Modifiche territoriali fusione ed istituzione di Comuni
Modifiche territoriali fusione ed istituzione di Comuni. ll Comune tra vecchia e nuova governance in Italia e in Europa
Prof. Luigino Sergio
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La qualità della spesa pubblica. 3. L'intercomunalità in Italia. 4. L'intercomunalità in Europa. 4.1. La cooperazione intercomunale in Francia. 4.2. L'intercomunalità in Spagna. 4.3. La cooperazione intercomunale in Germania. 4.4. L'intercomunalità in Danimarca. 5. Il rapporto tra Costituzione e fusione di Comuni. 6. La fusione di Comuni nella legislazione ordinaria. 6.1. Le modifiche territoriali del Comune. 6.2. Istituzione di nuovi Comuni. 6.3. I Municipi forme di partecipazione e decentramento delle comunità originarie. 6.4. L'incentivazione finanziaria statale. 6.5. L'incentivazione finanziaria regionale. 6.6. Lo studio di fattibilità nel processo di fusione. 6.7. La centrale di committenza e la fusione di comuni. 6.8. La fusione di comuni nella legge di stabilità 2015. 6.8. Valutazioni conclusive. 7. Bibliografia. 8. Sitografia.
1. Premessa.
Il nostro è un Paese particolare. Alla congerie di leggi, a volte prive di inquadramento sistematico, il legislatore fa seguire una frenetica volontà riformatrice, spesso animata da una preoccupante frettolosità, nel tentativo di concludere in modo alquanto rapido un processo, quello riformatore, che necessita invece di ponderata riflessione, visione olistica e per quanto possibile di condivisione, politica e sociale.
Certo è che il fattore temporale deve essere tenuto in debita considerazione anche in ambito politico, non potendoci più permetterci come sistema Paese lungaggini ed ostruzionismi parlamentari che rallentano ogni iter legislativo; ma la centralità del fattore temporale anche all'interno dei meccanismi di elaborazione e approvazione delle leggi non può far passare in second'ordine la tesi che le riforme organizzative che toccano la struttura socio economica e politica del Paese non possono essere approvate dal Parlamento sotto l'egida della fretta, poiché una pessima riforma rischia di provocare molti guasti al sistema istituzionale nazionale e di risolvere ben poche questioni rilevanti.
La legge 5 aprile 2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni (in G.U. 7 aprile 2014, n. 81) appare ispirata più alla logica della frettolosità ed quella della presunzione (nel ritenere che la riforma del sistema delle autonomie locali, basata in primis sullo svuotamento delle Province, ma anche sulla creazione delle Città metropolitane, sul riordino delle Unioni di comuni e sulle Fusioni di comuni1, sia una riforma necessaria da esibire come risultato storico) che alla logica della razionalità, la quale avrebbe richiesto una più pacata riflessione sulla nascita di una “nuova” Provincia ed un altrettanto serena valutazione sul sistema politico organizzativo delle Regioni che avrebbe dovuto essere tenuto in debita considerazione all'interno del nuovo impianto istituzionale del nostro Paese.
La legge n. 56/2014 crea, ad avviso di chi scrive, più problemi di quanti sia destinata a risolvere.
A cosa siano servite le numerose audizioni della dottrina, l'autorevole appello delle decine di costituzionalisti alla riflessione e alla saggezza comportamentale rispetto alle decisione assunte e non senza sofferenza da parte del Parlamento è sotto gli occhi di tutti gli addetti a i lavori: sono servite a poco, viste come sono andate a finire le cose; audizioni che appaiono essere sempre più dei rituali vuoti che non smuovono affatto decisioni già assunte a monte e a prescindere da ogni loro considerazione e tenuta in debito conto.
Qualificata dottrina (POGGI A., Sul disallineamento tra il d. d. l. Delrio ed il disegno costituzionale attuale, in federalismi.it, n. 1, 8 gennaio 2014), tra i meriti principali della legge Delrio rileva quello dell'istituzione delle Città metropolitane come enti territoriali di area vasta e «come volano di una maggiore integrazione europea dell'area stessa», attribuendo a Province e Comuni «la responsabilità politica di aver frenato in questi anni l'istituzione dell'area vasta, a causa degli infiniti litigi sulla leadership politica della stessa».
Tolte le Città metropolitane, tuttavia, il d. d. l. Delrio presenta parecchi problemi, la cui causa principale, va detto subito, è dovuta al disallineamento tra ambizioni dello stesso d. d. l. in termini di ricostruzione di un razionale assetto del sistema territoriale e disegno costituzionale.
Ancora più preoccupante, in questa prospettiva, la figura dell'Unione di comuni, tanto più se è destinata a sostituirsi o sovrapporsi alle Province.
Ulteriore e autorevole dottrina (PORTALURI P.L., Osservazioni sulle Città metropolitane nell'attuale prospettiva di riforma, in federalismi.it, n. 1, 8 gennaio 2014) è dell'avviso che «l'assetto normativo del mosaico territoriale italiano continua ad attraversare – anche de iure condendo – una fase davvero confusa e piena di turbolenze.
Con la legge Delrio «la «spina dorsale del drago» diverrebbero solo le Regioni e i Comuni; le Città metropolitane conserverebbero sì una garanzia costituzionale (peraltro criptica nel suo contenuto minimo), ma collocandosi a un livello diverso – più basso, non equiparato – rispetto ai primi due enti.
A parere di Ferrara (FERRARA A., Una pericolosa rottamazione istituzionale, in federalismi.it, n. 1, 8 gennaio 2014), va evidenziato «il carattere, almeno apparentemente, schizofrenico delle riforme avviate dal Governo Letta. Da una parte, infatti, si avvia il procedimento di revisione della Costituzione per l'abolizione delle Province e dall'altra si dà inizio e si porta avanti il procedimento legislativo ordinario per la trasformazione delle Province in enti elettivi di secondo grado … il rapido succedersi e accavallarsi negli ultimi due o tre anni di tante diverse ipotesi di riforma delle Province (svuotamento dei poteri, riduzione del numero, trasformazione in enti elettivi di secondo grado, abolizione, differenziazione di soggetti, poteri e funzioni per aree metropolitane ed aree montane) rende confuso e incerto ogni possibile ragionamento sul governo dell'area vasta … per quanto riguarda poi, in particolare, il d. d. l. Delrio, risulta difficile prendere in grande considerazione una riforma, di questo rilievo, che manifesta la chiara intenzione di essere soltanto transitoria e incompatibile con la successiva riforma costituzionale … ».
Altra dottrina (GIGLIONI F., La riforma del governo di area vasta tra eterogenesi dei fini e aspettative autonomistiche, in federalismi.it, n. 1, 8 gennaio 2014) rileva che «una scelta tanto importante quale la riscrittura del disegno organizzativo territoriale amministrativo è affidata a obiettivi di risparmio dei costi e per questo appare dubbia sia nel metodo sia per la capacità di conseguire i fini prestabiliti … per quanto riguarda le Unioni dei comuni, poi, l'obiettivo è quello di fugare il rischio che la costituzione degli organi unionali comporti nuovi costi istituzionali e che sui territori si trovino soluzioni differenziate. Anche in questo caso la matrice culturale che muove la riforma è soprattutto di carattere finanziario, mentre su questo piano si avverte forte il bisogno di un rilancio di questi enti … rispetto a quanto detto finora sta da contraltare la riforma delle Città metropolitane che pare ispirata invece da una forte impronta autonomistica tanto che il contributo più importante e valido che il disegno di legge apporta è quello riferito proprio a questi soggetti […] ».
In conclusione si è dell'avviso che la legge Delrio sia un coacervo di puntigliosità (occorre andare avanti costi quel che costi con l'abolizione delle Province) e di velata demagogia (l'abolizione delle Province per com'è stata pensata non produrrà gli effetti sperati sui risparmi di spesa pubblica, cioè una notevole quantità di risorse finanziarie risparmiate che giustifichino quanto, giuridicamente disordinato, prodotto finora), mancando un'ampia visione riformatrice che coinvolga l'intero sistema territoriale: Regioni, Province e autonomie locali territoriali, quest'ultime riformabili soltanto all'interno di una concezione olistica dello Stato .
Ciò detto, l'avviato processo riformatore degli enti locali territoriali s'inserisce in un quadro economico-finanziario del Paese estremamente drammatico; a fronte del PIL che ammonta a 1.560.024 milioni di euro, il debito pubblico totalizza ben 2.069.216 milioni di euro ed è pari al 132,6 % del PIL (valori riferiti al 31 dicembre 2013)2, fatto questo che determina un'impossibilità di crescita dei consumi e un impoverimento generale del nostro Paese.
Uno degli effetti prodotti da tale situazione strutturale riguarda le politiche di entrata che si basano sull'aumento della pressione fiscale sui cittadini e sulle imprese e anche il livello della spesa pubblica, oggetto di tagli a volte selettivi e a volte lineari delle risorse finanziarie disponibili; effetti che introducono a politiche di spending review.
2. La qualità della spesa pubblica.
La cd. spending review ha un antecedente nel Libro verde sulla spesa pubblica3, predisposto nel 2007 dalla Commissione tecnica per la finanza pubblica, con il fine di fornire un quadro esaustivo della dinamica della spesa pubblica e offrire alcuni tentativi di governarla.
In tale libro si affronta la questione della riqualificazione della spesa pubblica dello Stato, ma anche delle Regioni, delle Province, dei Comuni, in quanto solo così è possibile fare crescere il Paese, migliorare il livello di benessere generale, consentire una prospettiva di prosperità nei confronti delle giovani generazioni.
Le risorse finanziarie a disposizione sono scarse, fatto questo che obbliga tutti a riqualificare la spesa pubblica, eliminare gli sprechi, ridurre i costi della politica, riordinare gli uffici anche in chiave territoriale, eliminare programmi ormai non più necessari a causa della loro obsolescenza.
L'Italia sino al 2004 si trovava con un livello di spesa pubblica non molto diverso da quello della media degli altri Paesi europei; anche se a differenza di quest'ultimi, il nostro Paese presentava alti valori di spesa per interessi sul debito pubblico e per le pensioni4.
I ministri delle finanze dell'Unione europea, nel Consiglio informale ECOFIN7 di Berlino dell'anno 20075, sono pervenuti alla conclusione che nei Paesi membri è indispensabile migliorare i livelli d'efficienza e d'efficacia della spesa pubblica, al fine di incoraggiare la crescita economica.
«La spending review nasce essenzialmente dall'esigenza di superare un approccio puramente incrementale nelle decisioni di allocazioni di bilancio; un approccio cioè che si concentra sulle risorse “aggiuntive” e sui nuovi programmi di spesa, trascurando l'analisi della spesa in essere […] L'oggetto dell'analisi della spending review sono i programmi di spesa, ovvero l'insieme di attività e risorse impiegate dalla p.a. per conseguire determinati obiettivi. Nelle esperienze internazionali lo strumento è stato ed è utilizzato sia per far fronte a situazioni di stress dei conti pubblici – e quindi per attuare contenimenti della spesa razionali (superando l'approccio dei tagli generalizzati), sia, e sempre di più, nei Paesi con una più solida situazione di finanza pubblica, allo scopo di migliorare l'efficienza allocativa delle risorse a disposizione e la qualità dei servizi della Pubblica Amministrazione […] In particolare, la spending review rappresenta la metodologia da utilizzare per superare alcuni degli aspetti negativi degli strumenti di contenimento della spesa utilizzati in passato (come i “tagli lineari”), per assicurare che i risparmi di spesa siano consapevoli e mirati, e che non portino ad un peggioramento della qualità dei servizi offerti dalla Pubblica amministrazione»6.
Un posto di rilievo nel processo di revisione della spesa pubblica è assunto dal federalismo fiscale, con cui si riconsiderano le politiche di bilancio degli enti locali che assorbono il trenta per cento della spesa totale della p.a. e dunque pone in essere una seria revisione del sistema di finanziamento degli enti territoriali che deve fondarsi sull'equilibrio tra funzioni pubbliche e responsabilità finanziarie; sulla sostituzione del criterio della spesa storica con quello inerente i costi standard; sul coordinamento tra i diversi livelli di governo; sul rispetto del Patto europeo di stabilità e crescita.
Detto in altri termini, la spending review è finalizzata al miglioramento di allocazione delle risorse e alla trasformazione positiva della performance della p.a., in virtù di più elevati standards d'efficienza, efficacia, economicità e qualità dei servizi da essa offerti, grazie ai quali è possibile vedere quanta spesa pubblica può essere considerata “aggredibile” o rivedibile, in base agli interventi derivanti dalla revisione della spesa pubblica.
La riduzione della spesa pubblica passa attraverso la definizione dei fabbisogni standard e dei costi standard dei programmi di spesa delle amministrazioni dello Stato, dei Comuni, delle Città metropolitane, delle Province e delle Regioni.
I fabbisogni standard e i costi standard sono previsti dalla L. n. 42/200918 con la quale il legislatore intende richiamare tutti i livelli di governo ad una maggiore responsabilità amministrativa, finanziaria e contabile, al fine di conseguire gli obiettivi di finanza pubblica, coerentemente con i vincoli posti dall'Unione europea e dai trattati internazionali; per questo è necessario pervenire alla determinazione del costo e del fabbisogno standard, quale costo e fabbisogno che migliorando l'efficienza e l'efficacia, costituisce l'indicatore tramite il quale confrontare e valutare l'azione della p.a. e definire obiettivi di servizio cui devono tendere le Regioni e le amministrazioni locali nell'esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni o delle funzioni fondamentali, di cui all'art. 117, comma 2, lett. m) e lett. p) della Costituzione7.
La L. n. 42/2009, all'art. 2, comma 2, lett. m), si pone l'obiettivo del progressivo superamento, per tutti i livelli istituzionali, del criterio della spesa storica a favore del fabbisogno standard, per finanziare i livelli essenziali e le funzioni fondamentali di Comuni, Province, Città metropolitane e a favore della perequazione della capacità fiscale per le altre funzioni8; perequazione che in base all'art. 9, comma 1, lett. a), impone l'istituzione di un fondo perequativo statale a favore delle Regioni che abbiano minore capacità fiscale per abitante, al fine della riduzione delle differenze tra territori con diverse capacità fiscali per abitante.
La L. n. 42/2009 delega il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per dare attuazione all'art. 119 della Costituzione, per assicurare autonomia di entrata e di spesa di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni e garantire i princìpi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da sostenere la loro massima responsabilizzazione e l'effettività nonché la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti.
A seguito della legge delega n. 42/2009, i fabbisogni standard di Comuni, Città metropolitane e Province sono determinati dal d.lgs. n. 216/20109; i fabbisogni standard, così come prevede l'art. 1 del suddetto d.lgs. n. 216/2010 «rappresentano l'elemento al quale va correlato in modo progressivo, il finanziamento integrale della spesa inerente le funzioni fondamentali e i servizi essenziali delle prestazioni»; attraverso i quali il Governo intende superare, a partire dall'anno 2013, il criterio della spesa storica.
Nell'art. 4, il d.lgs. n. 216/2010 traccia il procedimento e il metodo per determinare i fabbisogni standard, basato sull'assunzione di una serie d'informazioni, di dati di natura strutturale e contabile, da acquisire tanto ricorrendo a banche dati, quanto tramite informazione diretta attraverso questionari da trasmettere ai Comuni e alle Province e in base all'individuazione d'idoneo sistema d'indicatori e obiettivi significativi, per consentire la valutazione l'adeguatezza dei servizi in relazione alla natura delle singole funzioni fondamentali. Tale metodo dovrà tenere conto delle specificità legate ai recuperi di efficienza ottenuti attraverso le Unioni di comuni ovvero le altre tipologie d'esercizio di funzioni in forma associata.
Sempre in tema di riordino della spesa pubblica si muove il d. l. n. 52/201210 (c.d. decreto spending review uno), convertito in L. n. 6 luglio 2012, n. 94.
Attraverso il d. l. n. 52/2012, art. 1, comma 1, il Governo si pone l'obiettivo di rivisitare: «i programmi di spesa e dei trasferimenti alle imprese, razionalizzazione delle attività e dei servizi offerti, ridimensionamento delle strutture, riduzione delle spese per acquisto di beni e servizi, ottimizzazione dell'uso degli immobili e nelle altre materie individuate dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3 maggio 2012».
Il d. l. n. 95/201211 apre la seconda fase della spending review, con la quale il Governo e il Parlamento mirano al raggiungimento di alcuni obiettivi ritenuti strategici per il riordino dei conti pubblici del nostro Paese.
La normativa approvata tende a riportare la p.a. all'interno di un quadro programmatorio di natura strutturale e non contingente, attraverso cui è possibile pervenire ad un'ottimale allocazione delle risorse a disposizione; all'eliminazione di enti ritenuti superati; al riordino d'importanti istituzioni territoriali; alla gestione associata di funzioni e servizi comunali, arrivando così ad un uso ragionevole dell'organizzazione pubblica nel suo complesso.
Anche gli enti locali territoriali devono concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica mediante la riduzione dei consumi intermedi.
Questa la cornice di riferimento degli ultimi anni, all'interno della quale il disegno da portare a compimento è basato sulla riduzione dei costi dei beni, dei servizi e delle opere; sulla riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni; sulla razionalizzazione del patrimonio pubblico e riduzione dei costi per locazioni passive; sulla messa in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche; sul monitoraggio continuo dei conti pubblici; sulla razionalizzazione amministrativa; sul divieto di istituzione e sulla soppressione di enti, agenzie e organismi; sulla riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio; sulla riduzione delle spese di personale.
Ciò detto appare del tutto evidente che la particolare situazione economico-finanziaria che attraversa il Paese impone una pacata riflessione, tanto sull'attuale modello organizzativo comunale, fatto di azione “solitaria” del Comune, poco collaborativa con altre e simili realtà territoriali, quanto su figure organizzative fondate su forme associative comunali, attraverso le quali i Comuni, in primis, quelli Piccoli, possono superare la loro fase di debolezza strutturale e puntare ad erogare servizi migliori e più economici, ai cittadini e alle imprese.
3. L'intercomunalità in Italia.
Nel nostro Paese la questione delle forme associative comunali è antica e va indietro negli anni.
Il Ministro degli Interni del primo governo Cavour, Luigi Carlo Farini (21 gennaio 1860-21 marzo 1861) presentava nel 1860 un disegno di legge per l'istituzione della Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dell'ordinamento amministrativo del nuovo Regno12, proponendo un progetto per accorpare i Comuni con meno di 1.000 abitanti, nell'ambito di una generale riforma dell'ordinamento amministrativo; proposta che non ebbe però seguito.
A partire dal 1865, con la legge n. 2248/186513 si prevedeva la facoltà di creare un Consorzio per la costruzione, adattamento e sistemazione di una strada comunale od opere relative, qualora vi sia «un interesse collettivo», la formazione del Consorzio di cui all'art. 39 è promossa da quel Comune che crederà aver ragione di chiamare altri a concorrere nella spesa.
Successivamente con il r. d. n. 148/191514, nuovo Testo Unico della legge comunale e provinciale, veniva reiterata la possibilità ai Comuni di costituirsi in Consorzio tra loro o con la Provincia, per provvedere ad alcuni individuati servizi o opere di che fossero di comune interesse.
Già con la c.d. legge Serpieri, (r. d. n. 3267/192315), ai sensi dell'art. 155, più Comuni o più enti morali, mantenendo separata la gestione dei rispettivi patrimoni silvo-pastorali nella forma di economia od in quella dell'azienda speciale, potevano costituirsi in Consorzio per l'assunzione di un unico Direttore per la gestione tecnica dei patrimoni stessi; Consorzio che poteva estendersi anche all'assunzione di personale di custodia.
La forma consortile era presente nella legislazione attinente alla bonifica integrale, di cui al r. d. n. 215/1933,16 alla quale si provvedeva «per scopi di pubblico interesse, mediante opere di bonifica e di miglioramento fondiario»; soggetto consortile che trovava una successiva sistemazione con il r. d. 30 dicembre 1923, n. 283917 (con il quale veniva riformato il T.U. della legge comunale e provinciale, approvato con r. d. 4 febbraio 1915, n. 148) e poi ulteriormente nel T.U. della legge comunale e provinciale, emanato con r. d. 3 marzo 1934, n. 383 , il quale, all'art. 156, prevedeva che: «i Comuni hanno facoltà di unirsi in Consorzio fra di loro o con la Provincia per provvedere a determinati servizi od opere di comune interesse. La costituzione del Consorzio è approvata con decreto del prefetto, udita la Giunta provinciale amministrativa, se gli enti appartengono alla stessa circoscrizione provinciale, del ministro dell'interno, udite le Giunte provinciali amministrative interessate, se gli enti appartengono a circoscrizioni provinciali diverse. Con lo stesso decreto è approvato lo statuto ed è stabilita la sede del Consorzio».
