarebbe stato comunque già risarcito sulla base del riconoscimento dell'equo indennizzo cui si è fatto prima cenno.
La causa veniva infine trattenuta in decisione.
Si affronta, in via preliminare, l'eccezione di giurisdizione; al riguardo il collegio ritiene di non discostarsi dalla conclusioni cui è già pervenuta questa stessa sezione con le pronunzie n. 17232 del 5 agosto 2010 e n. 1084 del 25 febbraio 2013.
In proposito, va premesso come la giurisprudenza amministrativa abbia reiteratamente affermato che la domanda del dipendente volta alla condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno biologico si presti ad essere qualificata sia come azione di natura extracontrattuale, se proposta ai sensi dell'art. 2043 c.c., e dunque appartenente alla giurisdizione del giudice ordinario, sia come azione per l'accertamento della responsabilità contrattuale della Pubblica Amministrazione quando essa sia invece correlata alla violazione da parte dell'Amministrazione di appartenenza dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori dipendenti; e tale ricostruzione è stata più volte avallata in sede di regolamento di giurisdizione dalla Suprema Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 5785 del 4.3.2008; Cass. SS.UU., n. 7394 del 28.7.1998), la quale con recente pronunzia (cfr. Cass. SS.UU. n. 5468 del 6.3.2009), nell'annullare la decisione n. 6678 del 14.11.2006 della sez. V del Consiglio di Stato che sul punto aveva negato la giurisdizione del G.A., ha ribadito che "la soluzione della questione del riparto della giurisdizione, rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità psico-fisica proposta da un pubblico dipendente nei confronti dell'Amministrazione, è strettamente subordinata all'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell'ente datore di lavoro, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale, la giurisdizione spetta al giudice ordinario", deve qualificare l'azione come di responsabilità extracontrattuale".
Orbene, nel caso in esame il militare che ha operato in Albania e in Kosovo a più riprese tra il 2000 e il 2005, dopo aver prospettato, sulla scorta di apposita consulenza medico legale di parte, che la patologia tumorale contratta era ricollegabile alla esposizione all'uranio impoverito (cd. sindrome dei Balcani), essendo stata tale sostanza massicciamente impiegata negli armamenti usati dalle Forze Armate NATO durante l'intervento militare nei Balcani, ha espressamente affermato la sussistenza di una responsabilità dell'Amministrazione della Difesa per aver impiegato senza alcuna protezione specifica personale militare in zona da lei stessa contaminata con l'uso di proiettili con uranio impoverito, pur nella consapevolezza della esposizione di tale personale a concreti fattori di rischio (come dimostrato dall'emanazione della normativa di cui all'art. 4 bis D.L. 393/2000, introdotto dalla legge di conversione n. 27/2001, con la quale era stata disposta "la realizzazione di una campagna di monitoraggio sulle condizioni sanitarie dei cittadini italiani che a qualunque titolo hanno operato o operano nei territori della Bosnia -Herzegovina e del Kosovo").
Sulla scorta di tali elementi è così indiscutibile, a giudizio del Tribunale, che la formulata domanda risarcitoria trovi il proprio fondamento nella responsabilità conseguente all'inosservanza dei precisi obblighi che l'art. 2087 cod. civ. ("l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro") pone a carico del datore di lavoro rispetto ai dipendenti; norma ritenuta applicabile anche nei confronti della Pubblica Amministrazione: la sua cognizione, quindi, riguardando una questione riferibile al rapporto di impiego di personale non contrattualizzato della P.A., è devoluta alla giurisdizione esclusiva del G.A..

La relativa eccezione deve dunque essere rigettata.
Quanto poi all'eccezione di inammissibilità per avere il Ministero della difesa già provveduto, attraverso il riconoscimento dell'equo indennizzo, alla liquidazione dei danni di cui si discute in questa sede si osserva quanto segue.
