Niente addebito della separazione se il maltrattamento è “una tantum”
di Marina Crisafi - Se il maltrattamento del coniuge da parte dell'altro non è reiterato, non può considerarsi motivo fondante dell'impossibilità della prosecuzione della convivenza e dunque dar luogo ad addebito della separazione.
È quanto ha deciso la Corte d'Appello di Taranto con la recente sentenza n. 109/2015 (qui sotto allegata), rigettando il ricorso di una donna che chiedeva l'addebito della separazione all'ex marito oltre al mantenimento per lei stessa e il figlio minore.
Il tribunale, in primo grado, aveva rigettato le doglianze della donna - la quale lamentava che il marito l'aveva sempre “denigrata ed ingiuriata” arrivando anche a procurarle lesioni per poi andarsene da casa e lasciarla priva di assistenza morale e materiale – decidendo invece per la separazione per “ragioni oggettive” e disponendo comunque un assegno di mantenimento pari a 650 euro (oltre all'assegnazione della casa coniugale).
La donna proponeva, quindi, appello, ma la corte territoriale rifacendosi alla consolidata giurisprudenza della Cassazione sul tema, secondo la quale “la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla mera esistenza di violazione dei doveri – posti a carico dei coniugi dall'art. 143 c.c. - essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia rivestito sicura efficacia causale nel determinarsi dell'intolleranza della convivenza” ha affermato che “non può attribuirsi esclusiva, o quantomeno importantissima, rilevanza, ai maltrattamenti subiti nel periodo del matrimonio quale causa determinante del relativo fallimento”.
Invero, ha proseguito la Corte, l'episodio del litigio lamentato dalla donna, anche se spiacevole, con il prodursi di lievissime contusioni in danno della stessa, “non può ragionevolmente rivestire valore di causa fondante l'impossibilità di prosecuzione della convivenza, essendo mancata in toto l'allegazione e dimostrazione di eventuali reiterati ed abituali comportamenti violenti o prevaricatori” dell'ex marito.
Né può valere a comprovare le doglianze della donna, l'esistenza di una pronuncia di condanna penale di primo grado in danno dell'uomo, “conoscendosi della stessa il solo dispositivo e non trattandosi di giudicato”.
Né infine può darsi rilievo alla testimonianza del figlio rapportata esclusivamente al suddetto litigio e “assolutamente generica e priva di qualsivoglia riferimento temporale in relazione a ‘maltrattamenti' assuntivamente posti in essere dal padre”.
Per cui, ha concluso la Corte, non può che essere condiviso il convincimento del collegio di prima istanza in ordine alla mancanza di addebitabilità al marito della dissoluzione del rapporto matrimoniale, con condanna alle spese della ricorrente.
Data: 27/07/2015 11:00:00
Autore: Marina Crisafi