Un concreto ma, con ogni probabilità, oggi non condiviso progetto di riduzione del numero di Comuni, fu realizzato in epoca fascista, con l'approvazione del r. d. l. n. 383/192718 attraverso il quale si addiveniva all'unione, soppressione o aggregazione coattiva di 2.184 piccoli Comuni e si rendeva possibile la facoltà di accorpare i Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti, nel caso fossero mancati i mezzi per provvedere in maniera conveniente ai pubblici servizi.
In epoca successiva il r. d. l. n. 383/193419, all'art. 30, prevedeva che: «i Comuni con popolazione inferiore ai 2.000 abitanti, che manchino di mezzi per provvedere adeguatamente ai pubblici servizi, possono, quando le condizioni topografiche lo consentano, essere riuniti fra loro o aggregati ad altro Comune.
Può inoltre essere disposta la riunione di due o più Comuni, qualunque sia la loro popolazione, quando i podestà ne facciano domanda e ne fissino d'accordo le condizioni»; mentre all'art. 156 prevedeva che i Comuni avessero la possibilità di unirsi in Consorzio e all'art. 157, comma 1, che: «indipendentemente dai casi nei quali la costituzione del Consorzio sia imposta per legge, più Comuni possono essere riuniti in Consorzio fra loro o con la Provincia per provvedere a determinati servizi od opere a carattere obbligatorio»; mentre il comma 2 prevedeva «la costituzione coattiva del Consorzio».
Accanto a tali Consorzi, definibili volontari o facoltativi, erano previsti, altresì, Consorzi obbligatori.
L'art. 157 del Testo Unico della legge comunale e provinciale (TULCP) n. 383/1934, disponeva che: «indipendentemente dai casi nei quali la costituzione del Consorzio sia imposta per legge, più Comuni possono essere riuniti in Consorzio fra di loro o con la Provincia per provvedere a determinati servizi od opere di carattere obbligatorio.
La costituzione coattiva del Consorzio è disposta con decreto del prefetto, se gli enti appartengono alla stessa circoscrizione provinciale, del ministro dell'interno, se appartengono a circoscrizioni provinciali diverse, uditi i podestà e le Giunte provinciali amministrative interessate e, quando del Consorzio, faccia parte la Provincia, anche il rettorato. Con lo stesso decreto è approvato lo statuto ed è stabilita la sede del Consorzio».
Anche le Province potevano unirsi in Consorzio fra loro, ovvero con uno o più Comuni, per provvedere a determinati servizi o ad opere di comune interesse.
Più Province, con decreto del ministro dell'interno, emesso di concerto con i ministri competenti, uditi i rispettivi rettorati e le Giunte provinciali amministrative, potevano essere riunite in Consorzio per provvedere a determinati servizi od opere di carattere obbligatorio; negli stessi modi e con le stesse forme, uditi anche i podestà interessati, si poteva provvedere alla costituzione coattiva di Consorzi fra Province ed uno o più Comuni.
In periodo repubblicano la legge n 71/195320, articolo unico, stabiliva che: «potrà essere disposto, ai sensi degli articoli 33 e seguenti del testo unico 3 marzo 1934, n. 383, la ricostituzione di Comuni soppressi dopo il 28 ottobre 1922, ancorché la loro popolazione sia inferiore ai 3.000 abitanti, quando la ricostituzione sia chiesta da almeno tre quinti degli elettori»21.
Di conseguenza, dopo il ventennio autoritario e dittatoriale, veniva restituita ai Comuni, riuniti o soppressi in epoca fascista, la possibilità di ricostituirsi in Comuni singoli anche in assenza del requisito minimo demografico previsto e vanificata l'opera di accorpamento forzoso inaugurata dal regime fascista; ma, per altro verso, si dava inizio ad un trend di segno opposto che conduceva alla creazione di nuovi Municipi e che è continuato fino a poco tempo addietro.
Nel 1952 il legislatore approvava la L. n. 991/195222 che emanava provvedimenti in favore dei territori montani, istituendo enti per la difesa montana, vale a dire costituendo Consorzi di prevenzione e prevedendo, ai sensi dell'art. 9, comma 1 che potevano essere costituite aziende speciali e Consorzi per la gestione dei beni silvo-pastorali degli enti pubblici.
In seguito, il d. p. r. 10 giugno 1955 n. 98723, allo scopo di favorire il miglioramento tecnico ed economico dei territori montani e di promuovere la costituzione dei Consorzi, di cui agli artt. 10 e 16 della legge 25 luglio 1952, n. 991, nonché per adempiere e coordinare le funzioni previste dagli artt. 5 e 17 della stessa legge, dal comma 15 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 1953, n. 959 e dagli artt. 139 e 155 del regio decreto-legge 30 dicembre 1923, n. 3267, disponeva che i Comuni compresi in tutto o in parte nel perimetro di una zona montana di cui all'art. 18 potevano costituirsi in Consorzio a carattere permanente, denominato «Consiglio di valle» o «Comunità montana».
La costituzione del «Consiglio di valle» o della «Comunità montana», è obbligatoria quando ne facciano richiesta al prefetto non meno di tre quinti dei Comuni interessati, purché rappresentino almeno la metà della superficie complessiva della zona.
Il «Consiglio di valle» nel periodo medioevale (ad es. nella Lombardia grigiona: Valtellina, Bormio, Chiavenna) era l'organo deliberativo per il riparto delle spese e delle tasse straordinarie tra le giurisdizioni e per l'appalto del commercio dei grani e assolveva spesso compiti di rappresentanza politica negli interessi generali della valle, come i ricorsi alle tre leghe, ma le decisioni prima di diventare esecutive dovevano essere approvate dai Comuni e dalle giurisdizioni.
Ai nostri giorni vi è la «Comunità di valle», ente territoriale della Provincia autonoma di Trento, costituente il livello istituzionale intermedio tra il Comune e la Provincia che è stata istituita con legge provinciale 16 giugno 2006, n. 3, costituita obbligatoriamente dai Comuni compresi in ciascun territorio ritenuto adeguato per l'esercizio di importanti funzioni amministrative; «Comunità di valle» che a sua volta sostituisce i Comprensori, Consorzi di comuni, i cui obiettivi principali sono finalizzati al miglioramento del livello di sviluppo del territorio; ad evitare l'isolamento delle comunità periferiche; a scongiurare la scomparsa dei Piccoli Comuni anche a seguito della riduzione del tasso di natalità, per raggiungere obiettivi di integrazione socio-sanitaria.
La L. n. 1102/197124 emanava disposizioni rivolte a promuovere la valorizzazione delle zone montane, favorendo la partecipazione delle popolazioni attraverso le Comunità montane; la predisposizione e alla attuazione dei programmi di sviluppo e dei piani territoriali dei rispettivi comprensori montani, ai fini di una politica generale di riequilibrio economico e sociale, nel quadro delle indicazioni del programma economico nazionale e dei programmi regionali. In ciascuna zona omogenea, secondo la legge regionale, si costituisce tra i Comuni che in essa ricadono, la Comunità montana che è ente di diritto pubblico.
Con la n. 382/197525 veniva delegato il Governo ad emanare per le Regioni a statuto ordinario, uno o più decreti, con i quali le Regioni, per le attività e i servizi che interessano territori finitimi, potevano arrivare a intese e costituire uffici o gestioni comuni anche in forma consortile.
A seguito di tale legge delega veniva emanato il d. p. r. n. 616/1977, il quale nell'attribuire ai Comuni, alle Province, alle Comunità montane le funzioni amministrative indicate nel decreto, ferme restando quelle già loro spettanti secondo le vigenti disposizioni di legge, all'art. 25 disponeva che «la Regione determina con legge, sentiti i Comuni interessati, gli ambiti territoriali adeguati alla gestione dei servizi sociali e sanitari, promuovendo forme di cooperazione fra gli enti locali territoriali, e, se necessario, promuovendo ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 117 della Costituzione, forme anche obbligatorie di associazione fra gli stessi».
Il d. p. r. n. 616/1977 non specificava, però, quali fossero le «forme di cooperazione fra gli enti locali»; con la conseguenza che si consentiva che le Regioni sperimentassero originali modelli organizzativi come il comprensorio e l'associazionismo intercomunale presente in particolare nelle Regione Toscana, a seguito dell'approvazione della L. r. 17 agosto 1979, n. 37, Istituzione delle associazioni intercomunali; modelli organizzativi che ponevano spesso problemi, legati alla mancanza di uniformità di comportamenti, pur nella legittima autonomia legislativa delle Regioni interessate; fatto che indusse quest'ultime ad un blocco dell'attività sperimentale, lasciando libertà operativa ai Comuni, circa i modelli associativi intercomunali da assumere.
L'approvazione della L. n. 142/199026 sull'ordinamento delle autonomie locali segna un punto d'arrivo riguardo all'azione riformatrice statale, poiché viene elaborato un nuovo testo unico concernente l'ordinamento di Comuni e Province, sostitutivo della legge comunale e provinciale del 1934 che era stata elaborata in un contesto pre-repubblicano, antidemocratico e pre-costituzionale, vigendo negli anni trenta il regime fascista, del quale il TULCP è figlio.
L'attività riformatrice tocca svariati settori del diritto amministrativo e stabilisce con L. n. 142/1990 il primato del principio di autonomia delle amministrazioni locali, dal quale scaturisce un depotenziamento del principio gerarchico negli enti locali ed una maggiore centralità in essi di altre categorie di pensiero, orientate all'aziendalizzazione di Comuni e Province, al lavoro per obiettivi e alla valutazione dei risultati.
Con la legge sull'ordinamento delle autonomie locali del 1990 che recepiva molti principi della Carta europea delle autonomie locali27, il legislatore intendeva contribuire a razionalizzare il variegato mondo degli enti locali, conferendo assetti più duraturi agli organi di governo degli enti interessati, ad iniziare dalle modalità elettive del Sindaco, non più scelto dal Consiglio, come avveniva in passato, ma direttamente dagli elettori, ponendo in essere, al contempo, il principio della sfiducia costruttiva, attraverso la quale, a seguito della sfiducia del capo dell'amministrazione e della Giunta, si poteva procedere ad eleggere un nuovo Sindaco o Presidente della Provincia e di una nuova Giunta; la sfiducia costruttiva non comportando lo scioglimento del Consiglio, ma la sostituzione della Giunta o del Sindaco o del Presidente della Provincia con altri soggetti.
L'art. 9 della L. n. 142/1990 disponeva che spettavano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardavano la popolazione ed il territorio comunale precipuamente nei settori organici dei servizi sociali, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze e che «il Comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri Comuni e con la Provincia».
Pertanto ogni Comune doveva valutare se per il miglior esercizio di una determinata funzione era opportuno procedere a forme di decentramento oppure di cooperazione con altri Comuni o con la Provincia, soprattutto nel caso di Piccoli Comuni.
È proprio a partire dall'analisi dell'art. 9 della L. n. 142/1990 che si può iniziare a svolgere il ragionamento sulle forme associative comunali o per dirla in altri termini, sull'intercomunalità degli ultimi lustri che si è sviluppata nel nostro Paese, sui cui si veda infra.
4. L'intercomunalità in Europa.
Le forme di collaborazione tra Comuni in tema di gestione associata di funzioni e servizi rappresentano modelli organizzativi presenti anche nella maggioranza dei Paesi europei, a dimostrazione dell'importanza che essi hanno in ognuno di essi, per le implicazioni e i risvolti, anche di carattere economico-finanziario, concernenti la spesa pubblica.
Pur nella differente terminologia che si ritrova in ogni Paese che può creare alcune difficoltà nella comparazione tra istituti e modelli organizzativi, anche in Europa si tracciano percorsi e modelli amministrativi, attraverso i quali le realtà comunali presenti nel territorio europeo tentano di superare le angustie della mancanza di risorse finanziarie e di pervenire ad una corretta allocazione delle stesse, coniugando rigore di spesa da un lato ed efficacia della stessa dall'altro.
Il rilancio del tema dell'intercomunalità consente a livello europeo di applicare correttamente il principio di sussidiarietà verticale da un lato, mentre dall'altro permette di poter concorrere alla realizzazione di politiche di coesione territoriale, ridimensionando, contestualmente, eventuali diseconomie non più consentite in un periodo di economia recessiva, com'è quello che ogni Paese europeo sta vivendo, diminuendo così le conseguenze negative che comporta il ricorso a politiche di sfrenato particolarismo, dove appare centrale più il “campanile” che non le politiche di sviluppo omogeneo del territorio di riferimento; le cc.dd. politiche intercomunali comportano, altresì, un maggiore controllo dello sprawl28 urbanistico, ma anche di quello che si potrebbe definire sprawl amministrativo o organizzativo, fatto di crescita disomogenea fra territori contigui e affini dal punto di vista delle funzioni fondamentali da svolgere a beneficio delle comunità civiche interessate.
4.1. La cooperazione intercomunale in Francia.
La cooperazione intercomunale in Francia nasce con l'intento di rispondere in modo maggiormente efficace ai bisogni della popolazione, rispetto ai singoli Comuni29.
Soffermandoci nell'analisi del Code général des collectivités territoriales (testo in vigore dal 1° gennaio 2015), si può vedere che l'art. L5111-1 dispone che le autorità locali possono lavorare insieme per l'esercizio delle loro competenze, creando degli organismi pubblici di cooperazione, nelle forme e condizioni prescritte dalla legge.
Formano la categoria dei raggruppamenti delle collettività territoriali:
- gli stabilimenti pubblici di cooperazione intercomunale e i sindacati misti, di cui agli articoli L. 5711-1 e L. 5721-8;
- i poli metropolitani;
- le agenzie dipartimentali;
- le istituzioni o organismi interdipartimentali;
- gli accordi interregionali.
Il libro II del Code général des collectivités territoriales, agli articoli da L5210-1 a L5210-4, dispone in merito agli établissements publics de coopération intercommunale (EPCI) e precisa che i progressi della cooperazione intercomunale si basano sulla libera volontà dei Comuni di sviluppare progetti collettivi di sviluppo entro il perimetro delle solidarietà.
Formano la categoria delle istituzioni pubbliche per la cooperazione intercomunale:
- i sindacati dei Comuni;
- le comunità municipali;
- le comunità urbane;
- le comunità d'agglomerato;
- i sindacati d'agglomerazione nuova;
- le metropoli.
La legge prevede una duplice categorialità di sindacati:
- sindacati intercomunali a vocazione unica (SIVU);
- sindacati intercomunali a vocazione multipla (SIVOM).
L'obiettivo del SIVU è limitato a una sola opera o servizio intercomunale; è una sorta di sindacato specializzato che può comunque assicurare la gestione di più opere o servizi, a condizione che siano complementari.
L'obiettivo del SIVOM non è limitato a una sola opera o un singolo oggetto d'interesse intercomunale, ma include diverse vocazioni.
La communauté de communes (comunità di Comuni) è un EPCI che raggruppa più Comuni su un territorio in un unico pezzo e senza enclave.
La comunità di Comuni ha l'obiettivo di associare più enti entro uno spazio comune di solidarietà, in vista dell'elaborazione di un progetto di sviluppo condiviso e di pianificazione territoriale congiunta.
La communaute urbaine (comunità urbana) è un ente pubblico di cooperazione intercomunale che raggruppa più Comuni su un territorio in un unico pezzo e senza enclave che formano un insieme di più di 500.000 abitanti e che si associano in un unico spazio di solidarietà, per elaborare e condurre insieme un progetto di sviluppo urbano e territoriale.
La comunità urbana è l'organismo pubblico di cooperazione intercomunale più integrato ed è caratterizzata da un ampio trasferimento di competenze in settori essenziali alla struttura della comunità spaziale; forte integrazione che non esclude, tuttavia, che i Comuni possano conservare alcune competenze di prossimità.
La communauté d'agglomération (comunità d'agglomerato) è un soggetto pubblico di cooperazione intercomunale che raggruppa una serie di Comuni per più di 50.000 abitanti complessivi in un unico pezzo e senza enclave attorno a un centro con più di 15.000 abitanti.
La soglia di popolazione di 15.000 abitanti non si applica quando l'agglomerato comprende il capoluogo del dipartimento o il Comune più importante del dipartimento.
La soglia di popolazione di 50.000 abitanti scende a 30.000, quando l'agglomerato comprende il capoluogo del dipartimento.
Le syndicat d'agglomération nouvelle (i sindacati d'agglomerazione nuova) contribuiscono a un migliore equilibrio sociale, economico e umano delle Regioni a forte concentrazione di popolazione, migliorando la possibilità di lavoro.
Esse sono il frutto di operazioni d'interesse nazionale e regionale e beneficiano per questo dell'aiuto delle Regioni, dei dipartimenti e dello Stato.
Ciascun sindacato d'agglomerazione nuova è amministrato da un comitato composto di membri eletti dai Consigli municipale dei Comuni ad essa aderenti.
Le competenze di tali sindacarti sono tracciate dall'art. 5333-1 e riguardano la materia della programmazione e degli investimenti nel campo della pianificazione urbana; dei trasporti; dello sviluppo economico; in materia d'investimenti per realizzare moderne infrastrutture per nuove Città aventi più di trenta case.
La métropole (la metropoli) è un ente pubblico di cooperazione tra più Comuni associati all'interno di uno spazio di solidarietà per porre in essere un progetto di sviluppo economico, ecologico educativo, culturale e sociale del proprio territorio, al fine di migliorare la competitività e la coesione.
Possono ottenere lo stato di metropoli, senza vincoli di durata, gli organismi di cooperazione pubblica intercomunale, che formano alla data della sua creazione, un insieme di più di 500.000 abitanti
La Città metropolitana ha una serie molteplice di competenze, derivanti dall'art. L5217-4 del Code général des collectivités territoriales nel campo dello sviluppo e della pianificazione economica, sociale e culturale; della pianificazione territoriale; delle politiche abitative; delle politiche urbane; in materia di gestione di interessi collettivi (ad es. acqua cimiteri, mercati pubblici); in materia di tutela e valorizzazione dell'ambiente.
L'ordinamento francese contempla altre forme di cooperazione intercomunale, tra le quali si ricorderà l'accordo tra soggetti pubblici, la Convenzione, la conferenza intercomunale.
Con l'accordo, due o più Comuni possono promuovere tra loro iniziative d'interesse comune, comprese nelle sfere d'attribuzione dei Comuni interessati; questioni d'interesse comune dibattuto all'interno di apposita conferenza o all'interno dei consigli comunali interessati.
La questione dell'intercomunalità in Francia è importante poiché l'associazionismo dà risposte concrete al fenomeno della debolezza di numerosissimi Comuni francesi, perché il 95 per cento di essi conta meno di 5.000 abitanti; numero esiguo e che non consente politiche che sviluppano sul territorio auspicate economie di scala30.
In Francia si è voluto dunque accelerare il processo d'integrazione comunale, facendo così emergere una sorta d'identità sovracomunale e una razionalizzazione dell'azione di governo dei territori locali, pur nelle inevitabile presenza di nodi critici che è necessario superare, connessi alla difficoltà delle relazioni sovracomunali.
La legge Chevènement, n. 99-586, del 12 luglio 1999 che promuove e disciplina le cinque modalità di associazione intercomunale fondate sulla libera volontà dei Comuni di elaborare insieme progetti di sviluppo (articolo L5210-1 del CGCT) sui cui vedi supra , ha dato risultati poiché ha permesso la diffusone del fenomeno associativo comunale; tant'è che nel 2012, il 96,2% dei Comuni francesi partecipa alle Unioni di Comuni: 35.303 su 36.683 Comuni; mentre il 90,2% dei cittadini francesi risiede in un'Unione di Comuni: 59.320.637 su circa 65.350.000 abitanti31.
In seguito la legge n. 2010-1563, del 16 dicembre 2010, relativamente alla riforma degli enti territoriali, promuove il completamento dell'intercomunalità e la sua razionalizzazione.
Per semplificare il panorama istituzionale, tale legge elabora il Piano dipartimentale di cooperazione intercomunale (Schéma départemental de coopération intercomunale), per integrare tutti i Comuni isolati a un'intercomunalità, per razionalizzare il perimetro degli EPCI e per eliminare i sindacati intercomunali desueti.
4.2. L'intercomunalità in Spagna.
Per illustrare le forme di cooperazione intercomunale in Spagna è opportuno premettere delle considerazioni d'ordine costituzionale che possono contribuire a rendere chiaro il quadro istituzionale complessivo del Paese32.
La Costituzione spagnola del 1978 prevede che la Spagna è uno Stato sociale e democratico di diritto avente la forma politica di monarchia parlamentare.
La Costituzione spagnola afferma l'indissolubile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli spagnoli e riconosce e garantisce il diritto all'autonomia delle nazionalità e Regioni che la compongono e la solidarietà fra tutte le medesime.
In Spagna a partire dal dettato della Costituzione si è avviato un ampio processo di decentramento politico e di consolidamento di uno Stato delle autonomie, con un marcato decentramento istituzionale, articolato in diciassette Comunità Autonome con piena autonomia politica.