Come del resto già affermato, l'azione volta a conseguire il risarcimento del danno biologico risulta cumulabile con la pretesa all'equo indennizzo (già percepito dall'interessato), posto che, mentre il risarcimento, "quanto ad oggetto e finalità, tende a ristabilire l'equilibrio nella situazione del soggetto turbata dall'evento lesivo e a compensare per equivalente la perduta integrità fisio-psichica", invece l'equo indennizzo "proprio per il concetto e di discrezionalità ad esso inerente, e per la sua non coincidenza con l'entità effettiva del pregiudizio subito dal dipendente, appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l'Amministrazione conferisce ai propri dipendenti inrelazione alle vicende del servizio, con funzioni di graduazione e di equa distribuzione di compensi aggiuntivi" (così Cons. di Stato sez. IV, n. 2009 del 31.3.2009, e, in senso analogo Cass. Civ. n. 13887 del 23.7.2004); con la conseguenza che "dall'importo liquidato a titolo di risarcimento del danno alla persona (patrimoniale o biologico) non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, oppure a titolo di assegni, di equo indennizzo, o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte od all'invalidità" in quanto, "perché possa applicarsi il principio della compensatio lucri cum damno è necessario che il vantaggio economico sia arrecato direttamente dal medesimo fatto concreto che ha prodotto il danno", e invece le erogazioni da ultimo indicate "si fondano su un titolo diverso rispetto all'atto illecito e non hanno finalità risarcitorie" (cfr. Cass. Civ. n. 10291 del 27.7.2001; Cass. Civ. n. 11440 del 18.11.1997; T.A.R. Campania Napoli n. 3536 del 7.5.2008).
Anche tale eccezione deve dunque essere rigettata.
Nel merito il ricorso è fondato e deve essere accolto per le ragioni di seguito indicate.
Quanto all'accertamento del danno subito va innanzitutto chiarito che la proposta domanda risarcitoria è stata limitata al solo danno biologico nei termini sopra precisati (e quindi con esclusione di altre voci di danno non patrimoniale). Va poi evidenziato che, dalla documentazione in atti, sono emersi elementi senz'altro idonei a dare conto della sussistenza della patologia lamentata dal ricorrente ("Leucemia Mieloide Acuta") e delle sue tragiche conseguenze (decesso del Sa.).
Quanto al nesso causale, costituisce nella sostanza fatto notorio che un cospicuo numero di militari impiegati in missione all'estero hanno nel tempo accusato patologie, prevalentemente di natura cancerosa, associate all'esposizione all'uranio impoverito (cd. "sindrome dei Balcani", dovuta all'uso massiccio di tale sostanza negli armamenti utilizzati dalle forze armate della NATO durante l'intervento in tale area).

Il nesso eziologico tra prestazione di attività lavorativa in area obiettivamente e notoriamente contaminata in quanto teatro di conflitti bellici consumati mediante uso massiccio di armi "ad uranio impoverito" e l'insorgenza di siffatte gravi patologie trova innanzitutto conferma sul piano scientifico, nel cui ambito pacificamente si afferma che i danni derivanti dal contatto con tali sostanze sono permanenti, con effetti particolarmente gravi sul midollo osseo; esse sarebbero in particolare in grado di penetrare nel nucleo cellulare e legarsi chimicamente al DNA, alterandolo o provocando errori nella produzione di proteine, così portando le cellule in stato pre-canceroso.
