Cassazione: costringere moglie e figli a mendicare è reato
Il delitto ex art. 600 c.p. si ravvisa se il genitore abusa della propria autorità disponendo dei figli come cosa propria in condizione di sfruttamento
di Lucia Izzo - Costringere moglie e figli a prestazioni lavorative o sessuali, ovvero all'accattonaggio o, comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, integra il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù previsto dall'art. 600 del codice penale.
Il reato può configurarsi tra genitori e figli, se con abuso di autorità i primi sfruttano i minori disponendone come "cosa" propria.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, nella sentenza n. 15632/2016 (qui sotto allegata) rigettando il ricorso di un uomo, condannato per il delitto di riduzione in schiavitù nei confronti di moglie e figli.
La Corte ha affrontato la disamina puntualizzando i contorni del reato ex art. 600 c.p., precisandone i confini rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia.
Il reato previsto dall'art. 600 c.p., chiariscono gli Ermellini, integra una tipica fattispecie delittuosa multipla, per la cui configurazione occorre o l'esercizio di poteri di signoria su una persona, corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, così che la persona sia ridotta a mera res, oggetto di scambio commerciale, oppure la riduzione o il mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all'accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.
Inoltre, come evidenzia la norma, la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata da chi ha un'autorità sulla persona attraverso violenze, minacce, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi.
Tali comportamenti devo essere idonei a indurre quello stato di soggezione rilevante ai fini della sussistenza del reato in questione, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale.
Inoltre, aggiunge la Corte, nel caso di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, si configura un reato di evento a forma vincolata in cui l'evento, consistente nello stato di soggezione continuata finalizzata a costringere la vittima a svolgere determinate prestazioni, può essere ottenuto dall'agente, alternativamente o congiuntamente, attraverso i comportamenti dapprima elencati.
Ne deriva che, perché sussista la costrizione a una delle condotte specificamente previste dall'art. 600 c.p., comma 1, nei confronti di un soggetto che si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica, ovvero in una situazione di necessità, è sufficiente l'approfittamento da parte dell'autore di una tale situazione, laddove l'uso della violenza o minaccia, dell'inganno o dell'abuso di autorità, può accompagnarsi o meno al suddetto approfittamento di cui rappresenta il sintomo più evidente, mentre assume il connotato di modalità necessaria della condotta finalizzata alla riduzione o al mantenimento dello stato di soggezione solo nei confronti di colui che non si trovi in una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità.
Qualora oggetto del delitto sia un minore il reato previsto da tale articolo, ravvisandosi a carico di chiunque, ben può configurarsi anche a carico dei genitori che abusino della propria autorità disponendo dello stesso minore come cosa propria.
Anzi, il concetto di abuso di autorità riconduce, tra gli altri, proprio ai genitori poiché, secondo la giurisprudenza, tale abuso presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico.
Pertanto, nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, la fattispecie non può ritenersi quella dell'art. 572 c.p. in luogo di quella di cui all'art. 600 del codice penale.
Infatti, le condotte legalmente predeterminate che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia che può invece ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore a fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali.
Pertanto, correttamente la Corte di Assise di Appello ha ritenuto la sussistenza dell'ascritto reato, basandosi sulle dichiarazioni della parte offesa, di cui è stata fornita consistente giustificazione della relativa credibilità, e come confermato da quanto dichiarato dai vicini di casa, dagli agenti operanti, dalle ripetute certificazioni mediche e dalle segnalazioni scolastiche dei minori che avevano portato al loro allontanamento dal nucleo familiare.
Autore: Lucia Izzo