Lo Stato, ai sensi dell'art. 137 ss. Cost. è organizzato territorialmente in Municipi, in Province e nelle comunità autonome che si costituiscano; tutte tali entità godono di autonomia per la gestione dei rispettivi interessi.
Gli art. 140-142 Cost. dispongono in merito all'amministrazione locale e prevedono la garanzia dell'autonomia dei municipi che hanno piena personalità giuridica.
Il governo di questi e la loro amministrazione spettano ai rispettivi Consigli formati dai Sindaci e dai consiglieri che sono eletti dai cittadini del municipio mediante suffragio universale, eguale, libero, diretto e segreto, nelle forme previste dalla legge, mentre i Sindaci sono eletti dai Consiglieri o dai cittadini.
La Spagna nel 1985 ha varato la legge n. 7, con la quale ha rinnovato l'assetto giuridico del sistema locale.
Nel preambolo di tale legge si precisa che uno dei settori in cui maggiori sono gli effetti prodotti è quello dell'amministrazione locale, nel quale si trova collocato il Comune, elemento di eccellenza della coesistenza civile.
I Comuni sono entità di base della partecipazione del cittadino agli affari pubblici, che istituzionalizzano e gestiscono gli interessi delle rispettive comunità.
Ai sensi della L. n. 7/1985, art. 3, gli enti locali territoriali sono:
- il Comune;
- la Provincia;
- l'isola, gli arcipelaghi, le isole Baleari e Canarie.
Godono, inoltre, dello status di enti locali:
- i distretti o altri raggruppamenti di diversi Comuni, istituiti dalle comunità autonome in conformità con questa legge e relativi statuti di autonomia;
- le aree metropolitane;
- le associazioni dei Comuni.
Il Comune è l'ente locale di base dell'organizzazione territoriale dello Stato; esso ha personalità giuridica e piena capacità per la realizzazione dei suoi scopi.
La legge n. 7/1985 prevede negli artt. 42-44, forme differenti di intercomunalità; nel caso di specie:
a) Contea;
b) Area metropolitana;
c) Consorzio di comuni.
a) Ai sensi dell'art. 42 della L. n. 7/1985 le comunità autonome, in conformità con i propri statuti, possono creare nel territorio di loro competenza una Contea oppure altre entità che raggruppano vari Comuni, con il fine di esercitare in maniera congiunta servizi d'interesse comune.
Mediamente una Contea è composta di 19 Comuni e la popolazione che vi risiede è costituita da poco più di 36.000 abitanti.
b) Area metropolitana (Área metropolitana): ai sensi dell'art. 43 della L. n. 7/1985 le comunità autonome, previo accordo con l'amministrazione dello Stato, dei Consigli locali interessati e dei Consigli di contea, possono creare, modificare ed eliminare, attraverso una legge, aree metropolitane, secondo i rispettivi statuti.
Le aree metropolitane sono enti locali che comprendono i Comuni aventi grossi agglomerati urbani tra i quali vi sono ragioni economiche e forti legami sociali che rendono necessaria la pianificazione congiunta e il coordinamento di determinati servizi e lavori.
c) Consorzio di comuni (Mancomunidad municipal): ai sensi dell'art. 44 della L. n. 7/1985 si riconosce ai Comuni il diritto di associarsi con altri Comuni in Consorzio per la esecuzione in comune di opere o di servizi di competenza dei Comuni medesimi.
I Consorzi hanno personalità giuridica per il compimento dei propri fini precisati nello statuto, il quale regola l'ambito territoriale del Consorzio, l'oggetto della propria competenza, gli organi di governo, le risorse su cui fare affidamento, la durata dello stesso e ogni altra disposizione necessaria al suo funzionamento.
In seguito, la L. n. 57 del 16 dicembre 2003, rubricata Misure per la modernizzazione del governo locale, modifica in svariate parti la legge n. 7/1985, prevedendo il rafforzamento della strategia dell'intercomunalità e disponendo a tale proposito, all'art. 12 che la creazione di nuovi Comuni può essere effettuata solo se le risorse siano sufficienti per l'adempimento dei poteri comunali e non si riduca la qualità dei servizi che venivano forniti in precedenza.
Inoltre, fatte salve le competenze delle Comunità autonome, lo Stato, sulla base geografica, sociale, economico e culturale, può stabilire misure destinate a promuovere la fusione dei Comuni, al fine di migliorare la capacità di gestione di affari pubblici locali.
In Spagna la mappa comunale si presenta piuttosto frammentata, poiché il 60 per cento dei Comuni ha una popolazione inferiore a 1.000 abitanti; l'86 per cento inferiore a 5.000 abitanti e solo il 4 per cento supera i 10.000 abitanti.
È proprio tale frammentazione a giustificare la nascita di enti amministrativi intercomunali, tra cui la “mancomunità” (mancomunidad), come già visto, associazione comunale volontaria governata dalle municipalità che la compongono; che nasce per l'esercizio di specifiche funzioni o l'erogazione di particolari servizi di carattere sovracomunale.
Le 902 “mancomunità” presenti sul territorio spagnolo associano 5.957 municipalità, pari al 73,5 per cento del totale dei Comuni.
Complessivamente gli enti che compongono e articolano il sistema amministrativo sul territorio nazionale sono 12.26433.
4.3. La cooperazione intercomunale in Germania.
La Germania è una Repubblica Federale, all'interno della quale le entità statali hanno progressivamente ceduto parti di sovranità all'apparato federale, conservando tramite il Bundesrat (Consiglio Federale formato dai membri dei governi dei Länder) poteri di condizionamento e di veto sulla legislazione della Federazione34.
La Legge Fondamentale tedesca, all'art. 20 dispone che «la Repubblica Federale Tedesca è uno Stato federale democratico e sociale»; mentre all'art. 28 prevede che «l'ordinamento costituzionale deiLänder deve corrispondere ai principi dello Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale ai sensi della presente Legge fondamentale».
Ai Comuni deve essere garantito il diritto di regolare, sotto la propria responsabilità, tutti gli affari della comunità locale nell'ambito delle leggi.
Anche i Consorzi di Comuni [Gemeindeverbände] hanno, nei limiti dei loro compiti fissati dalle leggi, il diritto all'autonomia amministrativa».
Lo Stato (Bund) si articola in Länder (Stati membri), Kreise (Circondari, enti intermedi, funzionalmente analoghi alle Province italiane, ma costituiti come forma aggregativa tra Comuni) e Gemeinden(Comuni), articolazioni che costituiscono i livelli necessari dell'amministrazione territoriale tedesca.
A questi tre enti, dotati di garanzia costituzionale, sono da aggiungere le Gemeindeverbände (Unioni di Comuni/Consorzi di comuni), anch'esse previste dalla Costituzione quali forme associative per l'esercizio di servizi comuni.
Dunque la LF tedesca contempla oltre ai Comuni anche le Unioni/Consorzi di comuni.
L'art. 28, comma 2, LF, precisa che le Unioni di Comuni, nel loro ambito di funzioni legislativamente determinato, godono del potere di auto amministrazione sulla base delle leggi.
Essi sono enti territoriali di diritto pubblico, dotati di un proprio statuto, di un'assemblea dei rappresentanti degli enti e di un Presidente.
Le Unioni di comuni benché enti di rilievo costituzionale federale, non sono enti necessari, ma aggregazioni di Comuni su base volontaria (anche se spesso tale elemento è frutto delle concrete pressioni delLand, supportate da incentivi finanziari), costituite secondo legge, ai fini dello svolgimento in modo economicamente più razionale e sostenibile di compiti eccedenti la capacità operativa dei singoli Comuni.
Il loro ambito funzionale è definito legislativamente, potendosi attribuire alle Unioni di comuni sia materie di competenza comunale, sia quella dell'amministrazione del Land.
L'ordinamento prevede anche il Consorzio comunale finalizzato (Kommunaler Zwecksverband), costituito con uno specifico mandato, talvolta a termine, relativo a singoli compiti amministrativi.
Il Circondario (Kreis o Landkreis), ente territoriale di diritto pubblico presente in tutti i Länder e previsto dall'art. 28 LF, è un tipico ente intermedio tra il livello comunale e quello regionale, assimilabile alla Provincia italiana o al Dipartimento francese, ma con elementi differenziali.
La Legge fondamentale non ne definisce, come invece per i Comuni, un ambito primario di competenza, ma garantisce solo il carattere democratico e rappresentativo della relativa struttura.
L'ordinamento giuridico tedesco presta, attraverso i Länder, particolare attenzione al riordino dei Comuni e Circondari, finalizzata alla riduzione del loro numero, attraverso incorporazioni e fusioni, per una gestione più razionale ed economicamente sostenibile degli ambiti territoriali.
In una prima fase alcuni Länder hanno privilegiato le fusioni spontanee e volontarie, sulla base di accordi di diritto pubblico tra gli enti interessati, previsti da apposite leggi che preordinavano il percorso verso la fusione, anche attraverso nuove forme giuridiche di Unioni di comuni o prevedendo particolari sovvenzioni e misure finanziarie premiali.
Laddove i Länder hanno riscontrato resistenze, oltre all'adozione di leggi che introducevano forti penalizzazioni finanziarie nei confronti degli enti restii al riordino, l'accorpamento è avvenuto per legge o, in casi di minore importanza, con decreto governativo a contenuto normativo.
La legittimità costituzionale dei processi di accorpamento territoriale, di fronte alle eccezioni di incostituzionalità mosse dagli enti interessati, è stata più volte affermata dal Tribunale costituzionale federale (ordinanza 27 novembre 1978) il quale ha precisato che «la garanzia costituzionale dell'autonomia comunale tutela il Comune come livello istituzionale necessario, ma non può impedire al legislatore di preordinare progetti di riordino territoriale che portino a fusioni o incorporazioni di Comuni, per motivi di utilità generale, sentiti gli enti territoriali coinvolti».
Le riforme territoriali portate avanti in una prima fase tra il 1968 e il 1978 (e poi riprese dopo la riunificazione nei Länder dell'est), hanno conseguito risultati considerevoli, sia per quanto concerne i Comuni, ridotti da 24.282 a 8.505 (- 65 per cento; con punte di - 80 per cento in alcuni Länder), sia per i Circondari, ridotti da 425 a 237 (- 44,7 per cento).
Il processo di riordino territoriale ha, ovviamente, interessato i Comuni di minori dimensioni, determinandone una netta diminuzione.
In particolare, nel periodo 1968-1989 i Comuni inferiori a 500 abitanti sono passati da 10.760 a 1.735; quelli tra 500 e 1.000 abitanti da 5.706 a 1.400; quelli tra 1.000 e 2.000 abitanti da 3.850 a 1.631; quelli tra 2.000 e 5.000 abitanti da 2.406 a 1.699.
La riduzione di Comuni e Circondari ha comportato un ridimensionamento del numero di amministratori di enti locali: nei Circondari si è passati da 15.615 a 13.286 amministratori (- 14,9 per cento); nelle Città extracircondariali da 5.441 a 4.169 (- 23,4 per cento); nei Comuni da 216.248 a 128.191 (- 40,7 per cento).
Il processo di riordino ha conosciuto una seconda fase dopo la riunificazione, tra il 1991 e il 1994, nel territorio dell'ex Germania Est, in considerazione dell'eccessiva parcellizzazione della popolazione in troppi piccoli Comuni, conducendo al dimezzamento del numero dei Circondari, passati da 189 a 92 e alla riduzione di circa il 17 per cento del numero dei Comuni, passati da 7.622 a 6.29335.
Non tutti i Comuni coinvolti nell'operazione accolsero volentieri la novità del loro riordino; molti accettarono la fusione, ma solo in cambio di vantaggi finanziari; altri crearono a decise lotte per la loro conservazione, dovute anche alle resistenze opposte dai politici locali che temevano di perdere consensi.
Nel respingere i ricorsi di questi Comuni, il Tribunale costituzionale federale ha chiarito che la Legge fondamentale offre ai Comuni una “garanzia istituzionale”.
Ciò significa che l'art. 28, comma 2, LF, garantisce la funzione dell'autogoverno comunale, ma non il diritto di ciascun singolo Comune ad esistere.
Pertanto lo scioglimento di Comuni, l'Unione di comuni, la fusione di Comuni e altre forme di modifica territoriale non limitano di per sé il nucleo essenziale, costituzionalmente garantito, dell'autonomia comunale.
La creazione di Comuni e distretti più grandi, ma a loro volta decentrati, permetteva, infatti, una maggiore efficienza nella gestione dei servizi, in particolare di quelli più costosi come gli ospedali, ma in generale per l'intera attività amministrativa, specie di quella delegata e consentiva nel contempo di ridurre i controlli, per il minor numero di Comuni e la presenza di una amministrazione comunale più professionale e specializzata; una più razionale delimitazione territoriale dei Comuni rendeva inoltre possibile una migliore gestione urbanistica.
Nonostante la decisione fosse già abbondantemente presa, non si risparmiarono massicce campagne d'informazione, insediamenti di commissioni di esperti, e l'attenzione a un processo graduale e il meno traumatico possibile.
Il coinvolgimento dei Comuni ha giocato un ruolo essenziale nella procedura di fusione, consentendo il superamento di difficoltà e opposizioni altrimenti insormontabili.
4.4. L'intercomunalità in Danimarca.
Il regno di Danimarca è una monarchia costituzionale dove il potere esecutivo viene esercitato in favore della Regina dal Primo Ministro e dagli altri ministri che sono a capo dei rispettivi dipartimenti36.
Il Consiglio dei Ministri e il primo ministro costituiscono il Governo, mentre i ministri rispondono al Parlamento detto “Folketing”, l'assemblea legislativa monocamerale che tradizionalmente è considerata come l'organo supremo (vale a dire che può legiferare su qualsiasi materia e non è vincolato alle decisioni dei suoi predecessori).
Una delle più interessanti è quella varata dal governo danese nel 2007, basata sulla soppressione dei Comuni con meno di 20.000a abitanti, la fissazione di un limite minimo di 30.000 abitanti per i Comuni derivanti da fusione e la riorganizzazione del sistema delle Contee.
La riforma, attraverso un percorso durato 5 anni, ha portato all'istituzione di una nuova organizzazione amministrativa basata su:
- la riduzione a 98 municipalità dalle precedenti 271 (quasi 2/3 in meno), di cui solamente 33 preesistenti e le altre derivanti da fusioni;
- l'abolizione delle 13 Contee con la sostituzione attraverso 5 nuove Regioni.
Essa è stata peraltro accompagnata da una revisione e riorganizzazione delle competenze, al cento della quale vi è il mantenimento e sviluppo del sistema di welfare37.
5. Il rapporto tra Costituzione e fusione di Comuni.
L'art. 133, comma 2, Cost., prevede che: «la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».
Dunque l'iniziativa legislativa per mutare le circoscrizioni territoriali comunali va assunta dalla Regione; di conseguenza appaiono quanto meno esagerate le reazioni di numerosi Sindaci, di piccoli e medi Comuni che si sono avute in questi giorni, a causa dell'intervento dell'On. Piero Fassino38 che nella qualità di Presidente Nazionale dell'Associazione Nazionale Comuni d'Italia (ANCI) avrebbe sostenuto la necessità di accorpare coattivamente i Comuni fino a 5.000 abitanti o fino a 15.000 abitanti39.
I nuovi tagli agli enti locali prospettati nella proposta di Legge di Stabilità 2015, hanno riacceso l'attenzione intorno al tema dell'accorpamento e fusione dei Comuni; in merito anche il Commissario allaspending review Carlo Cottarelli, ha sottolineato l'esigenza di ridurre il numero degli oltre ottomila Comuni italiani nell'audizione alla Camera del 15 ottobre scorso 40.
Le dichiarazioni del Presidente nazionale dell'ANCI Fassino e del commissario alla spending review Cottarelli appaiono dunque asserzioni di principio, attraverso le quali è possibile prevedere una spinta propulsiva riguardo il fenomeno delle fusioni di Comuni; ma allo stato e fermo restando il diritto positivo vigente, soprattutto di natura costituzionale, non è neanche possibile immaginare che vi possano essere azioni di accorpamento dei Comuni top-down ovvero imposte dall'alto, ma siano possibili solo azioni bottom up, cioè orientate dal basso verso l'alto, proprio per la garanzia offerta dall'art. 133, comma 2, Cost. di cui supra.
Premesso che ai sensi dell'art. 117, comma 4, «spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» e che compete alle Regioni la materia delle «circoscrizioni comunali», in quanto essa non è espressamente inclusa tra le materie di potestà legislativa esclusiva statale, né in quelle di potestà concorrente a seguito della nuova formulazione dell'art. 117, Cost., introdotta con la legge costituzionale n. 3/200141, occorre bene intendere il significato del termine «popolazioni interessate» che vanno sentite dalla Regione, ai sensi dell'art. 133, comma 2 Cost., per istituire con sue leggi «nuovi Comuni nel proprio territorio e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni».
Intanto dal punto di vista sociologico e giuridico, l'art. 133 Cost., comma 2, richiama la categoria della “autodeterminazione delle popolazioni interessate” alla fusione dei Comuni.
L'autodeterminazione è il principio in base al quale un comunità ha diritto di scegliere liberamente il proprio sistema di governo (autodeterminazione interna); in definitiva rappresenta un «atto con cui l'uomo si determina secondo la propria legge, in opposizione a “determinismo”, che assume la dipendenza del volere dell'uomo da cause non in suo potere. L'autodeterminazione è l'espressione della libertà positiva dell'uomo e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione»42.
Dunque, in senso estensivo, con la categoria dell'autodeterminazione, la comunità amministrata, nel caso dell'ente locale, può decidere in maniera del tutto autonoma, ma all'interno della cornice legislativa dettata dal diritto positivo vigente, di prendere parte al processo politico concernente il proprio ente locale, al quale può conferire un nuovo corso attraverso l'esercizio di un proprio diritto collettivo, consistente nella possibilità anche di dar vita ad un nuovo soggetto giuridico territoriale, ad un nuovo Comune.
La Corte Costituzionale ha avuto modo di occuparsi dell'autodeterminazione di una comunità, con la sentenza n. 453/198943, emessa a seguito dell'Ordinanza del 28 febbraio 1989 del Pretore di Noto che ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge regionale della Sicilia 30 marzo 1981, n. 43, con la quale è stata disposta l'aggregazione di ettari 10.295.02.01 - già appartenenti al territorio del Comune di Noto - al contermine Comune di Palazzolo Acreide, nonché dell'art. 6, in relazione agli artt. 7, n. 4 e 8 della legge regionale della Sicilia 15 marzo 1963, n. 16 (Ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione Siciliana), recanti la disciplina generale in materia di istituzione di nuovi Comuni e di modificazione delle circoscrizioni preesistenti.
Il giudice a quo ravvisa in primo luogo il contrasto della legge regionale 30 marzo 1981, n. 43, con l'art. 133 della Costituzione, in quanto essa avrebbe disposto lo scorporo di parte del territorio di un Comune e la sua aggregazione ad un altro, senza che vi fosse stata la verifica della volontà complessiva di tutte le popolazioni interessate o almeno dell'incidenza percentuale delle opzioni sul totale della popolazione residente, essendosi ritenuta sufficiente l'iniziativa legislativa assunta dal Comune di Palazzolo Acreide con le allegate sottoscrizioni di un gruppo di cittadini residenti nelle contrade interessate. Ma la verifica effettuata sulla base di tali elementi «non può per il giudice a quo ritenersi sostitutiva della consultazione popolare, in quanto priva delle guarentigie proprie di ogni consultazione, quali la libertà, la segretezza e la effettività del diritto di voto per tutti gli elettori».
Osserva in proposito la Corte che oggetto dell'impugnativa è sia la legge regionale 30 marzo 1981, n. 43, che ha disposto in concreto la contestata modificazione territoriale, sia l'art. 6, in relazione agli artt. 7, n. 4 e 8 dell'ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione Siciliana, perché detto art. 6, come sostiene il giudice a quo, nel porre la disciplina generale che concerne l'istituzione di nuovi Comuni, la fusione di quelli esistenti, la modificazione delle loro circoscrizioni e denominazioni, stabilisce che a ciò si addivenga con legge della Regione senza prevedere che debbano essere sentite le popolazioni interessate, come è previsto invece dall'art. 133, comma secondo, della Costituzione, sia per quel che concerne l'istituzione di nuovi Comuni che in relazione alle modificazioni in genere delle loro circoscrizioni e denominazioni.
Tale previsione è invece contenuta nell'art. 7 dell'Ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione siciliana (legge 15 marzo 1963, n. 16) limitatamente alla istituzione di nuovi Comuni, talché in Sicilia alla modificazione delle circoscrizioni preesistenti può addivenirsi senza la previa audizione delle popolazioni interessate.
