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Articolo 18: tra alfieri e scettici, lo stato dell'arte



Non c'è norma forse nell'ordinamentoitaliano che ha occupato la scena politica degli ultimi anni come l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l.n. 300/1970).

Vituperata e accusata dalle imprese come ilprincipale ostacolo alle assunzioni; osannata e invocata dai sindacati quale primariostrumento di tutela dei lavoratori, la norma è stata, infatti, oggetto ditentativi di modifica e strumentalizzazione da parte dei Governi degli ultimitre lustri.

Sensibilmente novellata dalla riforma dellavoro di due anni fa (la c.d. “RiformaFornero”), oggi l'art. 18 è di nuovo sulla cresta dell'onda, a seguitodella proposta di abolizione formulata dall'attuale esecutivo nell'ambito del c.d. “Jobs Act”.

Ma vediamo nel dettaglio come funziona ladisciplina vigente, il progetto del Governo Renzi e le obiezioni mosse daisindacati.

Ladisciplina dell'art. 18. L'applicazione alle aziende con più di 15 dipendenti

L'art. 18 della l. n. 300/1970 è unostrumento finalizzato alla “tutela reale”del lavoratore illegittimamente licenziato, il quale ha il diritto diessere reintegrato nel posto di lavoro, o, a sua scelta, di optare per un'indennitàsostitutiva, fermo restando, in entrambi i casi, il diritto al risarcimento deldanno.

La disposizione si applica: alle aziende con più di 15 dipendenti (o 5 nel caso di unità agricole); alleaziende con meno di 15 dipendenti, qualora nello stesso comune vi siano altreunità produttive alla stessa appartenenti che in totale superino il limite di15 dipendenti; in ogni caso, alle aziende dove siano presenti più di 60dipendenti.

Prima della riforma Fornero(l. n. 92/2012),una volta accertata, da parte del giudice, l'illegittimità dell'atto dilicenziamento, lo stesso ordinava la reintegrazione del dipendente nel posto dilavoro e il risarcimento degli importi non percepiti e dei contributi previdenzialinon versati, salvo il diritto per il lavoratore di optare per un'indennità paria 15 mensilità retributive e al risarcimento del danno.

A seguito della riforma, l'automatismo tra il licenziamentoillegittimo e il reintegro del lavoratore è stato superato, a favore di tredistinti regimi sanzionatori sulla base della tipologia di licenziamento chedovesse essere accertata dal giudice:

- discriminatorio (oillecito),ovvero il licenziamento, anche orale (comunicato cioè solo verbalmente) attuatoa causa di ragioni di credo politico, fede religiosa, età, orientamento sessuale,etnia, avvenuto in concomitanza col matrimonio, la maternità o la paternità(ecc.). In questo caso, la riforma ha confermato il quadro normativo precedente,applicabile a tutte le imprese a prescindere dalle dimensioni: ove accertata,infatti, l'illegittimità del licenziamento per motivi discriminatori il giudice ne dichiara la nullità,ordinando al datore di lavoro ilreintegro del lavoratore o l'opzione dell'indennità pari a 15 mensilitàdell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre al risarcimento;

- disciplinare (osoggettivo),ossia il licenziamento per un motivo soggettivo o giusta causa determinato daun comportamento del lavoratore (inadempimento degli obblighi contrattuali o fattigravi che non consentono la prosecuzione del rapporto; ecc.). In tal caso, oveil giudice dovesse accertarne l'illegittimità, il regime sanzionatorio saràmodulato diversamente a seconda che vi sia un'”insussistenzadei fatti contestati”; una causalenon prevista dai contratti collettivi o dai codici disciplinari, ovvero un vizio procedurale o di forma.Nella prima ipotesi, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datoredi lavoro al reintegro del dipendente e al risarcimento dei danni retributivisubiti fino a un massimo di 12 mensilità (salva l'opzione per il lavoratore diaccettare l'indennità sostitutiva pari a 15 mensilità in luogo del reintegro);nella seconda ipotesi, invece, il giudice stabilirà a favore del lavoratore un'indennitàrisarcitoria modulata da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità diretribuzione, tenuto conto di vari parametri (anzianità lavorativa, dipendentiin forza dell'azienda, dimensioni dell'impresa, ecc.); nella terza ipotesi,infine, il giudice condannerà il datore di lavoro al pagamento di un'indennitàcompresa tra 6 e 12 mensilità retributive;

- economico (ooggettivo),ovvero il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (motivato cioè da causeinerenti l'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro, la contrazione delmercato, ecc.). Qualora il giudice accerti che non ricorrano gli estremi per lalegittimità del licenziamento, puòcondannare l'impresa al pagamento di un'indennità risarcitoria a favore dellavoratore, da 12 a 24 mensilità, tenendo conto di diversi parametri (anzianitàlavoratore, dimensioni impresa, ecc.); ovvero,nel caso più grave di atto “manifestamente infondato” applicare la medesimadisciplina prevista per il licenziamento disciplinare (obbligo di reintegro e risarcimentodanni retributivi, fatta salva l'opzione del lavoratore per l'indennitàsostitutiva).


