Cassazione: il rifiuto del lavoratore di trasferirsi equivale alle dimissioni
Avv. Riccardo Carlone – La Cassazione, in due recenti pronunce – la Cass. Civ., Sez. Lav., 15.3.2016, n. 5056 e la Cass. Civ., Sez. Lav., 31.03.2015 n. 6225 - è tornata ad affrontare la tematica vertente sulle conseguenze connesse all'inottemperanza del lavoratore all'ordine disposto dal datore di lavoro di modifica del luogo di adempimento della prestazione lavorativa ("trasferimento").
Le due sentenze si differenziano in termini di conseguenze specifiche ma partono dal medesimo presupposto principio secondo il quale la determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa datoriale e incontra un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore (cfr. tra le più recenti Cass. Civ. n. 23110 del 2010) giungendo, la Cass. Civ., Sez. Lav., 15.3.2016, n. 5056, ad affermare la legittimità del licenziamento disciplinare del lavoratore sottrattosi alla direttiva di tornare a prestare l'attività lavorativa presso i locali aziendali anziché presso il proprio domicilio, nonostante la precedente decisione di disporre il cd. "lavoro a domicilio" fosse stata presa dal datore nell'ambito di proprie esigenze produttive ed organizzative, in quanto non sarebbe possibile ravvisare un'autonoma unità produttiva presso il domicilio del dipendente, ove al massimo è possibile rinvenire una cd. "dipendenza aziendale" rilevante ai fini di cui all'art. 413 c.p.c.
Ancor più interessante la Cass. Civ., Sez. Lav., 31.03.2015 n. 6225, in quanto investe la problematica particolarmente dibattuta (e mai, in verità, definitivamente risolta) delle cd. "dimissioni orali" o "dimissioni tacite" o "dimissioni per fatti concludenti" del lavoratore affermando come il diniego del lavoratore di trasferirsi presso altra struttura lavorativa equivale all'ipotesi di dimissioni volontarie dal posto di lavoro.
Anche in questo caso la S.C. parte dalla presupposta accertata legittimità del trasferimento - risultato giustificato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, così come richiesto dall'art. 13, L. 300/1970 – in una fattispecie nella quale il lavoratore si è poi rifiutato di assumere servizio presso la nuova sede, giungendo alla conclusione che ciò sarebbe indicativo della manifestata (tacita, aggiungiamo noi) volontà del lavoratore di non voler più fornire la propria prestazione lavorativa.
Il passaggio motivo rilevante di tale statuizione, però, risiede nella circostanza che tale rifiuto escluderebbe qualsivoglia ipotesi di licenziamento orale implicando le dimissioni del dipendente stante una condotta tale da risultare equiparabile ad un atto di recesso dal contratto di lavoro.
Questo in quanto, secondo la S.C. "E' consolidato l'orientamento, per il quale, nell'ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni), si impone un'indagine accurata da parte del Giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie (cfr., fra le altre, Cass. 20 maggio 2005, n. 10651)" che, nella fattispecie in esame, sarebbero indicative della volontà di non voler più garantire la prestazione lavorativa.
Va però sottolineato come la ricostruzione in ultimo data sarebbe interessante e conforme ai precedenti orientamenti ove si fosse limitata ad affermare l'esclusione, in determinate condotte datoriali, dei requisiti richiesti affinchè si rinvenga il "licenziamento orale", mentre si pone in aperto contrasto nei passaggi successivi con il principio secondo il quale il datore di lavoro non può presumere, dal comportamento del dipendente assente per più giorni dal posto di lavoro, la sua volontà di dimettersi.
Infatti è stato sinora pacificamente affermato (tra le tante la più recente Cass. Civ. sez. Lav. sent. 21.01.2015, n. 1025) che, in caso di prolungata assenza del lavoratore, e quindi di suo rifiuto a prestare l'attività lavorativa, il datore non può procedere alla risoluzione del contratto di lavoro ritenendo il prestatore dimissionario, ma deve provvedere sempre e comunque ad attivare il procedimento disciplinare che potrà portare, questa volta legittimamente, al licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata (ossia per "giustificato motivo soggettivo" o "giusta causa", a seconda della gravità dei fatti).
Risultato: prima dell'espulsione è necessario procedere all'iter previsto dallo statuto dei lavoratori, con l'applicazione di tutte le garanzie in favore del lavoratore, ivi compresa la contestazione scritta e la comunicazione di licenziamento anch'essa scritta. Diversamente, il provvedimento è illegittimo.
Questo perché, sempre secondo la pronuncia in ultimo annotata, il datore non può rinvenire nell'assenza del lavoratore e nel suo rifiuto a svolgere la prestazione un caso di "dimissioni per fatti concludenti" prevedendo, la normativa, solo due forme di recesso dal contratto di lavoro: il licenziamento da parte del datore, anche di tipo disciplinare; le dimissioni dietro espressa volontà del lavoratore.
Non essendo possibile introdurre, nel nostro diritto del lavoro, un terzo genere di cessazione del rapporto, ossia per "fatti concludenti".
Considerandosi come la Cass. Civ., Sez. Lav., 31.03.2015 n. 6225 rinvii alla Corte di Appello la decisione, con applicazione dei principi di diritto in essa disposti, sarà ora interessante annotare come la Corte territoriale riuscirà ad uniformarsi a tali disposti dettami, soprattutto relativi alla distribuzione dell'onere probatorio tipico della disciplina delimitante i licenziamenti, senza incorrere in contrasto con l'orientamento precedente.
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Data: 23/04/2016 12:00:00Autore: Avv. Riccardo Carlone