Invece, ad avviso della Corte Costituzionale, l'obbligo della preventiva audizione delle popolazioni interessate è previsto, dal parametro costituzionale invocato nell'ordinanza di rimessione, come presupposto sia per l'emanazione della legge che istituisce nuovi Comuni sia per quella che dispone le altre modificazioni delle loro circoscrizioni e denominazioni.
«Correttamente perciò il giudice a quo, muovendo dalla legge n. 43 del 1981 che ha disposto l'aggregazione al Comune di Palazzolo Acreide di parte del territorio già appartenente al Comune di Noto senza che siano state preventivamente sentite le popolazioni interessate, ha rivolto la censura di illegittimità costituzionale sia a detta legge del 1981, sia all'art. 6, in relazione agli artt. 7 ed 8 dell'ordinamento amministrativo degli enti locali della Regione Siciliana, perché sono queste ultime le norme che all'epoca in cui è stata disposta la variazione territoriale disciplinavano le modalità per addivenirsi all'emanazione del provvedimento di natura legislativa diretto alla istituzione di nuovi Comuni, alla fusione di quelli esistenti ed alla modificazione delle loro circoscrizioni e denominazioni, limitando alla sola ipotesi della nuova istituzione (art. 7 cit.) l'obbligo di sentire le popolazioni interessate.
Per quel che riguarda l'aspetto posto in evidenza dalla Regione circa la natura esclusiva della potestà legislativa attribuitale dallo Statuto in materia di circoscrizioni comunali, osserva la Corte che l'esercizio di tale potestà non può prescindere dall'osservanza di alcuni principi della Costituzione della Repubblica e dal rispetto di tutti i limiti posti da essa, in quanto non derogati dallo Statuto speciale (sentenza n. 105 del 1957).
Secondo la Corte Costituzionale «la circostanza secondo cui negli articoli 14 e 15 dello Statuto siciliano non si faccia espressa menzione anche dell'obbligo della previa audizione delle popolazioni interessate, non può certo assumere il significato di deroga ad un principio di portata generale che trova puntuale espressione negli artt. 132 e 133 della Costituzione, ma che è comunque desumibile dal contesto dell'intero Titolo quinto della seconda parte della Costituzione. Questa, nell'attribuire spiccato rilievo costituzionale all'autonomia degli enti locali territoriali, riconosce per ciò stesso la particolare importanza che in tale quadro riveste il principio di autodeterminazione delle popolazioni locali per quel che riguarda il loro assetto istituzionale. Si è dunque in presenza del riconoscimento a livello costituzionale generale di un principio ricevuto dalla tradizione storica, perché già presente nella legislazione comunale e provinciale anteriore alla Costituzione della Repubblica».
Ad avviso della Corte, la Costituzione ha trasferito alle Regioni le funzioni in tema di variazione degli enti locali territoriali, subordinandola alla duplice garanzia della riserva di legge (regionale) e del rispetto del principio di partecipazione delle comunità locali; principio che «è diretto a garantire […] l'autonomia degli enti minori nei confronti delle stesse Regioni per evitare che queste possano addivenire a compromissioni dell'assetto preesistente senza tenere adeguato conto delle realtà locali e delle effettive esigenze delle popolazioni direttamente interessate».
È opportuno precisare che la specifica indicazione del referendum come modalità idonea ad assicurare l'assolvimento dell'obbligo di consultazione delle popolazioni interessate, previsto dal secondo comma dell'art. 133 della Costituzione e contenuta nelle sentenze n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981 che riguardano le Regioni a Statuto ordinario non può ritenersi vincolante per la Regione Siciliana che è libera di determinare le concrete modalità dirette a garantire il principio di autodeterminazione o di partecipazione in forme anche equivalenti a quella tipica del referendum, purché tali da assicurare, con pari forza, la completa libertà di manifestazione dell'opinione da parte dei soggetti chiamati alla consultazione, al riparo cioè da ogni condizionamento esterno nel momento del suo svolgimento e quindi con l'osservanza delle opportune forme di segretezza adeguate a tali fini.
Con tali precisazioni deve dichiararsi perciò fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge regionale della Sicilia 15 marzo 1963, n. 16, sull'ordinamento amministrativo degli enti locali, (nella formulazione vigente all'epoca in cui veniva disposta con legge regionale n. 43 del 1981 la variazione territoriale) nella parte in cui, nel prevedere che l'istituzione di nuovi Comuni, la fusione di quelli esistenti, la modificazione delle loro circoscrizioni e denominazioni sono stabilite con legge della Regione, non dispone che, per ognuna delle predette ipotesi, debbano preventivamente essere sentite le popolazioni direttamente interessate.
Pertanto la disciplina legislativa emanata non può essere in contrasto «con il principio costituzionale di portata generale espresso dall'art. 133, secondo comma, della Costituzione il quale prevede che debbano essere sentite le popolazioni interessate sia per l'istituzione di nuovi Comuni che per qualsiasi modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni, ponendo così sullo stesso piano qualunque tipo di variazione territoriale degli enti locali».
Rimanendo sempre nell'alveo della “popolazione interessata”, ad avviso della Corte Costituzionale, in caso di modificazioni del territorio comunale, la popolazione interessata non sempre coincide con la totalità della popolazione dei Comuni coinvolti dal mutamento territoriale (ma solo con la popolazione che risiede nei territori destinati a passare altro Comune (Corte Cost., n. 453/1989).
Qualora però si versi nel caso di fusione o di istituzione di nuovo Comune, la “popolazione interessata” concerne l'intera popolazione e giustifica la consultazione della totalità dei cittadini residenti nei Comuni coinvolti (Corte Cost. n. 433/1995).
In base a tale ultima sentenza (Corte Cost., n. 433/1995) si evidenzia che i ricorrenti, attraverso il TAR remittente, avevano prospettato la violazione dell'art. 133, secondo comma, della Costituzione, da parte dell'art. 1, comma secondo, lett. a), della legge della Regione Lazio, 8 aprile 1980, n. 19 (con conseguente illegittimità derivata del decreto prefettizio impugnato), in quanto erano stati chiamati ad esprimersi sul referendum soltanto i cittadini residenti nelle frazioni da distaccare e non tutti i cittadini di Marino.
Ad avviso della Suprema Corte «in linea generale, quindi, popolazioni interessate sono tanto quelle che verrebbero a dar vita ad un nuovo Comune così come quelle che rimarrebbero nella parte, per così dire, “residua” del Comune di origine. Altrettanto può dirsi per i trasferimenti di popolazioni da un Comune ad un altro in conseguenza di modificazioni delle circoscrizioni territoriali […] solo in casi particolari potrà prescindersi dalla consultazione dell'intera popolazione del Comune da cui una o più frazioni chiedano di distaccarsi. Il TAR remittente, prendendo le mosse da un episodio recente (quello dell'istituzione del Comune di Fiumicino per distacco dal Comune di Roma), definisce tale ipotesi come quella in cui il gruppo che chiede l'autonomia “è già esistente come fatto sociologicamente distinto, è collegato con un'area eccentrica rispetto al capoluogo, ed ha quindi una sua caratterizzazione distintiva” […] ma, val la pena ripetere, si tratta di ipotesi particolari ed eccezionali che non inficiano la regola generale direttamente ricavabile dall'art. 133, secondo comma, della Costituzione che esige la consultazione di tutta la popolazione del Comune o dei Comuni le cui circoscrizioni devono subire modificazione o per la istituzione di nuovi Comuni o per il passaggio di parti di territorio e di popolazione da un Comune all'altro».
La Corte Costituzionale (Sent. n. 237, depositata il 19 luglio 2004, in G.U. 28 luglio 2004,) nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 (recte: articolo unico) della legge della Regione Campania 7 luglio 2003, n. 14, recante «Cambio di denominazione del “Comune di Ascea” in “Comune di Ascea-Velia”», promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, secondo il quale la legge sarebbe stata deliberata in violazione dell'art. 133, secondo comma, della Costituzione e dell'art. 60, primo comma, dello statuto della Regione, in quanto non è stata preceduta dalla consultazione referendaria della popolazione interessata), ritiene che «nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio secondo cui l'art. 133, secondo comma, della Costituzione, che nell'attribuire alla Regione il potere, con legge di “istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni”, prescrive di sentire “le popolazioni interessate”, comporta, per le Regioni a statuto ordinario, l'obbligo di procedere a tal fine mediante referendum (cfr. sentenze n. 204 del 1981; n. 107 del 1983; n. 279 del 1994).
Tale principio non è mai stato oggetto di applicazione giurisprudenziale in tema di mutamento della denominazione di un Comune: ma il tenore testuale dell'art. 133, secondo comma, della Costituzione non consente di escludere questa ipotesi da quelle, unitariamente contemplate dalla norma costituzionale, in cui è obbligatorio il ricorso al referendum. Ipotesi nella quale la volontà della popolazione ha motivo di esprimersi riguardo ad un elemento non secondario dell'identità dell'ente esponenziale della collettività locale».
Ad avviso della dottrina e alla luce delle affermazioni della Suprema Corte, la regola generale è quella del coinvolgimento dell'intera popolazione; la regola particolare, invece, è quella che consente di valutare, di volta in volta, il coinvolgimento solo di alcune parti della popolazione44.
La consultazione delle popolazioni locali nei procedimenti di variazione territoriale è prevista anche dall'art. 5 della Carta europea delle autonomie locali45 alla quale l'Italia ha dato esecuzione con legge n. 439/198946.
La Carta europea delle autonomie locali è un atto vincolante da parte dei sottoscrittori; premesso che nel preambolo si legge che «le collettività locali costituiscono uno dei principali fondamenti di ogni regime democratico [e che] il diritto dei cittadini a partecipare alla gestione degli affari pubblici fa parte dei principi democratici comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa», l'art. 1 prevede che «le Parti s'impegnano a considerarsi vincolate dagli articoli seguenti, nella maniera e nella misura prescritta dall'art. 12 della presente Carta»; mentre l'art. 5 della Carta europea delle autonomie locali, rubricato Tutela dei limiti territoriali delle collettività locali, dispone che «per ogni modifica dei limiti locali territoriali, le collettività locali interessate, dovranno essere preliminarmente consultate, eventualmente mediante referendum, qualora ciò sia consentito dalla legge».
6. La fusione di Comuni nella legislazione ordinaria.
l numero dei Comuni in Italia complessivamente ammonta a ben 8.057; il numero dei cc. dd. Piccoli Comuni47 assomma a 5.640, con un'incidenza di Piccoli Comuni sul totale dei Comuni pari al 70,0 per cento; mentre i Comuni con più di 5.000 abitanti sono 2.417 e rappresentano il 30,0 per cento del totale dei Comuni italiani.
I Piccoli Comuni fino a 1.000 abitanti sono 1.976 e rappresentano il 24,5 per cento dei Piccoli Comuni; tra 1.001 e 2.500 abitanti sonno 2.104 e rappresentano il 26,1 per cento; quelli tra 2.501 e 5.000 abitanti sono 1.560 e rappresentano il 19, 4 per cento48.
Esaminando i dati contenuti nell'Atlante dei Piccoli Comuni del 2013 e comparandoli con quelli dell'Atlante dei Piccoli Comuni 2014, si può vedere come il numero assoluto dei Comuni nel 2014 si riduce, passando da 8.093 a 8.057 (-36); i Piccoli Comuni passano da 5.693 a 5.640 (-53); i Comuni con più di 5.000 abitanti passano da 2.400 a 2.417 (+17), proprio a dimostrazione dei processi di fusione in atto tra alcuni Comuni.
Dapprima che fosse introdotta nell'ordinamento la L. n. 142/1990, il d. p. r. n. 616/1977, all'art. 16, rubricato Circoscrizioni comunali, comma 3, disponeva che: «fino all'entrata in vigore della legge sulle autonomie locali non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti».
Entrata in vigore la legge sull'ordinamento delle autonomie locali (L. n. 142/1990), la fusione di Comuni veniva disciplinata dall'art. 11, rubricato Modifiche territoriali, fusione ed istituzione di comuni, il quale prevedeva che: «1. A norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri comuni scendano sotto tale limite.
2. Le Regioni predispongono un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli Comuni e lo aggiornano ogni cinque anni, tenendo anche conto delle Unioni costituite ai sensi dell'articolo 26.
3. La legge regionale che istituisce nuovi Comuni, mediante fusione di due o più Comuni contigui, prevede che alle comunità di origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
4. Al fine di favorire la fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni di popolazione superiore, oltre agli eventuali contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono.
5. Nel caso di fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, tali contributi straordinari sono calcolati per ciascun Comune. Nel caso di fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi straordinari sono calcolati soltanto per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del Comune risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi prestati nell'ambito territoriale dei Comuni soppressi, aventi popolazione inferiore a 5.000 abitanti».
Dunque se con il d. p. r. n. 616/1977 venivano frenate le velleità municipalistiche di numerose realtà territoriali che agivano nel senso della conquista della loro autonomia istituzionale, ponendo l'art. 16, comma 3, uno sbarramento di natura demografica di almeno 5.000 abitanti, con l'art. 11 della L. n. 142/1990, la soglia per poter far nascere nuovi Comuni veniva innalzata a 10.000 abitanti, salvo che il nuovo Comune fosse il prodotto di un processo di fusione intercomunale, nel qual caso veniva consentita la deroga al limite demografico dei 10.000 abitanti49.
Anche le Unioni di comuni erano interessate dal processo di fusione, poiché la L. n. 142/1990, all'art. 26, nel disciplinare le forme associative unionali, prevedeva che esse, entro dieci anni dalla loro costituzione, dovessero portare alla fusione degli enti coinvolti o allo scioglimento dell'Unione stessa; fatto che può essere considerato, a buona ragione, una delle cause dell'insuccesso delle Unioni di comuni, in quanto sullo sfondo di quest'ultime vi era un impegno irreversibile dei Comuni partecipanti all'Unione, costituito, appunto, dalla fusione finale dei Comuni interessati.
La legge sull'ordinamento delle autonomie locali prevedeva che le Regioni dovessero predisporre un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli Comuni che andava aggiornato ogni cinque anni, tenendo anche conto delle Unioni costituite ai sensi dell'articolo 26.
L'art. 11 della legge n. 142/1990 in esame, proprio per la strategicità del processo di fusione di comuni, prevedeva anche meccanismi d'incentivazione finanziaria nel caso di fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni di popolazione superiore; nel caso di fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti; nel caso di fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore.
L'istituzione di nuovi Comuni attraverso la fusione dei Comuni interessati, doveva avvenire attraverso l'approvazione di un'apposita legge regionale, la quale doveva assicurare che alle comunità di origine o ad alcune di esse, fossero date adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
Molti dei contenuti della L. n. 142/1990 sono stati successivamente modificati dalla legge Napolitano-Vigneri, L. n. 265/199950, art. 6, che ha in parte modificato la normativa prevista dall'art. 11 della L. n 142/1990.
Infatti una modificazione sostanziale apportata alla normativa concerne le Regioni che non debbono soltanto predisporre «un programma di modifica delle circoscrizioni comunali e di fusione dei piccoli Comuni» da aggiornare ogni cinque anni; ma devono varare un programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi, realizzato anche attraverso le Unioni «concordandolo con i Comuni nelle apposite sedi concertative»; programma che è aggiornato non più ogni cinque anni, ma ogni tre anni e «che può prevedere altresì la modifica di circoscrizioni comunali e i criteri per la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva unificazione».
Riguardo all'incentivazione finanziaria veniva modificato il comma 4 dell'art. 11 della L. n. 142/1990 e previsto che: «al fine di favorire la fusione dei comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono» e abrogato il comma 5 dell'art. 11 della L. n. 142/199051.
Adesso la fusione di Comuni è disciplinata dal d. lgs. n. 267/200052 (TUEL), il quale nel premettere all'art. 13 che il Comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri Comuni e con la Provincia, prevede la fusione di Comuni negli artt. 15, rubricato Modifiche territoriali, fusione ed istituzione di Comuni e 16, rubricato Municipi.
6.1 Le modifiche territoriali del Comune.
Secondo l'art. 114 della Costituzione il Comune è un elemento costitutivo della Repubblica ed è ente autonomo dotato di un proprio statuto, di poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione.
In passato il Comune era definito come ente autarchico53 territoriale, formato da un insieme di persone ivi residenti o accomunate da specifici interessi, esercitabili in una definita porzione del territorio statale.
L'autarchia è un attributo del Comune che può essere intesa in una duplicità di significati: come situazione di un soggetto capace di badare a se stesso, alle proprie esigenze e come capacità di autogovernarsi.
L'autarchia esplicitata nella seconda accezione indica il potere di emanazione di atti amministrativi che hanno la medesima natura e gli stessi effetti degli atti amministrativi statali.
Ora l'art. 5 Cost. dispone che: «[…] la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento».
Viene dunque riconosciuta e promossa l'autonomia locale, adeguati i principi e i metodi della legislazione statale alle esigenze dell'autonomia e del decentramento e riaffermato il carattere unitario della Repubblica e pertanto condivisa l'idea della profonda conciliabilità tra l'unità politica dello Stato e l'autonomia degli enti territoriali minori che implica non più relazioni di natura gerarchica tra Stato, Regioni, Province e comuni ma rapporti improntati al principio di leale collaborazione e cooperazione tra loro, superando in questo modo la condizione di autarchia che presupponeva la subordinazione degli enti territoriali minori allo Stato.
Il TUEL di cui al d.lgs. n. 267/2000, all'art 3, rubricato Autonomia dei Comuni e delle Province, prevede che:
«… le comunità locali, ordinate in Comuni e Province, sono autonome … i Comuni e le Province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa, nonché autonomia impositiva e finanziaria nell'àmbito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi di coordinamento della finanza pubblica [...]».
Il Comune è innanzitutto un soggetto giuridico appartenente al novero degli enti locali, al pari delle Province, Città metropolitane, Comunità montane, Comunità isolane, Unioni di comuni, in base al disposto dell'art. 2 del TUEL che si applica proprio agli enti come sopra individuati oltre che ai Consorzi «cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica ed imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei Consorzi per la gestione dei servizi sociali».
Il Comune, ai sensi dell'art. 3 TUEL «è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo»; è un ente esponenziale dei suoi cittadini che operano su di un territorio, nei confronti dei quali rivolge la sua attenzione, curandone gli interessi e badando a promuovere lo sviluppo; è un ente naturale (che preesiste allo Stato) che costituisce l'elemento basilare della Repubblica, come previsto dall'art. 114 Cost.: «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
Si realizza con il nuovo art. 114 Cost. un rinnovato posizionamento del Comune nell'ambito del sistema repubblicano, ponendo tale ente alla base della stessa Repubblica, invertendo così l'ordine costitutivo della stessa che in precedenza assegnava allo Stato il ruolo di zoccolo duro del sistema costituzionale repubblicano.
Secondo autorevole dottrina «Comuni, Province e Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. Se … le funzioni sono sempre conferite con legge, la distinzione tra funzioni proprie e conferite finisce col risultare ardua»54.
Ai sensi dell'art. 13 del TUEL: «1. Spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto e utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.
2. Il Comune, per l'esercizio delle funzioni in ambiti territoriali adeguati, attua forme sia di decentramento sia di cooperazione con altri Comuni e con la Provincia».
Il Comune ha un proprio territorio ovvero una porzione di spazio geografico su cui ed entro la quale il Comune esercita la sua sovranità, tanto sui beni, quanto sulle persone fisiche e giuridiche; il territorio, quindi, è il luogo all'interno del quale i gruppi sociali organizzati stanziano, svolgono le loro attività.
È inconcepibile pensare al Comune senza riferirsi al territorio come suo elemento necessario e indefettibile, i cui confini possono essere anche oggetto di modificazioni.
Nel territorio di competenza possono distinguersi differenti articolazioni del Comune:
Capoluogo: centro abitato che assegna il nome al Comune e che può essere ritenuto il suo elemento più importante anche perché sede degli uffici pubblici;
Quartiere: elemento centrale della vita urbana, settore specifico all'interno della Città55;
Sobborgo: [dal latino suburbium, da sub (sotto) e urbs (Città)] nuovo quartiere cittadino, collegato con l'insieme della Città secondo le esigenze della crescita urbana;
Frazione: parte del territorio comunale che corrisponde a un centro abitato staccato dal capoluogo56;
Circoscrizione: è organo del Comune dotato di autonomia, attraverso cui si esercita il decentramento, al fine dell'esercizio delle funzioni delegate dal Comune e per consentire la partecipazione, la consultazione e la gestione dei servizi di base57.
L'assetto territoriale di un Comune può essere fatto oggetto di modificazioni, a seguito di fatti tutelati dall'ordinamento.
Può accadere, infatti, che vi sia distacco di una o di più frazioni da un Comune, con contestuale aggregazione ad un altro Comune contermine; oppure che vi sia un ampliamento territoriale di un Comune, a discapito del territorio di un altro Comune contermine.