La propostadel Governo

Dall'abolizione totale dell'art. 18 (salvo per i licenziamenti discriminatori, vietati daglistessi principi costituzionali), negliultimi giorni la proposta di modifica del governo Renzi nell'ambito deldisegno di legge delega sulla riforma del lavoro (c.d. “Jobs Act”) si è notevolmente attenuata, complici icontrasti maturati all'interno della stessa maggioranza di partito e i dissidicon le parti sociali.

Il progetto di modificadella disciplina dei licenziamenti da parte del Governo, facendo salvi i licenziamenti discriminatori e, a seguito delledichiarazioni dello stesso premier, ilicenziamenti disciplinari, intacca in sostanza i soli licenziamenti economici(ovvero quelli determinati da esigenze produttive, di contrazione del mercatodelle vendite, ecc.).

Secondo le attuali regole,in questi casi, il giudice può condannare l'azienda a ristorare il lavoratorecon una indennità, da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità, oppuredisporre, nei casi più gravi, di motivi “manifestamenteinfondati”, il reintegro.

Il Jobs Act mira quindi a eliminareil reintegro per tale ultima ipotesi, introducendo l'obbligoper le aziende anche in questo caso di pagare l'indennità senza essere tenuteal reintegro.

Tale modifica secondo leintenzioni del governo dovrebbe portare ad una flessibilità maggiore delmercato del lavoro, unita anche alla previsione della nuova forma contrattuale “a tempo indeterminato a tutele crescenti”per i nuovi assunti (in base all'anzianità di servizio), al riordino degli ammortizzatori sociali con l'anticipo dell'indenitàdi disoccupazione, allarazionalizzazione degli incentivi all'assunzione (ecc.).

Le obiezionidei sindacati

Sulfronte opposto al Governo, i sindacati aprono al dialogo ma minacciano venti diguerra e scioperi generali qualora la modifica dell'art. 18 fosse imposta con “decreto”(“velleità” invocata da più parti all'interno della maggioranza).

Peri confederati, infatti, l'eventuale decisione di modificare l'art. 18 darebbe luogo ad un durissimo scontro con le partisociali e a ricadute negative in una situazione economica già di per sé difficile.

Datialla mano, infatti, sostengono le organizzazioni che l'art. 18 riguarda soltanto il 2,4% delle aziende (ovveropoco più di 105.000 in termini assoluti su poco meno di 4 milioni e 400.000imprese) e oltre il 57,6% dei lavoratoriitaliani (più di sei milioni e mezzo in valore assoluto su 11 milioni dioperai e impiegati alle dipendenze delle imprese alle quali si applica l'art.18) (dati Cgia di Mestre).

Laricetta della Triplice per aggredire la disoccupazione riguarda, invece, misuredestinate ad incentivare le politiche legate alla domanda, gli investimenti e iconsumi interni, e la lotta alla deflazione.

I “detrattori”del dibattito

Tra gli alfieri dell'art. 18 e gli scetticiche lo considerano un “totem ideologico”si innestano le opinioni di chi afferma con forza l'inutilità di un dibattito tanto serrato, considerati sia la disoccupazionecrescente che il ricorso delleimprese, nella maggior parte delle assunzioni, ai contratti a tempo determinato.

I dati statistici a suffragio deidetrattori del dibattito sull'art. 18 affermano che negli ultimi dieci anni il tasso di disoccupazione giovanile è più cheraddoppiato (dal 17%, nel 2004, al 45% nel 2014), provocando una nuovadiaspora di cervelli in fuga versomete europee e (sempre più) oltreoceano. Stando sempre ai dati, nel 2014(secondo trimestre) il 70% delleassunzioni è avvenuto con contratti a tempo determinato (circa 1.850.000unità) grazie anche agli “incentivi” dei diversi rinnovi senza obbligo dicausale da parte delle imprese introdotti dal primo atto del Jobs Act.

Com'ènoto, questa forma contrattuale, unita a quella dei lavoratori autonomi,degli irregolari, degli occupati in imprese con meno di 15 lavoratori, non risulta protetta dall'ombrello dell'art.18.

Un ultimo dato riguarda, infine, il primato mondiale dell'Italia nei “licenziamentifacili” (Rapporto Ocse 2012) e quello più recente dei più bassi costi a livello mondiale connessiagli stessi licenziamenti (Rapporto 2014 World Competitiveness Center Imd –v. Il mobbing si espande).

In definitiva, come direbbero gli antichiromani, cui prodest? Considerata,infatti, la fotografia del mercato del lavoro italiano a chi giova il dibattito sull'art. 18? Non certo all'esercito digiovani e di donne senza un'occupazione stabile che assistono inerti ad unadiscussione su una norma che non li ha mai toccati e che non sanno neanche cosasia.

Data: 02/10/2014 11:30:00
Autore: Marina Crisafi