Anche sul piano legislativo e giurisprudenziale si è dato atto della sussistenza di tale fenomeno e dunque delle conseguenze che da esso possono ragionevolmente derivare. Ed infatti: a) sotto il primo profilo tale consapevolezza scientifica - circa un concreto e non aleatorio rischio di degenerazione neoplastica ovvero blastica degli elementi cellulari del sangue - è stata tradotta nel c.d. "Protocollo Mandelli", ossia nell'art. 4-bis del D.L. 393/2000, convertiti nella legge n. 27/2001, con il quale è stata disposta "la realizzazione di una campagna di monitoraggio sulle condizioni sanitarie dei cittadini italiani che qualunque titolo hanno operato od operano nei territori della Bosnia-Herzegovina e del Kosovo, in relazione a missioni internazionali di pace e di assistenza umanitaria, nonché di tutto il personale della pubblica amministrazione, incluso quello a contratto, che ha prestato o presta servizio, nei predetti territori, presso le rappresentanze diplomatiche o uffici ad esse collegati, e dei familiari che con loro convivono o hanno convissuto. I relativi accertamenti sanitari sono svolti a titolo gratuito presso qualsiasi struttura sanitaria militare o civile"; b) sotto il secondo profilo, diverse sono ormai le pronunzie ove, in casi del tutto analoghi a quello descritto nel presente giudizio, hanno senza dubbio riconosciuto l'esistenza del rapporto eziologico tra esposizione a radiazioni da uranio impoverito dovuta alla permanenza in area Balcanica nell'ambito di missioni militari di pace intraprese dal Governo italiano e le gravi patologie cancerose riportate dai militari ivi coinvolti (cfr. citate sentenze di questa sezione, nonché Tribunale Cagliari, 4 agosto 2011; Tribunale Roma, sez. XII, 1° dicembre 2009, n. 10413; Tribunale Firenze, 19 dicembre 2008).
A ciò si aggiunga, in chiave non di meno dirimente, che nel caso di specie sono stati al riguardo forniti elementi seri e circostanziati, mediante la citata perizia medica di parte, senza che sul punto l'amministrazione statale abbia contro dedotto alcunché, e ciò con ogni conseguenza in ordine alla applicazione dell'art. 64, comma 2, c.p.a., a norma del quale "il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonché i fatti non specificatamente contestati dalle parti costituite". Decisivo appare anzi, nella stessa direzione, la circostanza che la stessa amministrazione abbia a suo tempo riconosciuto la sussistenza circa la dipendenza da causa di servizio della patologia diagnosticata al Sa. (si veda in proposito il parere n. 622 del 14 dicembre 2010 con cui il competente comitato di verifica ha affermato che la suddetta infermità "può... ritenersi riconducibile alla esposizione e l'utilizzo di proiettili all'uranio impoverito e/o alla dispersione nell'ambiente di nano-particelle di minerali pesanti prodotte da esplosioni di materiale bellico di cui all'art. 1 - comma c del DPR 3 marzo 2009, n. 37, ponendosi quali causa ovvero quantomeno concausa efficiente e determinante della patologia suddetta").
Alla luce di quanto sopra riportato può dunque ritenersi pienamente raggiunta la prova circa la sussistenza del nesso causale tra svolgimento di attività all'estero e manifestarsi della patologia sofferta.
Quanto alla colpa della PA ritiene poi il collegio sussistere la violazione dell'obbligo contrattuale di protezione dei lavoratori di cui all'art. 2087 c.c. per la mancata osservanza delle misure minime di sicurezza necessarie a salvaguardare l'integrità fisica dei dipendenti, per giunta nella consapevolezza della esposizione di tale personale a concreti fattori di rischio: ed infatti l'amministrazione si è limitata ad introdurre una campagna di monitoraggio sanitario di per sé utile ad intercettare talune malattie con un certo tempismo ma di sicuro non altrettanto idonea a costituire mezzo sufficiente di prevenzione e precauzione, essendo quanto meno indispensabile, a tale ultimo riguardo, l'adozione di determinati dispositivi (quali ad esempio l'utilizzo di opportuno abbigliamento e di adeguata protezione) cui tuttavia non risulta avere fatto ricorso la stessa amministrazione militare secondo quanto versato in atti (la difesa erariale ha infatti unicamente prodotto alcune circolari che genericamente richiamano l'attenzione su tale fenomeno senza tuttavia fornire precise indicazioni o meglio ordini di servizio circa le misure in concreto da impiegare).