Si ribadisce che ai sensi dell'art. 117 Cost., alle Regioni è conferita potestà legislativa esclusiva in tema di circoscrizioni comunali; mentre l'art. 133, comma 2, Cost. dispone che: «la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni»; mentre l'art. 133, comma 2 Cost., evidenzia due principi importanti concernenti l'istituzione di nuovi Comuni: il primo riguardante la riserva di legge regionale e non più semplici provvedimenti amministrativi come avveniva nel passato; il secondo l'obbligo di consultazione delle popolazioni interessate finalizzata all'ottenimento del necessario consenso dei soggetti interessati.
La L. n. 570/1960, art. 8, comma 2, lett. a), prevede che i Consigli comunali si rinnovano integralmente quando, in conseguenza di una modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno un quarto della popolazione del Comune.
Appare opportuno accennare alla materia concernente la determinazione, rettifica e contestazione dei confini, disciplinata dal T.U. n. 383/1934, art. 32, il quale disponeva che:
«qualora il confine fra due o più Comuni non sia delimitato da segni naturali facilmente riconoscibili o comunque dia luogo a incertezze, ne può essere disposta la determinazione ed eventualmente la rettifica su domanda dei Podestà ovvero di ufficio. I confini fra due o più Comuni possono essere rettificati per ragioni topografiche o per altre comprovate esigenze locali, quando i rispettivi Podestà ne facciano domanda e ne fissino d'accordo le condizioni».
Di determinazione, rettifica e contestazione di confini parla anche il d.p.r. n. 1/1972, all'art. 1, lett. d).
La determinazione di confini si rende necessaria quando il limite tra due o più Comuni non sia definito da segni naturali che evitino qualunque incertezza in merito e si definisce apponendo i segni necessari su richiesta dei Consigli comunali; la rettifica dei confini si ha nel caso sia necessario rivedere i confini di due Comuni anche per ragioni locali inerenti, ad es., la costruzione di una infrastruttura pubblica, nel vicendevole interesse dei Comuni contermini, su richiesta dei Consigli comunali dei Comuni interessati; la contestazione di confini si riscontra quando due Comuni ritengano di avere entrambi un diritto sulla medesima parte di territorio e di conseguenza sia fondamentale, per dirimere la questione, appurare lo status quo.
La contestazione dei confini è disciplinata dall'art. 267 T.U. n. 283/1934, il quale dispone che: «i ricorsi per contestazioni di confini fra Comuni e Province sono decisi con decreto del Presidente della Repubblica, udito il Consiglio di Stato.
Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, ovvero il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica».
I ricorsi per contestazioni di confini fra Comuni e Province sono decisi con decreto del Presidente della Repubblica, udito il Consiglio di Stato.
Contro il provvedimento è ammesso il ricorso, anche in merito, al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, oppure il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e la materia è di competenza della Regione che può delegare le Province, come nel caso della Regione Lombardia (L.r. n. 52/1973) e della Regione Lazio (L.r. n. 70/1980); salvo il caso di contestazioni di confini tra Comuni appartenenti a Regioni differenti, la cui competenza è dello Stato.
6.2. Istituzione di nuovi Comuni.
Le modificazioni territoriali erano disciplinate dall'art. 11, della L. n. 142/1990, rubricato modificazioni territoriali, fusione ed istituzione di Comuni il quale disponeva a che:
«1. a norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le Circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite.
2. Le Regioni predispongono, concordandolo con i Comuni nelle apposite sedi concertative, un programma di individuazione degli ambiti per la gestione associata sovracomunale di funzioni e servizi, realizzato anche attraverso le Unioni, che può prevedere altresì la modifica di Circoscrizioni comunali e i criteri per la corresponsione di contributi e incentivi alla progressiva unificazione. Il programma è aggiornato ogni tre anni, tenendo anche conto delle Unioni costituite ai sensi dell'articolo 26.
3. La legge regionale che istituisce nuovi Comuni, mediante fusione di due o più Comuni contigui, prevede che alle comunità di origine o ad alcune di esse siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
4. Al fine di favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono.
5. Nel caso di fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, tali contributi straordinari sono calcolati per ciascun Comune. Nel caso di fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi straordinari sono calcolati soltanto per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del Comune risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi prestati nell'ambito territoriale dei Comuni soppressi, aventi popolazione inferiore a 5.000 abitanti».
Attualmente, il processo di fusione di Comuni è disciplinato dagli artt. 15 e 16, del d.lgs. n. 267/2000.
L'art. 15 del TUEL, rubricato Modifiche territoriali, fusione ed istituzione di Comuni dispone che: «a norma degli articoli 117 e 133 della Costituzione, le Regioni possono modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale. Salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite.
I Comuni che hanno dato avvio al procedimento di fusione ai sensi delle rispettive leggi regionali possono, anche prima dell'istituzione del nuovo ente, mediante approvazione di testo conforme da parte di tutti i Consigli comunali, definire lo statuto che entrerà in vigore con l'istituzione del nuovo Comune e rimarrà vigente fino alle modifiche dello stesso da parte degli organi del nuovo Comune istituito. Lo statuto del nuovo Comune dovrà prevedere che alle comunità dei Comuni oggetto della fusione siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
Al fine di favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni decorrenti dalla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono.
La denominazione delle borgate e frazioni è attribuita ai Comuni ai sensi dell'articolo 118 della Costituzione».
L'art. 15, comma 1, secondo periodo del TUEL, prevede che: «salvo i casi di fusione tra più Comuni, non possono essere istituiti nuovi Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite»; dunque è imposto il limite all'istituzione di nuovi Comuni, nel senso che non possono essere istituiti Comuni con popolazione inferiore a 10.000 abitanti o la cui costituzione comporti, come conseguenza, che altri Comuni scendano sotto tale limite.
Nel caso di fusione di Comuni non trova applicazione la soglia demografica indicata di 10.000 abitanti, proprio per favorire l'istituto della fusione in esame.
L'istituzione di nuovi Comuni può avvenire tramite:
- fusione tra due o più Comuni;
- erezione in Comune autonomo di due o più frazioni o borgate che fanno parte dello stesso Comune e che si distaccano dal Comune di origine;
- erezione in Comune autonomo di borgate o frazioni appartenenti a Comuni diversi, mediante distacco dal Comune di origine;
- fusione per incorporazione di uno o più Comuni in altro Comune contiguo.
In caso di fusione, di istituzione di nuovo Comune o quando ne ricorrono esigenze toponomastiche, storiche, culturali e turistiche che ne giustifichino il cambiamento, il Comune può mutare denominazione58.
In base alla L. n. 56/2014, art. 1, commi 109 ss. che integralmente vengono riportati infra, per il primo mandato amministrativo, agli amministratori del nuovo Comune nato dalla fusione di più Comuni cui hanno preso parte Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, si applicano le disposizioni in materia di ineleggibilità, incandidabilità, inconferibilità e incompatibilità previste dalla legge per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
In caso di fusione di uno o più Comuni, fermo restando quanto previsto dall'articolo 16 del TUEL, il Comune risultante dalla fusione adotta uno statuto che può prevedere anche forme particolari di collegamento tra il nuovo Comune e le comunità che appartenevano ai Comuni oggetto della fusione.
Al Comune istituito a seguito di fusione tra Comuni aventi ciascuno meno di 5.000 abitanti si applicano, in quanto compatibili, le norme di maggior favore, incentivazione e semplificazione previste per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti e per le Unioni di comuni.
I Comuni istituiti a seguito di fusione possono utilizzare i margini di indebitamento consentiti dalle norme vincolistiche in materia a uno o più dei Comuni originari e nei limiti degli stessi, anche nel caso in cui dall'unificazione dei bilanci non risultino ulteriori possibili spazi di indebitamento per il nuovo ente.
Il commissario nominato per la gestione del Comune derivante da fusione è coadiuvato, fino all'elezione dei nuovi organi, da un comitato consultivo composto da coloro che, alla data dell'estinzione dei Comuni, svolgevano le funzioni di Sindaco e senza maggiori oneri per la finanza pubblica. Il comitato è comunque consultato sullo schema di bilancio e sull'eventuale adozione di varianti agli strumenti urbanistici. Il commissario convoca periodicamente il comitato, anche su richiesta della maggioranza dei componenti, per informare sulle attività programmate e su quelle in corso.
Gli obblighi di esercizio associato di funzioni comunali derivanti dal comma 28, dell'articolo 14 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e successive modificazioni, si applicano ai Comuni derivanti da fusione entro i limiti stabiliti dalla legge regionale, che può fissare una diversa decorrenza o modularne i contenuti. In mancanza di diversa normativa regionale, i Comuni istituiti mediante fusione che raggiungono una popolazione pari o superiore a 3.000 abitanti, oppure a 2.000 abitanti se appartenenti o appartenuti a Comunità montane, e che devono obbligatoriamente esercitare le funzioni fondamentali dei Comuni, secondo quanto previsto dal citato comma 28 dell'articolo 14, sono esentati da tale obbligo per un mandato elettorale.
I consiglieri comunali cessati per effetto dell'estinzione del Comune derivante da fusione continuano a esercitare, fino alla nomina dei nuovi rappresentanti da parte del nuovo Comune, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti. Tutti i soggetti nominati dal Comune estinto per fusione in enti, aziende, istituzioni o altri organismi continuano a esercitare il loro mandato fino alla nomina dei successori.
Le risorse destinate, nell'anno di estinzione del Comune, alle politiche di sviluppo delle risorse umane e alla produttività del personale di cui al contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al comparto Regioni e autonomie locali del 1° aprile 1999, pubblicato nel supplemento ordinario n. 81 alla Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 1999, dei Comuni oggetto di fusione confluiscono, per l'intero importo, a decorrere dall'anno di istituzione del nuovo Comune, in un unico fondo del nuovo Comune avente medesima destinazione.
Salva diversa disposizione della legge regionale:
a) tutti gli atti normativi, i piani, i regolamenti, gli strumenti urbanistici e i bilanci dei Comuni oggetto della fusione vigenti alla data di estinzione dei Comuni restano in vigore, con riferimento agli ambiti territoriali e alla relativa popolazione dei comuni che li hanno approvati, fino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti atti del commissario o degli organi del nuovo Comune;
b) alla data di istituzione del nuovo Comune, gli organi di revisione contabile dei comuni estinti decadono. Fino alla nomina dell'organo di revisione contabile del nuovo Comune le funzioni sono svolte provvisoriamente dall'organo di revisione contabile in carica, alla data dell'estinzione, nel Comune di maggiore dimensione demografica;
c) in assenza di uno statuto provvisorio, fino alla data di entrata in vigore dello statuto e del regolamento di funzionamento del consiglio comunale del nuovo Comune si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dello statuto e del regolamento di funzionamento del Consiglio comunale del comune di maggiore dimensione demografica tra quelli estinti.
Il Comune risultante da fusione:
a) approva il bilancio di previsione, in deroga a quanto previsto dall'articolo 151, comma 1, del testo unico, entro novanta giorni dall'istituzione o dal diverso termine di proroga eventualmente previsto per l'approvazione dei bilanci e fissato con decreto del Ministro dell'Interno;
b) ai fini dell'applicazione dell'articolo 163 del testo unico, per l'individuazione degli stanziamenti dell'anno precedente assume come riferimento la sommatoria delle risorse stanziate nei bilanci definitivamente approvati dai Comuni estinti;
c) approva il rendiconto di bilancio dei Comuni estinti, se questi non hanno già provveduto, e subentra negli adempimenti relativi alle certificazioni del patto di stabilità e delle dichiarazioni fiscali.
Ai fini di cui all'articolo 37, comma 4, del testo unico, la popolazione del nuovo Comune corrisponde alla somma delle popolazioni dei Comuni estinti.
Dalla data di istituzione del nuovo Comune e fino alla scadenza naturale resta valida, nei documenti dei cittadini e delle imprese, l'indicazione della residenza con riguardo ai riferimenti dei Comuni estinti.
L'istituzione del nuovo Comune non priva i territori dei Comuni estinti dei benefìci che a essi si riferiscono, stabiliti in loro favore dall'Unione europea e dalle leggi statali. Il trasferimento della proprietà dei beni mobili e immobili dai Comuni estinti al nuovo Comune è esente da oneri fiscali.
Nel nuovo Comune istituito mediante fusione possono essere conservati distinti codici di avviamento postale dei comuni preesistenti.
I Comuni possono promuovere il procedimento di incorporazione in un Comune contermine; in tal caso il Comune incorporante conserva la propria personalità, succede in tutti i rapporti giuridici al Comune incorporato e gli organi di quest'ultimo decadono alla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Lo statuto del Comune incorporante prevede che alle comunità del Comune cessato siano assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi. A tale scopo lo statuto è integrato entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale di incorporazione. Le popolazioni interessate sono sentite ai fini dell'articolo 133 della Costituzione mediante referendum consultivo comunale, svolto secondo le discipline regionali e prima che i Consigli comunali deliberino l'avvio della procedura di richiesta alla Regione di incorporazione. Nel caso di aggregazioni di Comuni mediante incorporazione è data facoltà di modificare anche la denominazione del Comune. Con legge regionale sono definite le ulteriori modalità della procedura di fusione per incorporazione.
Le Regioni, nella definizione del patto di stabilità verticale, possono individuare idonee misure volte a incentivare le Unioni e le fusioni di Comuni, fermo restando l'obiettivo di finanza pubblica attribuito alla medesima Regione.
I Comuni risultanti da una fusione, ove istituiscano Municipi, possono mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti preesistenti alla fusione, non oltre l'ultimo esercizio finanziario del primo mandato amministrativo del nuovo Comune.
I Comuni risultanti da una fusione hanno tempo tre anni dall'istituzione del nuovo Comune per adeguarsi alla normativa vigente che prevede l'omogeneizzazione degli ambiti territoriali ottimali di gestione e la razionalizzazione della partecipazione a Consorzi, aziende e società pubbliche di gestione, salve diverse disposizioni specifiche di maggior favore.
Per l'anno 2014, è data priorità nell'accesso alle risorse di cui all'articolo 18, comma 9, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 6959, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ai progetti presentati dai Comuni istituiti per fusione nonché a quelli presentati dalle Unioni di comuni.
Infine l'art. 23-bis del d. l. 24 giugno 2014, n. 90, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari (convertito con L. n. 114/2014), concernente la materia dell'acquisizione di lavori, beni e servizi da parte dei Comuni, in vigore dal 19 agosto 2014 prevede che al comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modificazioni venga aggiunto, il seguente periodo: «per i Comuni istituiti a seguito di fusione l'obbligo di cui al primo periodo decorre dal terzo anno successivo a quello di istituzione»60.
È del tutto evidente che il nuovo Comune scaturito dalla fusione dei Comuni singolarmente esistenti, dovrà provvedere all'elezione del nuovo Sindaco e del Consiglio comunale.
Ai sensi della L. n. 570/1960, art. 8, le elezioni si compiono entro tre mesi dall'effettuazione delle operazioni prescritte dall'art. 38 della legge 7 ottobre 1947, n. 1058, oppure dal verificarsi delle condizioni di cui alla lettera b), il quale prevede che: «qualora per effetto di modificazioni intervenute nelle circoscrizioni comunali occorra procedere alla compilazione delle liste elettorali di un nuovo Comune, questo è tenuto a provvedervi, non oltre novanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto col quale è costituito, mediante stralcio dei propri iscritti dalle liste del Comune ex-capoluogo».
La procedura per giungere alla fusione tra più Comuni è lunga e complessa.
È necessario dapprima che i singoli Comuni interessati deliberino il progetto di fusione dei Comuni in un unico Comune, attraverso singole deliberazioni assunte dai rispettivi Consigli comunali, ai sensi dell'art. 42 TUEL.
Le deliberazioni assunte dai Consigli comunali costituiscono soltanto la prima tappa di un nuovo percorso, al termine del quale potrà prendere corpo l'idea della fusione intercomunale.
In seguito alle deliberazioni approvate dei singoli Consigli comunali, sarà il turno della Regione che dovrà approvare una legge regionale ad hoc che disponga l'effettiva fusione tra i Comuni.
A tal proposito la Giunta regionale trasmette all'assemblea legislativa una proposta di legge che dovrà essere sottoposta a un referendum tra la popolazione coinvolta; la mancata pronuncia favorevole sul referendum comporta la decadenza della proposta di legge.
La Regione prima dell'approvazione della legge regionale per il varo della fusione intercomunale procede all'approvazione di un provvedimento legislativo di riordino territoriale complessivo, con il quale promuove e sostiene anche finanziariamente, oltre che dal punto di vista tecnico-amministrativo i processi di fusione tra Comuni.
Il programma di riordino territoriale, in linea di larga massima, contiene:
a) gli indici generali di riferimento demografico, territoriale ed organizzativo, sulla base dei quali i Comuni possono realizzare una gestione della funzione o del servizio in modo efficiente, efficace ed economico;
b) la ricognizione degli ambiti territoriali per la gestione associata intercomunale di funzioni e servizi;
c) la determinazione dei criteri e delle modalità per la concessione dei contributi annuali e straordinari.
Al termine dell'iter previsto, il Consiglio regionale approverà la legge istitutiva del nuovo Comune, mediante la fusione dei Comuni interessati.
La legge regionale istituirà il nuovo Comune, provvedendo, altresì, alla denominazione dello stesso, alla determinazione della nuova circoscrizione comunale e del dies a quo di operatività del nuovo Comune.
La legge regionale stabilirà la sede legale del Comune, il capoluogo dello stesso e la successione nella titolarità dei beni e dei rapporti giuridici dei Comuni singoli; l'eventuale istituzione dei Municipi, quali organismi privi di personalità giuridica, aventi lo scopo di valorizzare le comunità locali; le regole concernenti la gestione del nuovo Comune fino all'elezione degli organi comunali; il regime degli atti amministrativi; le norme concernenti la mobilità del personale dei Comuni d'origine; le disposizioni riguardanti la prima elezione del Sindaco e del Consiglio comunale.
È chiaro che questo non è un percorso vincolante, nel senso che ogni Regione può darsi un proprio iter.
6.3. I Municipi forme di partecipazione e decentramento delle comunità originarie.
Nel caso sia stata concretizzata la fusione di due o più Comuni contermini, occorre provvedere alla definizione di adeguate forme di partecipazione nei confronti delle comunità d'origine ovvero nei riguardi di tutti i Comuni che sono stati soppressi oppure ad alcuni di loro.
Tali forme sono rappresentate dai Municipi che hanno fatto la comparsa nell'ordinamento degli enti locali per la prima volta con la L. n. 142/1990, art. 11, il quale disponeva che la legge regionale che avesse istituito nuovi Comuni, mediante fusione di due o più Comuni contigui, dovesse prevedere che alle comunità di origine o ad alcune di esse, fossero assicurate adeguate forme di partecipazione e di decentramento dei servizi.
Il successivo art. 12 disponeva che:
«1. la legge regionale di cui al comma 3 dell'articolo 11 può prevedere l'istituzione di municipi nei territori delle comunità di cui al comma 4 dello stesso articolo, con il compito di gestire i servizi di base nonché altre funzioni delegate dal Comune.
2. Lo statuto del Comune regola l'elezione, contestualmente al Consiglio comunale, di un prosindaco e di due consultori da parte dei cittadini residenti nel Municipio, sulla base di liste concorrenti e tra candidati ivi residenti ed eleggibili a consigliere comunale.
3. Sono eletti i candidati della lista che ottiene il, maggior numero di voti. La carica di prosindaco e di consultore è incompatibile con quella di consigliere comunale.
4. A quanto non previsto dal presente articolo provvedono lo statuto ed il regolamento comunale.
5. Si applicano agli amministratori dei Municipi le norme previste per gli amministratori dei Comuni di pari popolazione».
L'art. 6, comma 2, della L. n. 265/1999, riscriveva un nuovo art. 12, il quale stabiliva che:
«lo statuto comunale può prevedere l'istituzione di Municipi nei territori delle comunità di cui all'articolo 11, comma 3.
2. Lo statuto e il regolamento disciplinano l'organizzazione e le funzioni dei Municipi, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale diretto. Si applicano agli amministratori dei municipi le norme previste per gli amministratori dei Comuni con pari popolazione».
Riguardo alla natura giuridica dei Municipi, autorevole dottrina61 ritiene che «essi conservino […] la natura di organismi di partecipazione e di decentramento […] con l'estensione che sarà data a tali compiti dallo statuto»62 qualificazione che esclude la loro natura di enti esponenziali.
Ciò detto ne consegue che la rappresentatività e il perseguimento degli interessi generali della popolazione del Comune sono di competenza del Comune nato dal processo di fusione, mentre i Municipi gestiscono funzioni o servizi secondo le norme indicate dallo statuto .
I Municipi non hanno legittimazione processuale per la tutela degli interessi che sono stati affidati ad essi, in quanto tale tutela compete alla persona giuridica comune di cui gli stessi sono parte63; ad avviso di altra qualificata dottrina i Municipi, invece, sono enti di deconcentrazione, in quanto «espressione dello spostamento di competenze amministrative dal centro alla periferia, mediante semplice assegnazione o ripartizione di compiti, ispirata a ragioni tecniche, di opportunità, di efficienza o di altro tipo»64.
Ora il vigente TUEL, disciplinando l'istituzione dei Municipi, con l'art. 16 dispone che:
«1. Nei Comuni istituiti mediante fusione di due o più Comuni contigui lo statuto comunale può prevedere l'istituzione di municipi nei territori delle comunità di origine o di alcune di esse.
2. Lo statuto e il regolamento disciplinano l'organizzazione e le funzioni dei municipi, potendo prevedere anche organi eletti a suffragio universale diretto. Si applicano agli amministratori dei municipi le norme previste per gli amministratori dei Comuni con pari popolazione».
Di conseguenza a differenza di quanto previsto con la pregressa normativa che assegnava centralità alla legge regionale che debba essere lo statuto del Comune nato a seguito di fusione di due o più Comuni contigui a poter prevedere o meno «…l'istituzione di Municipi nei territori delle comunità di origine o di alcune di esse …»; di conseguenza l'istituzione di Municipi è atto facoltativo del Comune che dovrà porre in essere tale previsione nel proprio statuto.
Si registra in tal modo uno spostamento di competenza dalla Regione al nuovo Comune, originato dalla fusione.
L'art. 16 del d. lgs. n. 267/2000 non individua più, come era previsto nell'art. 12, della L. n. 142/1990, gli organi dei Municipi (prosindaco e due consultori scelti dai cittadini residenti nel Municipio, sulla base di liste concorrenti e tra candidati ivi residenti ed eleggibili a consigliere comunale), ma dispone che lo statuto e il regolamento possono prevedere «… anche organi eletti a suffragio universale diretto …», con il risultato che essi possono anche essere indicati dal Consiglio comunale o dal Sindaco, in base ad un'ampia autonomia statutaria e regolamentare prevista dall'ordinamento.
Lo statuto e il regolamento disciplinano anche l'organizzazione e le funzioni dei Municipi.
Il regolamento che disciplina, così come previsto dall'art. 7 del TUEL, l'organizzazione e il funzionamento degli organismi di partecipazione, è approvato dal Consiglio comunale e prevede gli organi municipali:
· Consiglio municipale;
· Giunta municipale;
· Presidente del Municipio;
· i principi programmatici del Municipio;
· le prerogative dei consiglieri municipali, ai quali, comunque, si applicano, così come dispone l'art. 16, comma 2, del TUEL, le norme previste per gli amministratori dei Comuni con pari popolazione;
· le regole per la partecipazione dei cittadini all'amministrazione municipale;
· le garanzie inerenti l'informazione e comunicazione ai cittadini riguardo l'attività del Municipio;
· i principi concernenti l'esercizio dell'iniziativa popolare;
· le regole concernenti il potere di presentazione di interrogazioni, interpellanze, ordini del giorno;
· petizioni della comunità municipale;
· di proposta di referendum;
· di istituzione di organismi di partecipazione;
. di funzionamento delle Commissioni consiliari;
· di norme concernenti i rapporti con gli organi centrali del Comune.
In particolare, l'art. 65, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, al fine di evitare di vanificare le esigenze di decentramento ed autogoverno perseguite con l'introduzione dei Municipi ed in conformità all'ormai costituzionalizzato principio di sussidiarietà, sancisce che «la carica di consigliere comunale è incompatibile con quella di consigliere di una circoscrizione del Comune».
Il TAR del Lazio (sez. II, 15 dicembre 2004, n. 162409), è del parere che in forza dell'art. 27, comma 2, dello statuto del Comune di Roma, relativamente alle attribuzioni e al funzionamento degli organi dei Municipi, per quanto non espressamente previsto dal regolamento del decentramento amministrativo e dal regolamento del Municipio, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni vigenti per gli organi del Comune.
I Municipi hanno proprie competenze; difatti i giudici del Consiglio di Stato sono dell'avviso che nel settore commerciale vi sia la «competenza dei Consigli municipali ad approvare i piani di massima occupabilità [e] la possibilità che essi possano individuare ulteriori aree di divieto di concessione di occupazione spazi e aree pubbliche […], mentre spetta solo alla Giunta comunale stabilire le aree della città che non possono costituire oggetto di concessione, il potere attribuito ai singoli Municipi di individuare la massima occupabilità delle aree rientranti nella propria circoscrizione territoriale non esclude affatto la possibilità di escludere dalla concessione di suolo pubblico permanente di specifiche zone»65.
I Municipi hanno competenza a carattere partecipativo, consultivo oppure di amministrazione attiva, significando, inoltre, che lo statuto del Comune di nuova istituzione, a seguito di processo di fusione, potrebbe creare nelle sedi municipali forme decentrate di reale erogazione dei servizi al cittadino e al sistema delle imprese, allestendo uffici pubblici decentrati, all'interno dei quali impiegare risorse umane.
6.4. L'incentivazione finanziaria statale.
Il d. m. n. 318/200066 è il regolamento attraverso cui vengono determinati i criteri di riparto dei fondi erariali destinati al finanziamento delle procedure di fusione tra i comuni e l'esercizio associato di funzioni comunali.
Ai sensi dell'art. 1, rubricato Ripartizione dei contributi complessivi, commi 2 e 3: «2. Ai Comuni derivanti da procedure di fusione, alle Unioni di comuni ed alle Comunità montane svolgenti l'esercizio associato di funzioni comunali spettano rispettivamente il 15, il 60 ed il 25 per cento del totale dei fondi erariali annualmente a ciò destinati in base alle disposizioni di legge vigenti.
3. Le risorse annualmente non utilizzate risultanti dalla partizione di cui al comma 1 possono essere utilizzate nel caso di insufficienza dei fondi per l'una o l'altra delle destinazioni previste».
L'art. 6 del suddetto d. m. n. 318/2000 prevedeva che: « 1. Ai sensi dell'articolo 11, comma 4, della legge 8 giugno 1990, n. 142, e successive modifiche ed integrazioni, ai Comuni scaturenti dalla fusione di Comuni preesistenti spetta, per un periodo di dieci anni, un contributo straordinario pari al 20 per cento dei trasferimenti erariali complessivamente attribuiti ai Comuni preesistenti per l'ultimo esercizio precedente alla istituzione del nuovo ente.
2. In caso di allargamento del nuovo ente, mediante la fusione di altri Comuni, si applica il comma 1 con riferimento ai trasferimenti attribuiti a tali Comuni.
3. Salvo quanto previsto dall'articolo 1, comma 3, in caso di insufficienza dei fondi erariali destinati al finanziamento delle fusioni di Comuni, il contributo spettante per la fusione è proporzionalmente ridotto.
4. I Comuni istituiti a seguito della fusione di Comuni inviano la richiesta di contributo entro il 30 settembre dell'anno di costituzione per la relativa attribuzione entro il 31 ottobre dello stesso anno. Il contributo è attribuito in proporzione al periodo temporale di istituzione. Ai nuovi enti che inviano la richiesta di contributo successivamente al termine del 30 settembre e non oltre il 31 dicembre dell'anno di costituzione sarà attribuito per lo stesso anno e per l'anno successivo un contributo nei limiti delle disponibilità di fondi esistenti a seguito degli avvenuti riparti.
5. Ai Comuni istituiti a seguito della fusione di comuni alla data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 265 del 1999 spetta il contributo in applicazione dei criteri stabiliti dal presente decreto».
Successivamente il d. l. n. 95/201267, art. 20, comma 5, come sostituito dall'art. 23, comma 1, lett. f-ter) del d. l. 24 giugno 2014, n. 9068, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ha disposto la soppressione delle disposizioni contenute nel presente decreto, incompatibili con i commi 1, 3 e 4 del medesimo art. 20, a decorrere dall'anno 2013.
Superato dunque il d. m. n. 318/2000, le disposizioni per favorire la fusione di Comuni e razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali, sono contenute nel d. l. n. 95/2012, art. 2069, il quale prevede che:
«1. A decorrere dall'anno 2013, il contributo straordinario ai Comuni che danno luogo alla fusione, di cui all'articolo 15, comma 3, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, è commisurato al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti.
2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano per le fusioni di Comuni realizzate negli anni 2012 e successivi.
3. Con decreto del Ministro dell'Interno di natura non regolamentare sono disciplinate modalità e termini per l'attribuzione dei contributi alla fusione dei Comuni.
4. A decorrere dall'anno 2013 sono conseguentemente soppresse le disposizioni del regolamento concernente i criteri di riparto dei fondi erariali destinati al finanziamento delle procedure di fusione tra i Comuni e l'esercizio associato di funzioni comunali, approvato con decreto del Ministro dell'interno del 1° settembre 2000, incompatibili con le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 del presente articolo».
Il d. m. 10 ottobre 201270 definisce le modalità ed i termini per il riparto dei contributi alle fusioni di Comuni realizzate negli anni 2012 e successivi e prevede che ai Comuni istituiti a seguito di fusione realizzate negli anni 2012 e successivi spetta, a decorrere dall'anno 2013 e per un periodo di dieci anni, un contributo straordinario che è commisurato al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010 ai comuni che hanno dato luogo a fusione, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti; mentre il d. m. 11 giugno 201471 definisce a decorrere dall'anno 2014 le modalità ed i termini per il riparto dei contributi spettanti ai Comuni istituiti dall'anno 2014 in conseguenza di procedure di fusione di Comuni.
In base all' art. 2 del d. m. 11 giugno 2013, rubricato Modalità di attribuzione del contributo è previsto che: «1. Ai Comuni istituiti con procedure di fusione, con decorrenza dall'anno 2014, spetta, per un periodo di dieci anni, un contributo straordinario pari al 20 per cento dei trasferimenti erariali attribuiti per l'anno 2010 ai Comuni facenti parte della fusione, nel limite degli stanziamenti finanziari previsti per legge.
2. La quantificazione del contributo, che deriva dai fondi erariali stanziati e dal numero degli enti che ogni anno ne hanno diritto, sarà assicurata nel limite massimo dei richiamati fondi. Qualora il fondo risultasse insufficiente alla copertura delle richieste pervenute, il contributo è assegnato mediante riparto del fondo stesso, secondo il criterio proporzionale.
3. Ai Comuni istituiti a seguito della fusione di Comuni è attribuito il contributo statale previsto dal comma 1, nei termini previsti dall'indicato art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 16 del 2014. A tal fine le Regioni che istituiscono Comuni a seguito di fusioni devono inviare, entro e non oltre il mese successivo al loro provvedimento, copia della legge regionale istitutiva della fusione al Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali - Direzione centrale della finanza locale Piazza del Viminale 1, 00184 Roma - Ufficio Sportello Unioni, in via ordinaria e al seguente indirizzo mail:finanzalocale.prot@pec.interno.it.
4. Nel caso di ampliamento del numero degli enti facenti parte di un Comune costituito mediante fusione, la Regione che ha adottato il provvedimento di ampliamento deve inviare, entro e non oltre il mese successivo al provvedimento, copia della legge regionale di ampliamento della fusione al Ministero dell'interno - Dipartimento per gli affari interni e territoriali - Direzione centrale della finanza locale, Piazza del Viminale 1, 00184 Roma - Ufficio Sportello Unioni in via ordinaria e all'indirizzo mail: finanzalocale.prot@pec.interno.it. L'ampliamento del numero degli enti facenti parte di un Comune nato per fusione comporta la rideterminazione del contributo straordinario attribuito originariamente a decorrere dal 1° gennaio dell'anno successivo al provvedimento regionale di ampliamento, ferma restando la decorrenza originaria del contributo straordinario attribuito al Comune fuso prima del provvedimento regionale di ampliamento».
Va ricordato che gli stanziamenti finanziari previsti, almeno a livello statale, sono attualmente pari ad euro 1.549.370 (L. n. 662/1996), oltre ai 30 milioni di euro, previsti dalla legge di stabilità per il 2014 (L. 27 dicembre 2013, n. 147) per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016 per Comuni istituiti a seguito di fusione. Nel caso di ampliamento del nuovo Ente mediante la fusione con altri Comuni, il contributo straordinario sarà rideterminato
Il Ministero dell'Interno, Direzione Centrale della Finanza Locale, in data 11 giugno 2014 ha emanato il decreto con cui ha erogato 9.535.820,44 euro, da ripartire a beneficio delle 26 fusioni di comuni realizzate, che hanno interessato ben 62 Comuni del centro e del nord del nostro Paese.
6.5. L'incentivazione finanziaria regionale.
I contributi regionali rappresentano la partecipazione finanziaria della Regione di riferimento ai processi di fusioni comunali.
La L. n. 142/1990, all'art. 11, commi 4 e 5, prevedeva che al fine di favorire la fusione di Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti anche con Comuni di popolazione superiore, oltre agli eventuali contributi della Regione, lo Stato erogasse, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono.
Nel caso di fusione di due o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, tali contributi straordinari venivano calcolati per ciascun Comune; mentre qualora c'era fusione di uno o più Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti con uno o più Comuni di popolazione superiore, i contributi straordinari venivano calcolati soltanto per i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti ed iscritti nel bilancio del Comune risultante dalla fusione, con obbligo di destinarne non meno del 70 per cento a spese riguardanti esclusivamente il territorio ed i servizi prestati nell'ambito territoriale dei Comuni soppressi, aventi popolazione inferiore a 5.000 abitanti.
Successivamente, la modificazione apportata all'art. 11, dalla L. n. 265/1999 comportò che: «al fine di favorire la fusione dei Comuni, oltre ai contributi della Regione, lo Stato eroga, per i dieci anni successivi alla fusione stessa, appositi contributi straordinari commisurati ad una quota dei trasferimenti spettanti ai singoli Comuni che si fondono».
Di conseguenza, i contributi della Regione ai Comuni che si fondevano non erano più «eventuali», come prevedeva l'originario art. 11 della L. n. 142/1990, ma «obbligatori».
Occorre, altresì, ricordare l'art. 33, comma 4 del d. lgs. n. 267/2000, il quale prevede che: «al fine di favorire il processo di riorganizzazione sovracomunale dei servizi, delle funzioni e delle strutture, le Regioni provvedono a disciplinare, con proprie leggi, nell'ambito del programma territoriale di cui al comma 3, le forme di incentivazione dell'esercizio associato delle funzioni da parte dei Comuni, con l'eventuale previsione nel proprio bilancio di un apposito fondo. A tale fine, oltre a quanto stabilito dal comma 3 e dagli articoli 30 e 32, le Regioni si attengono ai seguenti principi fondamentali:
a) nella disciplina delle incentivazioni:
1) favoriscono il massimo grado di integrazione tra i Comuni, graduando la corresponsione dei benefici in relazione al livello di unificazione, rilevato mediante specifici indicatori con riferimento alla tipologia ed alle caratteristiche delle funzioni e dei servizi associati o trasferiti in modo tale da erogare il massimo dei contributi nelle ipotesi di massima integrazione;
2) prevedono in ogni caso una maggiorazione dei contributi nelle ipotesi di fusione e di Unione, rispetto alle altre forme di gestione sovracomunale;
b) promuovono le Unioni di comuni, senza alcun vincolo alla successiva fusione, prevedendo comunque ulteriori benefici da corrispondere alle Unioni che autonomamente deliberino, su conforme proposta dei Consigli comunali interessati, di procedere alla fusione».
Dall'inizio del 2014 sono stati istituiti 24 nuovi Comuni a seguito di fusioni di territorio che hanno portato alla soppressione di un totale di 57 Comuni.
Le Regioni interessate a processi di fusione di Comuni nel 2014 sono state finora72:
- Emilia-Romagna (4);
- Friuli-Venezia Giulia (1);
- Lombardia (9);
- Marche (2);
- Toscana (7);
- Veneto (1).
Assumendo ora come esempio la Regione Puglia, si può vedere che essa si è dotata, ultima in ordine di tempo, della l. r. n. 34/201473 sulla disciplina dell'esercizio associato delle funzioni Comunali.
In base all'art. 2, la Regione Puglia promuove il massimo grado di integrazione tra i Comuni, incentiva la fusione di Comuni, lo sviluppo delle Unioni di comuni e le Convenzioni, al fine di assicurare l'effettivo e più efficiente esercizio delle funzioni e dei servizi loro spettanti.
La fusione di Comuni è disciplinata dall'art. 6, il quale, riportato integralmente infra, prevede che:
«1. Ai sensi dell'articolo 4 della legge regionale 20 dicembre 1973, n. 26 (Norme in materia di circoscrizioni comunali), i Comuni possono essere riuniti tra loro e uno o più Comuni possono essere aggregati a un altro Comune, quando i rispettivi Consigli comunali ne facciano domanda e ne fissino in accordo tra loro le condizioni; la Regione, prima di adottare il relativo provvedimento costitutivo ha l'obbligo di sentire le popolazioni interessate mediante consultazione elettorale.
2. Ai sensi del comma 2 dell'articolo 133 della Costituzione, la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare la propria circoscrizione e denominazioni.
3. Ai sensi del comma 1 dell'articolo 15 del d.lgs. 267/2000, la Regione può modificare le circoscrizioni territoriali dei Comuni sentite le popolazioni interessate, nelle forme previste dalla legge regionale.
4. Su richiesta dei Comuni interessati alla fusione, che può avvenire anche per incorporazione, deliberata dai rispettivi Consigli comunali, la Giunta regionale presenta un disegno di legge per l'istituzione del nuovo Comune.
5. Il progetto di legge regionale deve comprendere opportunamente:
a) la descrizione dei confini dell'istituendo Comune e di tutti i comuni interessati;
b) la cartografia in scala 1:10.000, o superiore, relativa ai suddetti confini;
c) le indicazioni di natura demografica e socio-economica relative sia alla nuova realtà territoriale che agli enti locali coinvolti, nonché del loro stato patrimoniale a supporto dell'istituzione di un nuovo Comune;
d) gli elementi finanziari significativi tratti dall'ultimo bilancio preventivo e consuntivo approvato dai Comuni interessati;
e) una proposta di riorganizzazione e gestione dei servizi sul territorio interessato, che ne evidenzi i vantaggi;
f) le deliberazioni dei Consigli comunali.
6. La Commissione consiliare regionale competente, constatata la completezza e correttezza della documentazione di cui al comma 5, esprime il proprio parere in merito all'indizione del referendum consultivo, ovvero in merito alla possibilità di assumere i referendum eventualmente già effettuati dai Comuni interessati ai sensi del d.lgs. n. 267/2000, secondo le norme dei rispettivi statuti e regolamenti e rispondenti al dettato dell'articolo 133, ultimo comma, della Costituzione.
7. Il parere della commissione consiliare regionale è quindi trasmesso al Consiglio regionale per il suo esame finalizzato all'indizione del referendum, ovvero della presa d'atto della deliberazione, ovvero della delibera che fa propri i risultati dei referendum effettuati dai Comuni.
8. Acquisiti i risultati del referendum, la commissione consiliare regionale, entro sessanta giorni dalla data di proclamazione dei risultati del referendum, esprime il proprio parere in merito al progetto di legge e lo invia al Consiglio regionale.
9. Il Comune di nuova istituzione o il Comune la cui circoscrizione risulta ampliata subentra nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi che attengono al territorio e alle popolazioni sottratte al Comune o ai Comuni di origine.
10. Al Comune di nuova istituzione vanno trasferite le risorse strumentali, finanziare e umane da parte dei Comuni originari, ferme restando, per il personale, le posizioni economiche e giuridiche già acquisite».
Con riguardo all'incentivazione all'esercizio associato di funzioni e servizi comunali, l'art. 11 prevede che nella ripartizione delle risorse disponibili, la Giunta regionale tiene conto, nell'ordine, dei seguenti criteri di preferenza:
a) fusioni di Comuni;
b) Unioni di comuni;
c) Convenzioni.
I contributi finanziari correnti destinati a fusioni di Comuni e Unioni di comuni avranno i limiti temporali di durata stabiliti dalla Giunta regionale, tenendo conto delle richieste pervenute da parte dei Comuni.
I contributi correnti, entro i limiti della dotazione annua di bilancio, sono assegnati in misura massima pari a euro 5 mila annui per ogni funzione comunale trasferita alla forma associativa, fino al limite massimo di euro 60 mila annui e in base al numero di Comuni partecipanti alla medesima, pari a euro 4 mila annui per ogni partecipante alla forma associativa.
Tali contributi correnti vengono moltiplicati per 1,20 se l'esercizio associato avviene attraverso Unioni di comuni e per 2,00 nel caso di fusione o incorporazione di Comuni.
I contributi da assegnare che vengono concessi annualmente, sono rideterminati ogni cinque anni o allorquando si determina una variazione del numero di Comuni che costituiscono l'Unione.
La Regione Puglia concede, altresì, incentivi finanziari a concorso delle spese per l'elaborazione di progetti di riorganizzazione territoriale.