Alla luce di tutte le considerazioni sopra svolte sussistono dunque elementi più che sufficienti per accogliere in sé la domanda risarcitoria.
A tale ultimo riguardo osserva peraltro il collegio come sussista altresì la legittimazione ad agire da parte degli odierni ricorrenti per il risarcimento del danno biologico, e dunque ad agire iure hereditatis, essendosi verificato uno spatium vivendi del defunto di circa sedici mesi. Al riguardo è stato infatti affermato che in caso di evento che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto "catastrofale", conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni riportate - nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita deve comunque includersi nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. ed è autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto (Cass. civile, sez. III, 21 marzo 2013, n. 7126).

Quanto infine alla concreta determinazione del risarcimento il collegio ritiene di rimettere la questione alle decisioni delle parti ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., precisando comunque in questa sede i criteri che dovranno guidare l'Amministrazione nella formulazione dell'offerta al danneggiato.
Innanzitutto va detto che, quale base dell'accordo, dovrà essere valutata, in funzione di percentuale di compromissione dell'integrità psico-fisica accertata, la misura del 100%: ed infatti l'evento morte non rileva di per sé ai fini del risarcimento, atteso che la morte (e cioè: la perdita della vita) è fuori dal danno biologico, poiché il danno alla salute presuppone pur sempre un soggetto in vita; ma è altrettanto vero che nessun danno alla salute è più grave, per entità ed intensità, di quello che, trovando causa nelle lesioni che esitano nella morte, temporalmente la precede. In questo caso, infatti, il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100 %, con l'ulteriore fattore "aggravante", rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che il danno biologico terminale è più intenso perché l'aggressione subita dalla salute dell'individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto meno di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita, atteso che anche questa capacità recuperatoria o, quanto meno stabilizzatrice, della salute risulta irreversibilmente compromessa. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non "migliora") né si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest'ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, per i motivi sopra detti, ma non la "progressione" verso di esso, poiché durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita. Posto ciò occorre aderire al principio secondo cui, in caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dell'intensità della sofferenza provata dalla vittima dell'illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima (Cass. civile, sezione III, 14 febbraio 2007, n. 3260; Cass. civile, sezione III, 2 aprile 2001, n. 4783, che in maniera incisiva fa riferimento alla "presenza di un danno "catastrofico" per intensità a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l'estinzione della propria vita"; nonché Cass. civile, sez. lav., 18 gennaio 2011, n. 1072).
Per la concreta determinazione del quantum risarcitorio dovranno infine essere utilizzate le tabelle all'uopo predisposte dal Tribunale di Milano, peraltro tenendosi presente che il debito in questione è di valore, per cui la sua liquidazione deve consentire la rimessa in pristino del patrimonio del danneggiato all'attualità (così Cass. Civ. n. 29191/2008; Cass. Civ. n. 10022 del 24.6.2003; Cass. Civ. n. 748 del 24.1.2000).
Su tale base l'Amministrazione dovrà quindi valutare un opportuno e motivato aumento personalizzato nell'ambito della misura massima sempre prevista dalle citate tabelle, ed effettuare, sempre ai sensi del comma 4 dell'art. 34 c.p.a., una proposta di risarcimento agli odierni ricorrenti nel termine di gg. 90 dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica della presente sentenza.
Sugli importi dovuti, trattandosi di risarcimento del danno e, dunque, di debito di valore, sono riconosciuti gli interessi legali e la rivalutazione.
Il Tribunale Amministrativo Regionale, pronunciando sul ricorso condanna l'Amministrazione della Difesa al risarcimento del danno biologico sofferto dal ricorrente, da determinarsi a norma dell'art. 34, comma 4, c.p.a., con i criteri e nei termini di cui in motivazione; condanna l'Amministrazione della Difesa alla rifusione in favore del ricorrente delle spese di giudizio.
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Data: 29/04/2014 16:00:00
Autore: Avv. Francesco Pandolfi