La dotazione finanziaria complessiva messa a disposizione della Regione Puglia a sostegno delle forme associative comunali e delle fusioni di Comuni, ammonta a euro 800.000,00 per gli esercizi finanziari a partire dal 2015.
In base alla clausola valutativa di cui all'art. 21 della l. r. n. 34/2014: «1. Annualmente, dopo il primo anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale trasmette al Consiglio regionale una relazione contenente:
a) il quadro dei finanziamenti erogati in base alle richieste pervenute, suddivisi per tipologia della forma associativa;
b) il numero delle costituzioni associative successive alla data di entrata in vigore della presente legge, con descrizione delle forme prescelte;
c) la descrizione dei progetti richiesti e presentati per lo sviluppo e l'ottimizzazione delle gestioni associate;
d) le variazioni delle forme associative intervenute successivamente all'erogazione dei contributi;
e) il numero dei corsi di formazione organizzati sia autonomamente, sia in collaborazione con le autonomie locali e i loro organismi di rappresentanza».
In tal modo la Regione potrà avere un quadro complessivamente più preciso delle forme associative e delle modificazioni territoriali comunali in corso e calibrare meglio le risorse finanziarie da mettere a disposizione anche delle fusioni di Comuni che si intendono realizzare in Puglia.
6.6 Lo studio di fattibilità del processo di fusione.
Lo studio di fattibilità rappresenta un documento prodromico al processo di fusione di Comuni che consente agli enti ad esso interessati di poter analizzare i punti di forza dell'idea istitutiva di un nuovo ente locale o di quella che può consentire l'incorporazione di un complesso di Comuni all'interno di un solo Comune.
Esso non può essere considerato strumento perfetto, ma mezzo di supporto ad un'idea innovativa come è quella della fusione, offrendo agli stakeholder una base di confronto e concertazione basata su informazioni, dati oggettivi acquisiti.
In sostanza senza un adeguato studio di fattibilità non è possibile procedere correttamente nel verso desiderato, poiché così facendo si assumerebbero decisioni errate, mancando quest'ultime di ogni base scientifica, su cui poter effettuare le necessarie valutazioni di merito.
Lo studio di fattibilità serve a ricostruire il quadro conoscitivo degli elementi economico-finanziari di partenza dei Comuni interessati, dei servizi erogati, in modo da evidenziare eventuali criticità del modello organizzato precedente, rispetto a quello successivo che s'intende conseguire del quale vanno analizzati i punti di forza e di debolezza che possono ostacolare il conseguimento dell'obiettivo finale della fusione di Comuni.
Un aspetto rilevante dello studio di fattibilità inerisce al coinvolgimento delle strutture comunali interessati e dei cittadini dei Comuni coinvolti dal processo di fusione.
Molte sono, infatti, le variabili che influenzano questo percorso:
- le dimensioni dei Comuni coinvolti;
- la maggiore o minore omogeneità dimensionale tra gli stessi;
- l'abitudine o la predisposizione a collaborare e il livello di fiducia reciproca;
- le caratteristiche socio-economiche del territorio;
- le specifiche problematiche dei singoli Comuni o dei servizi e delle funzioni amministrative che attualmente sono gestiti in forma associata;
- il grado di accordo tra gli amministratori nel raggiungere questo obiettivo.
Un secondo aspetto generale concerne la gestione dei fattori di resistenza alla fusione.
Essi possono riguardare:
- la mancata percezione dei vantaggi che si vogliono ottenere;
- la necessità di modificare le competenze tipiche delle dirigenze e dei funzionari;
- la preoccupazione di perdere alcune leve di azione sul proprio territorio;
- il timore della perdita di identità delle singole municipalità.
In definitiva lo studio di fattibilità è uno strumento conoscitivo utile a supportare le valutazioni relative all'opportunità di adottare scelte di tipo associativo o di ampliare l'ambito di operatività; in base ai contenuti dello studio di fattibilità sarà possibile compiere una prima verifica tecnica di realizzabilità dal punto di vista organizzativo e gestionale, oltre che istituzionale.
Le dimensioni di indagine ed analisi riguardano:
- l'indagine demografica e socio economica;
- le caratteristiche territoriali;
- i servizi gestiti in forma associata;
- l'analisi dello scenario normativo;
- la formulazione proposta di azioni di comunicazione coordinate.
La Regione Emilia Romagna con deliberazione della Giunta regionale, n. 544/2014 ha approvato i Contenuti minimi degli studi di fattibilità, ai sensi della l. r. 21 dicembre 2012 n. 21, Misure per assicurare il governo territoriale delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza e con l'art. 27 della medesima legge, al fine di favorire il riordino territoriale e la razionalizzazione delle forme di gestione associata o la fusione di Comuni, impegna la Regione a fornire assistenza tecnica per l'impostazione delle questioni istituzionali e l'elaborazione dei relativi atti e ad erogare agli enti locali che abbiano specificamente deliberato in proposito contributi destinati a concorrere alle spese sostenute per l'elaborazione di progetti di riorganizzazione sovracomunale delle strutture, dei servizi e delle funzioni.
L'art. 27 della l. r. 21 dicembre 2012 n. 21, al fine di favorire il riordino territoriale e la razionalizzazione delle forme di gestione associata previste dalla presente legge o la fusione di Comuni, impegna la Regione a fornire assistenza tecnica per l'impostazione delle questioni istituzionali e l'elaborazione dei relativi atti e ad erogare agli enti locali che abbiano specificamente deliberato in proposito contributi destinati a concorrere alle spese sostenute per l'elaborazione di progetti di riorganizzazione sovracomunale delle strutture, dei servizi e delle funzioni tecnica per l'impostazione delle questioni istituzionali e l'elaborazione dei relativi atti e ad erogare agli enti locali che abbiano specificamente deliberato in proposito contributi destinati a concorrere alle spese sostenute per l'elaborazione di progetti di riorganizzazione sovracomunale delle strutture, dei servizi e delle funzioni.
Sempre l'art. 27 della l. r. n. 21/2012 riconosce alle forme associative, che operino a norma delle prescrizioni della stessa o allo scopo di adeguarsi ad essa, la possibilità di accedere a contributi per il conferimento di incarichi professionali esterni per la predisposizione di progetti di riorganizzazione sovracomunale, affidati a società o soggetti detentori di partita IVA, con esclusione di ogni forma di collaborazione in condizione di subordinazione.
I progetti di riorganizzazione devono necessariamente contenere, a pena di inammissibilità, l'individuazione delle modalità organizzative per le funzioni e dei servizi pubblici locali che sarebbero esercitati nel Comune unificato, con indicazione dei potenziali effetti (vantaggi/svantaggi) derivanti dalla fusione;
la predisposizione di schemi degli atti fondamentali del Comune unificato;
la proposta dell'assetto organizzativo del Comune unificato.
Riguardo alla misura del contributo regionale, sono ammesse a contributo le spese relative ai soli costi esterni, al lordo dell'I.V.A. di cui al preventivo per il progetto.
La quota di contributo regionale coprirà il 70 per cento della spesa ammessa e non potrà superare le seguenti somme che per la fusione di Comuni sono:
Tipologia/Numero
di Comuni
2
Comuni
Fino a 3
Comuni
4-6
Comuni
7-9
Comuni
Oltre 9
Comuni
Fusione
10.400
12.400
15.500
20.900
25.900
Il Responsabile del procedimento effettua l'istruttoria delle domande; terminata la fase istruttoria, verrà predisposta la graduatoria delle domande ammesse a contributo.
È però del tutto evidente che in generale il livello d'approfondimento degli ambiti indagati dallo studio di fattibilità va visto come funzione della finalità generale dello studio da compiere, dalle specificità del contesto organizzativo di riferimento e debbono contenere ogni utile informazione finalizzata all'analisi dei possibili e alternativi percorsi da compiere da parte degli enti locali interessati al processo di fusione di Comuni.
6.7. La centrale di committenza e la fusione di comuni.
In attuazione delle Direttive comunitarie 2004/18, art. 11 e 2004/17, art. 29, l'art. 3 comma 34 del d. lgs. n. 163/200674 prevede che per «centrale di committenza» deve intendersi un'amministrazione aggiudicatrice che «acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori».
La relativa disciplina è recata dall'articolo 33 del codice dei contratti pubblici, il quale prevede che le stazioni appaltanti e gli enti aggiudicatori possono acquisire lavori, servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza, anche associandosi o consorziandosi.
L'art. 33, comma 3-bis del d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che:
«3. Le amministrazioni aggiudicatrici e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b), c), f), non possono affidare a soggetti pubblici o privati l'espletamento delle funzioni e delle attività di stazione appaltante di lavori pubblici. Tuttavia le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare le funzioni di stazione appaltante di lavori pubblici ai servizi integrati infrastrutture e trasporti (SIIT) o alle amministrazioni provinciali, sulla base di apposito disciplinare che prevede altresì il rimborso dei costi sostenuti dagli stessi per le attività espletate, nonché a centrali di committenza.
3-bis. I Comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle Unioni dei comuni di cui all'articolo 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i Comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle Province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle Province, ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento. L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture non rilascia il codice identificativo gara (CIG) ai Comuni non capoluogo di provincia che procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti previsti dal presente comma».
Ai sensi dell'art. 3, comma 25 del Codice dei contratti pubblici sono considerate amministrazioni aggiudicatrici
- le amministrazioni dello Stato;
- gli enti pubblici territoriali;
- gli altri enti pubblici non economici;
- gli organismi di diritto pubblico;
- le associazioni, Unioni, Consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.
In base all'art. 3, comma 34, la «centrale di committenza» è un'amministrazione aggiudicatrice che:
acquista forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori, o aggiudica appalti pubblici o conclude accordi quadro di lavori, forniture o servizi destinati ad amministrazioni aggiudicatrici o altri enti aggiudicatori.
Riguardo all'entrata in vigore della centrale di committenza si evidenzia che:
- inizialmente l'applicazione della norma era riferita alle gare bandite dal 1° aprile 2012 (art. 23, comma 5, d. l. n. 201/2011);
- l'entrata in vigore è stata poi posticipata di un anno dall'art. 29, comma 11-ter del d. l. 29 dicembre 2011, n. 216;
- la L. 10 gennaio 2013, n. 1 della Regione Sardegna ha rinviato al 1° gennaio 2014 l'obbligo di acquistare tramite centrale di committenza per i Comuni fino a 5.000 abitanti
- la L. 24 giugno 2013, n. 71 (Disposizioni emergenziali in materia di Expo 2015, rifiuti ed eventi sismici) ha rinviato al 1° gennaio 2014 l'obbligo di acquistare tramite centrale di committenza per i Comuni fino a 5.000 abitanti.
Dunque i Comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti devono accentrare le procedure di evidenza pubblica secondo lo schema della «Stazione unica appaltante».
Se al 31 dicembre 2014 risulta costituita una Unione di Comuni si ritiene che l'obbligo di costituzione della centrale di committenza gravi sull'Unione stessa; se al 31 dicembre 2014 non risulta essere stata costituita un'Unione di Comuni, quest'ultimi stipulano tra loro un'apposita Convenzione avvalendosi dei competenti uffici.
Ai sensi dell'art. 32, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000: «L'Unione di comuni è l'ente locale costituito da due o più Comuni, di norma contermini, finalizzato all'esercizio associato di funzioni e servizi»; mentre ai sensi del comma 4 dell'art. 32 «L'Unione ha autonomia statutaria e potestà regolamentare e ad essa si applicano, in quanto compatibili, i principi previsti per l'ordinamento dei Comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all'ordinamento finanziario e contabile, al personale e all'organizzazione».
Dunque l'Unione di comuni è un ente locale dotato di propria personalità giuridica75ed è un'amministrazione aggiudicatrice, in base all'art. 3, comma 25 del Codice dei contratti pubblici di cui supra.
Qualora i Comuni abbiano dato vita ad un'Unione di Comuni sarà quest'ultima a dover costituire la Centrale di committenza; successivamente saranno poi i Comuni a stipulare con l'Unione dei Comuni una Convenzione con cui le delegano poteri, funzioni e competenze, in base all'art. 32, comma 2 del TUEL, il quale prevede che: «Le Unioni di comuni possono stipulare apposite convenzioni tra loro o con singoli Comuni».
Relativamente ai rapporti tra i singoli Comuni e la centrale di committenza si avrà che alla stazione appaltante centralizzata spetta la fase che va dal bando all'aggiudicazione definitiva della gara; mentre rimane di competenza degli enti locali la fase a monte della programmazione e della scelta discrezionale dei lavori, dei servizi e delle forniture da acquisire; la fase a valle della stipulazione del contratto (fatta salva la delega anche di questa fase) la fase dell'esecuzione del contratto.
L‘obbligo della Centrale unica di committenza per i Comuni non capoluogo di provincia è stato prorogato dal decreto p.a. (il decreto-legge n. 90/2014, ora legge 114/2014) al 1° gennaio 2015 (per beni e servizi) e 1° luglio 2015 (per lavori); da tali date, dunque, i Comuni non capoluogo di provincia dovranno procedere all'acquisizione di beni e servizi in modo centralizzato, attraverso Unioni di comuni o consorzi, o ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle Province.
Tutto ciò detto, l'art. 33, comma 3-bis del d. lgs. n. 163/2006, ultimo periodo, prevede che: «Per i Comuni istituiti a seguito di fusione l'obbligo di cui al primo periodo decorre dal terzo anno successivo a quello di istituzione».
Ci si è soffermati sulla complessa vicenda della centrale di committenza, perché essa ha a che fare anche con la fusione di comuni.
Ciò significa che l'obbligo di acquisizione di lavori, beni e servizi attraverso centrale di committenza, per i Comuni istituiti a seguito di processo di fusione è differito nel tempo ovvero al terzo anno successivo a quello della fusione, consentendo così al nuovo Comune di avere un ulteriore lasso di tempo per organizzarsi in merito alla centralizzazione dei processi di acquisizione di beni, servizi e lavori.
6.8. La fusione di comuni nella legge di stabilità 2015.
Il 30 novembre la Camera dei Deputati ha concluso i propri lavori sul disegno di legge di stabilità 2015, che è ora all'esame del Senato (A.S.698).
Quella del 2015 è una legge di stabilità improntata al contenimento della spesa pubblica per gli anni 2015-2018, alla quale concorrono le misure riguardanti il comparto Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni (patto di stabilità interno).
Le misure di interesse per le autonomie locali territoriali sono volte, da un lato alla definizione del concorso finanziario del comparto Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni al contenimento della spesa pubblica per gli anni 2015-2018 e successivi, dall'altro alla ridefinizione delle regole del patto di stabilità interno, ai fini della realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica.
Il Patto di Stabilità Interno (PSI) nasce dall'esigenza di convergenza delle economie degli Stati membri della U.E. verso specifici parametri, comuni a tutti, e condivisi a livello europeo in seno al Patto di stabilità e crescita e specificamente nel trattato di Maastricht (Indebitamento netto della Pubblica Amministrazione/P.I.L. inferiore al 3% e rapporto Debito pubblico delle AA.PP./P.I.L. convergente verso il 60%).
Il Patto di Stabilità e Crescita ha fissato dunque i confini in termini di programmazione, risultati e azioni di risanamento all'interno dei quali i Paesi membri possono muoversi autonomamente.
Dal 1999 ad oggi l'Italia ha formulato il proprio Patto di stabilità interno esprimendo gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno in modi differenti, alternando principalmente diverse configurazioni di saldi finanziari a misure sulla spesa per poi tornare agli stessi saldi.
Il patto di stabilità interno per gli enti locali è attualmente disciplinato dall'articolo 31 della legge 12 novembre 2011, n. 183, come successivamente modificato ed integrato dall'articolo 1, commi 428-447, della legge di stabilità per il 2013 (legge n. 228/2012).
Per quanto concerne l'ambito soggettivo di applicazione, negli anni dal 2009 al 2012 sono stati assoggettati alle regole del patto le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti.
A partire dal 2013 è prevista l'estensione dei vincoli del patto ad una platea più ampia di enti, quali:
- i Comuni con popolazione compresa tra 1.001 e 5.000 abitanti, ai sensi dell'articolo 31, comma 1, della legge n. 183/2011;
- le aziende speciali e le istituzioni, ai sensi dell'articolo 25, comma 2, del d. l. 24 gennaio 2012, n. 1, ad eccezione di quelle che gestiscono servizi socio-assistenziali ed educativi, culturali e delle farmacie;
- gli enti locali commissariati per fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso, ai sensi dell'articolo 1, comma 436, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, finora sostanzialmente esclusi dalla disciplina, in quanto per essi l'applicazione del patto era rinviata a partire dall'anno successivo a quello della rielezione degli organi istituzionali.
Dal 2014, sono assoggettate alle regole del patto anche le Unioni di comuni formate dagli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti (in applicazione dell'articolo 16, comma 1, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138), secondo le regole previste per i comuni aventi corrispondente popolazione.
L'obiettivo del patto di stabilità per gli enti locali consiste nel raggiungimento di uno specifico obiettivo di saldo finanziario - calcolato quale differenza tra entrate e spese finali, comprese dunque le spese in conto capitale, con l'eccezione di alcune voci - espresso in termini di competenza mista (criterio contabile che considera le entrate e le spese in termini di competenza, per la parte corrente, e in termini di cassa per la parte degli investimenti, al fine di rendere l'obiettivo del patto di stabilità interno più coerente con quello del Patto europeo di stabilità e crescita).
Per gli enti che non rispettano gli obiettivi del patto di stabilità è previsto76:
- il taglio delle risorse del fondo sperimentale di riequilibrio o del fondo perequativo degli enti locali, in misura pari alla differenza tra il risultato registrato e l'obiettivo programmatico predeterminato (per i Comuni, a seguito della soppressione del Fondo sperimentale di riequilibrio comunale, ai sensi dell'articolo 1, comma 380, della legge n. 228/2012;
- la riduzione delle risorse deve intendersi riferita al Fondo di solidarietà comunale); ovvero, per le regioni, il versamento all'entrata del bilancio dello Stato dell'importo corrispondente allo scostamento tra il risultato e l'obiettivo prefissato.
Si ricorda che, fino all'anno 2011, era fissato un limite massimo alla riduzione delle risorse, pari ad un importo comunque non superiore al 5 per cento (poi abbassata al 3 per cento dal d. l. n. 149/2011) delle entrate correnti registrate nell'ultimo consuntivo;
- il divieto di impegnare spese di parte corrente in misura superiore all'importo annuale medio degli impegni effettuati nell'ultimo triennio;
- il divieto di ricorrere all'indebitamento per finanziare gli investimenti;
- il divieto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo;
- la riduzione del 30% delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza degli amministratori. Tale misura sanzionatoria è stata introdotta per la prima volta dalla legge di stabilità per il 2011 (articolo 1, comma 120, L. n. 220/2010).
La legge di stabilità 2015, riguardo al patto di stabilità, prevede che gli enti locali ovvero Province, Città metropolitane e Comuni, concorrono al contenimento della spesa pubblica attraverso una riduzione della loro spesa corrente, nell'importo complessivo di 2.200 milioni per il 2015, 3.200 milioni per il 2016 e 4.200 milioni a decorrere dall'anno 2017.
Nel corso dell'esame in sede referente, è stata soppressa la previsione secondo la quale il concorso alla finanza pubblica richiesto ai Comuni debba essere realizzato esclusivamente attraverso una riduzione delle spese correnti, conseguendone, dunque, che tale concorso possa realizzarsi operando anche sulla spesa in conto capitale.
Sono poi previste (articolo 2, commi 185-195) alcune modifiche alla disciplina del patto di stabilità interno per gli enti locali, valevole per le Province e i Comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, con particolare riferimento all'aggiornamento della base di calcolo e dei coefficienti annuali per la determinazione dei saldi obiettivo per gli anni 2015-2018.
L'alleggerimento del patto di stabilità per gli enti locali si sostanzia, in riferimento al testo iniziale del provvedimento, in 1 miliardo di euro annui, importo che sembrerebbe risultare sostanzialmente confermato anche a seguito dell'esame in Commissione.
Mentre la L. 12 novembre 2011 n. 183, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. (Legge di stabilità 2012), art. 31, comma 23, disponeva che: «Gli enti locali istituiti a decorrere dall'anno 2011 sono soggetti alle regole del patto di stabilità interno dal terzo anno successivo a quello della loro istituzione assumendo, quale base di calcolo su cui applicare le regole, le risultanze dell'anno successivo all'istituzione medesima», ora la legge di stabilità 2015, all'art. 2, comma 194, aggiunge al comma 23 dell'articolo 31 della legge 12 novembre 2011, n. 183, e successive modificazioni, il seguente periodo: «I Comuni istituiti a seguito di fusione a decorrere dall'anno 2011 sono soggetti alle regole del patto di stabilità interno dal quinto anno successivo a quello della loro istituzione, assumendo quale base di calcolo le risultanze dell'ultimo triennio disponibile».
Riguardo alla materia della spesa per il personale degli enti locali, il comma 557 dell'articolo unico della legge n. 296/2006 aveva previsto l'obbligo a carico degli enti locali di assicurare «la riduzione delle spese di personale […] garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale […] con azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia...rivolte...ai seguenti ambiti: a) riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti […]; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative […]; c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa ]…]»
Successivamente, l'obbligo di riduzione della spesa di personale recato dal comma 557 è stato gradualmente affiancato da ulteriori norme di legge, le quali hanno introdotto limiti sempre più specifici, alle facoltà assunzionali e di spesa degli enti locali: limiti al turn over – bloccato al 40% - e limiti all'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente – che deve essere non superiore al 50%77; limiti sulle spese per contratti flessibili – da ridurre del 50% rispetto al 2009 - limiti alla contrattazione decentrata e al trattamento economico dei dipendenti – bloccati al 201078.
Oggi, invece, sul versante dell'occupabilità delle risorse umane necessarie, l'altra novità per i Comuni istituiti a seguito di fusione riviene dalla legge di stabilità 2015 ed è prevista dall'art. 2, Misure di razionalizzazione e riduzione della spesa e disposizioni in materia di enti territoriali, comma 159, il quale stabilisce che: «Al fine di promuovere la razionalizzazione e il contenimento della spesa degli enti locali attraverso processi di aggregazione e di gestione associata: ai Comuni istituiti a seguito di fusione che abbiano un rapporto tra spesa di personale e spesa corrente inferiore al 30 per cento, fermi restando il divieto di superamento della somma delle spese di personale sostenute dai singoli enti nell'anno precedente alla fusione e il rispetto del limite di spesa complessivo definito a legislazione vigente e comunque nella salvaguardia degli equilibri di bilancio, non si applicano, nei primi cinque anni dalla fusione, specifici vincoli e limitazioni relativi alle facoltà assunzionali e ai rapporti di lavoro a tempo determinato».
Come si vede, nonostante la presenza di scelte politiche che vanno nella direzione della riduzione della spesa pubblica, il Parlamento è dell'avviso che vada rafforzata la strada che conduce alla fusione di Comuni, ritenuta una via privilegiata della riqualificazione della spesa degli enti locali territoriali, attraverso il conseguimento di economie di scala possibili a seguito della scomparsa, con un processo democratico, delle piccole entità locali, delle quali non è più possibile ormai farsi carico a livello singolo.
6.8. Valutazioni conclusive.
La situazione di estrema difficoltà del nostro Paese e dell'intero sistema delle autonomie locali, in uno con la più recente normativa in tema di enti locali, obbliga gli amministratori a lavorare in modo efficiente, al fine di consentire a decorrere dal 1° gennaio 2015 ai Comuni fino a 5.000 abitanti, di svolgere in forma associata, attraverso Unione o Convenzione, le funzioni comunali fondamentali.
L'Unione di comuni, disciplinata dall'art. 32 del TUEL, meglio della Convenzione prevista dall'art. 30 del TUEL, rappresenta per il legislatore un soggetto giuridico assai stabile e può essere considerata l'istituzione tramite la quale i Comuni possono erogare servizi ai cittadini in forma più efficiente, efficace ed economica, rispetto al modo tradizionale di fornire servizi alla comunità locale di riferimento.
Se questo è vero, è allora il caso di porci di fronte ad un altro strumento istituzionale ancor più idoneo dell'Unione di comuni che può permettere ai singoli Comuni di poter fare ulteriori passi in avanti sul tema dell'efficienza, efficacia ed economicità dei servizi offerti ai cittadini ovvero la fusione di Comuni.
La fusione di Comuni è un'istituzione che è presente anche in diversi Paesi europei, dunque non solo in Italia e consente il raggiungimento di economie di scala nella gestione complessiva di un Comune che ormai in numerosi casi non appare più nelle condizioni economico-finanziarie di poter svolgere adeguatamente il proprio ruolo di soggetto che organizza il proprio territorio con logiche aziendali.
Basti pensare alla notevole riduzione dei cc.dd. costi della politica che comporta la fusione di Comuni, per orientarsi a lavorare sul versante del superamento del Comune inteso come monade; come ente che ritenendosi autosufficiente, rifugge da logiche che impongono il superamento dell'obsoleto modello organizzativo vigente nella stragrande parte dei Comuni italiani.
Uno degli elementi di freno alla fusione di Comuni è dato dalla presunta perdita d'identità dei Comuni investiti da tale processo; fatto che spinge molti amministratori a schierarsi sul versante del no alla fusione di comuni.
L'identità della singola comunità interessata alla fusione, però, non viene meno con la fusione di Comuni, poiché la legislazione in atto, consente attraverso i Municipi, da un lato l'erogazione dei medesimi livelli dei servizi territoriali e dall'altro di mantenere comunque vive le specificità territoriali insite in ogni singolo Comune interessato dal processo di fusione.
Centrale nella fusione, oltre alla volontà dell'ente comunale e della Regione, è la determinazione dei cittadini interessati a tale processo che vanno coinvolti in ogni sua fase e che sono chiamati ad esprimere il loro consenso o meno sul progetto di fusione, attraverso consultazione referendaria, proprio a significare che la fusione di comuni, costituendo una situazione irreversibile rispetto allo status quo del Comune singolarmente inteso, abbisogna di decisioni largamente democratiche e condivise da parte della maggioranza dei cittadini.
Il processo di fusione di Comuni è incentivato finanziariamente, tanto da parte dello Stato che della Regione di riferimento; quest'ultima può erogare contributi anche per lo studio di fattibilità del processo di fusine comunale, strumento che può essere ritenuto come una sorta di piedistallo su cui si poggia la complessa operazione di riordino territoriale dei nostri Comuni.
La fusione di Comuni consente da un lato la riduzione numerica dei Comuni del nostro Paese, dall'altro permette, proprio a causa dell'aumento della propria base demografica, di istituire Comuni dotati di maggior peso politico, grazie anche alla maggiore dimensione del Comune fuso rispetto a quelli che ad esso hanno dato vita.
L'auspicio è che gli organi di indirizzo e di governo dei Comuni e i cittadini tutti comprendano fino in fondo l'utilità o addirittura la necessità di utilizzare in maniera ottimale lo strumento della fusione di comuni attraverso processi di autodeterminazione territoriale; prima che la preoccupante situazione economico-finanziaria del nostro Paese giustifichi la scelta politica di governo e Palamento di dare il via a sconvenienti processi d'accorpamento comunale top-down, cioè calato dall'alto, coattivo, non condiviso e magari anche in assenza degli incentivi finanziari che il processo di fusione comunale, volontariamente portato avanti dai Comuni interessati, può ottenere oggi in base alla vigente legislazione.
Solo a titolo di esempio il 1° gennaio 2014 è stato istituito il Comune di Valsamoggia, in provincia di Bologna, mediante la fusione dei Comuni contigui di Bazzano, Castello di Serravalle, Crespellano, Monteveglio e Savigno, per un totale di 31.000 abitanti.
Lo ha sancito la Legge Regionale n. 1 del 7 febbraio 2013, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Emilia-Romagna n. 27.
«Il nuovo Comune avrà a disposizione quasi venti milioni di investimenti straordinari da parte della Regione e dello Stato per i primi 15 anni di vita e per i primi due anni di vita sarà esente dai limiti del patto di stabilità»79.
«La nascita del Comune Unico porta interessanti vantaggi sul piano del bilancio. Al momento rimane impossibile realizzare una vera simulazione di bilancio a causa del susseguirsi delle manovre finanziarie […] ciò nonostante, è possibile fare considerazioni generali e proiezioni attendibili nelle quali è evidente che incentivi e i benefici si sommano ai risparmi di gestione andando a costituire un significativo guadagno di almeno il 10% rispetto allo scenario attuale […] si tratta di risorse estremamente preziose in una fase economica come quella in corso, un potenziale che se gestito con lungimiranza andrà a costituire una componente essenziale delle strategie di investimento per il futuro della vallata»80.
Dal processo di fusione i Comuni si attendono il miglioramento dei servizi ai cittadini; l'ottimizzazione della gestione; il miglioramento organizzativo; lo sviluppo del territorio; la semplificazione del quadro istituzionale; la diminuzione dei “costi della politica.
Di contro vi sono numerosi ostacoli alla fusione di comuni che occorre superare: difficoltà delle persone a riconoscersi in comunità più ampie (campanilismo); preoccupazione dei rappresentanti politici di perdere ruolo e visibilità nella comunità locale; timore dei cittadini che venga meno il rapporto diretto e ravvicinato con il Sindaco; timore del venir meno dei servizi di prossimità; cambiamento dell'organizzazione e delle abitudini di lavoro dei dipendenti; differenze rilevanti fra le situazioni finanziarie e le politiche di bilancio dei Comuni.
Ciò detto e ad avviso di chi scrive, la fusione di Comuni è un processo complesso, difficile ma non impossibile da praticare, almeno ad esaminare le differenti esperienze di fusione positivamente conclusesi nel nostro Paese; processo che deve in primis vedere protagonisti gli amministratori locali, impegnati favorevolmente a favore della fusione e a cascata i cittadini e le realtà associative dei territori interessati, animati tutti da una nuova vision nei confronti delle istituzioni d'origine che consenta di superare le consuete e consunte modalità con cui finora si sono governate le comunità di riferimento, a favore di un progetto di più ampio respiro che punta sulla capacità endogena di più realtà, unite dalla voglia di autodeterminarsi, in nome d'idee nuove che scaturiscono dalle migliori intelligenze che ogni zona geografica possiede.
7. Bibliografia:
AA.VV., Atlante dei Piccoli Comuni, Centro Documentazione e Studi Anci-Ifel, 2014
AA.VV., Fenomeno e forme dell'intercomunalità in Europa tra piccoli comuni, 2011, in http://dspace.learningservices.it/bitstream/123456789/65/1/report_finale_associazionismo
AA.VV., I Comuni italiani 2013, Roma, ANCI, 2013
AIMO P., Stato e poteri locali in Italia dal 1848 ad oggi, Roma, Carocci, 2010
ANNA F., Variazioni territoriali e identità locale, Padova, CEDAM, 2013
ANTONELLI V.. (a cura di), Città, Province, Regioni e Stato. I luoghi delle decisioni condivise, Roma, Donzelli, 2009
BAGNASCO A., BARBAGLI M., CAVALLI A., Corso di sociologia, Bologna, Il Mulino, 2007
BALDI B., XILO G., Dall'Unione alla fusione dei Comuni: le ragioni, le criticità e le forme, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
BARBERA A.C., Corso di diritto pubblico, Bologna, Il Mulino, 2012
BASSANINI F., CASTELLI L. (a cura di), Semplificare l'Italia. Stato, Regioni, enti locali, Firenze,
BASSI N., Le pubbliche amministrazioni e il loro diritto. Elementi di diritto amministrativo sostanziale, Napoli, Edises, 2013
BIAN L.R., Disciplina dell'esercizio associato di funzioni e servizi comunali (Legge regionale 27 aprile 2012, n. 18), in diritto.regione.veneto.it
BIANCO A., La gestione associata tra i Comuni, Bergamo, CEL, 2002
BIANCO A., La gestione associata tra i piccoli Comuni. Dopo la «spending review», Maggioli, Sant'Arcangelo di Romagna, 2012
BILANCIA P. (a cura di), Modelli innovativi di governance territoriale. Profili teorici e applicativi, Milano, Giuffré, 2011
BIN R., PITRUZZELLA G., Diritto costituzionale, Torino, Giappichelli, 2002
BOEUF J.L., MAGNAN M., Les collectivités territoriales et la décentralisation, Paris, La Documentation
BOLGHERINI S., Piccoli comuni, unioni, intercomunalità, Bologna, Il Mulino, 2009
BOLGHERINI S., Unioni di Comuni: tre casi in Emilia-Romagna, in Amministrare Rivista quadrimestrale dell'Istituto per la Scienza dell'Amministrazione pubblica, Bologna, Il Mulino, 2009
BRESSO M., Prefazione, in FERLAINO F., MOLINARI P., Neofederalismo, neoregionalismo e intercomunalità, Bologna, Il Mulino, 2009
CARPINO R., Testo unico degli enti locali commentato, Sant'Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2012
CASETTA E., FRACCHIA F., Manuale di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2013
CASSESE S., Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012
CASTRONOVO M., Associazionismo ed unione di comuni, in cipa.net/bdi
CAVINO M., CONTE L., Il diritto pubblico, Sant'Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2013
CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, Giappichelli, 2012
CHIEPPA R., Codice amministrativo, Milano, Giuffrè, 2010
CLARICH M., Manuale di diritto amministrativo, Bologna, Il Mulino, 2013
COSTA G., GIUBITTA P., Organizzazione aziendale, Milano, McGraw-Hill, 2008
DE MAGISTRIS V., PACI A., La public governance in europa Francia, Roma, Formez
DI PANCRAZIO G., POLITI F., Lineamenti di diritto regionale e degli enti locali, Torino, Giappichelli, 2013
ENCICLOPEDIA TRECCANI, in treccani.it/enciclopedia/perequazione
ERMINI B., SALVUCCI E., L'associazionismo intercomunale. L'esperienza delle Unioni di comuni in Italia e nelle Marche, IN FIORILLO F. E ROBOTTI L. (a cura di), L'Unione di comuni. Teoria economica ed esperienze concrete, Milano, Franco Angeli, 2006
FALCON G., BIN R., Diritto regionale, Bologna, Il Mulino, 2012
FILIPPINI R., MAGLIERI A., Le forme associative tra enti locali nella recente legislazione regionale: verso la creazione di differenti modelli ordinamentali, 2008, in regione.emilia-romagna.it/affari_ist/rivista_3-4_2008/341-375%20filippini% 20maglieri.pdf
FIORILLO F., ROBOTTI L., L'Unione di comuni. Teoria economica ed esperienze concrete, Milano, Franco Angeli, 2006
FORMICONI D., Comuni, insieme, più forti!, Rimini, EDK Editore, 2007
FORTUNATO A., Variazioni territoriali e identità locale, Padova, CEDAM, 2013
FRANCESCO FORTE, Le Unioni e fusioni di Comuni per il futuro della grande Napoli, ora ente territoriale attraverso la città metropolitana, 2014, in file:///C:/Users/Luigi/Downloads/Unione-fusione_comuni.pdf
FRASCHINI A., OSCULATI F., L'Unione di Comuni come autorità fiscale unitaria, in Amministrare Rivista quadrimestrale dell'Istituto per la Scienza dell'Amministrazione pubblica, Bologna, Il Mulino, 2009
FRIERI F.R., GALLO L., MORDENTI M., Le Unioni di comuni, Sant'Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2012
GALLINO L., Dizionario di Sociologia, Torino, UTET, 1978
GIANI M., Forme innovative di integrazione tra enti Locali, Milano, Guerini Studio, 2003
GIANNINI M.S., Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1965, vol. I
GRAS G., La gestione degli enti locali, Roma, Chinaski, 2013
IGLESIAS D.S., La reforma del mapa local español a debate: la fusión de Municipios, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
LE GALÈS P. (a cura di), Gouvernement et governance des territoires, Paris, La Documentation francaise, 2006
LOIACONO L., GRIGLIO L., JACHIMOWICZ K., Fenomeno e forme dell'intercomunalità in Europa tra piccoli comuni, Sspal Luiss, 2011
LOUVIN R., Fusioni comunali e gestione associata: diversità di percorsi tra Italia e Svizzera, 2012, in www.issirfa.cnr.it
LUCHENA G., Gli enti della intercomunalità. Le unioni di comuni. Studi sulla cooperazione fra enti locali per la gestione associata delle funzioni comunali, Bari, Cacucci, 2012
MAGLIERI A., La Valle del Samoggia verso la fusione, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
MAGNAGHI A., Il progetto locale, Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010
MANGIAMELI S., La questione locale, Roma, Donzelli, 2009
MARCOU G., La riforme de Vintercommunalité après la hi Chévènement: quelles perspectives pour les agglomérations urbaines?, in “Actualité juridique Droit administratif”, n. 3, 2002
MAROTTA G., PASTENA E., Le città metropolitane, Padova, CEDAM, 2013
MASCIOCCHI G., Diritto regionale e degli enti locali, Torino, Giappichelli, 2012
MASTROPASQUA S., Profili essenziali dell'ordinamento regionale e locale, Roma, Aracne, 2012
MELE E., Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, 2013
MESSINA P., L'associazionismo intercomunale. Politiche e interventi delle regioni italiane. Il caso del Veneto, Padova, Cleup, 2009
MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, Libro verde sulla spesa pubblica, Roma, 2007
MORDENTI M. - MONEA P., Le unioni di Comuni, dall'Unità d'Italia alla manovra di ferragosto, in Lexitalia.it, settembre, 2011
OGGERO C., Le Unioni di comuni montani in Piemonte: opportunità o minaccia? in dislivelli.eu/blog/le-unioni-di-comuni-montani-in-piemonte-opportunita- o- minaccia.html
PALERMO F., WOELK J., Il riordino territoriale dei Comuni in Germania, in Amministrare, 3, 2001
PICCHIERI A., Sociologia dell'organizzazione, Bari, Laterza, 2011
PIRANI A., Le fusioni di Comuni: dal livello nazionale all'esperienza dell'Emilia-Romagna, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
PIZZETTI F., POGGI A., Il sistema «instabile» delle autonomie locali, Torino, Giappichelli, 2007
PIZZETTI F., RUGHETTI A. (a cura di), Il nuovo sistema degli enti territoriali dopo le recenti riforme, Sant'Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2012
POETA D., Il nuovo testo unico degli enti locali. Con annotazioni e rimandi giurisprudenziali, Matelica, Nuova Giuridica, 2013
POLITI F., Dall'Unione alla fusione dei Comuni: il quadro giuridico, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
POLITI F., Diritto Pubblico, Torino, Giappichelli, 2013
REMOND B., De la démocratie locale en Europe, Paris, Presses de Sciences PO, 2001
RUBINO F., Le Unioni di comuni nella dottrina e negli studi empirici, Sant'Arcangelo di Romagna, 2012
SERGIO L., Enti locali e forme associative: l'Unione di comuni tra norme ed utopia, Galatina, Congedo, 2006
SERGIO L., Le Unioni di comuni fra attuazione e prospettiva di riforma, Lecce, Manni, 2012
SERGIO L., Organizzazione e politiche di cambiamento nella gestione degli enti locali, Galatina, Congedo, 2007
SERGIO L., SERGIO S., Diritto degli enti locali. Revisione della spesa pubblica e riforma delle autonomie locali territoriali, Lecce, Manni, 2014
SERGIO L., Società dell'informazione e politiche di cambiamento organizzativo nelle pubblica amministrazione, in MANCARELLA M. (a cura di), Profili negoziali e organizzativi dell'amministrazione digitale, Trento, Tangram, 2009
SPALLA F., L'accorpamento degli enti locali di base. Indagine comparativa europea e prospettive per il caso italiano, in “II Nuovo governo locale”, n. 2, 1998
SPALLA F., L'accorpamento dei comuni in Europa e la controtendenza italiana, in “Amministrare”, n.1-2, 2006
SCOZZESE S. (a cura di), Il nuovo libro dei Comuni, IFEL, Fondazione ANCI, 2012.
STADERINI F., CARETT I P., MILAZZO P., Diritto degli enti locali, Padova, CEDAM, 2011
STADERINI F., Diritto degli enti locali, Padova, CEDAM, 2009
TOMEI R., Le modifiche territoriali, fusioni ed istituzioni di Comuni, in DE MARZO G., TOMEI R., Commentario al nuovo T.U. degli enti locali, Padova, Cedam, 2002
TUBERTINI C., Le forme associative e di cooperazione tra i principi di autonomia e di adeguatezza, in Le istituzioni del federalismo, n. 2/2000
VANDELLI L. (a cura di), Le forme associative tra enti territoriali, Milano, Giuffrè, 1992
VANDELLI L., Città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni, Sant'Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2014
VANDELLI L., Il governo locale, II Mulino, Bologna, 2000
VENTURA F., FRANCESCA RAVAIOLI F., La prospettiva tecnica degli studi di fattibilità: note metodologiche, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
VIGATO E., La fusione di Comuni. Evoluzione legislativa nazionale e regionale, 12 febbraio 2013, pubblicato su Il Diritto della Regione. Il giornale giuridico della Regione del Veneto, in diritto.regione.veneto.it.
XILO G., Lo studio di fattibilità nel processo di fusione, in Istituzioni del Federalismo, Rivista di studi giuridici e politici, Q.1 2012, anno XXXIII
ZANOBINI G., Corso di diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 1955
8. Sitografia.
agid.gov.it
altalex.it
anticorruzione.it
appsforitaly.org
appsforitaly.org
aranagenzia.it
archivio.digitpa.gov.it
artinnovation.forumpa.it.
Data: 08/12/2014 16:00:00Autore: Luigino Sergio