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Telefonate private sul posto di lavoro? Può scattare il peculato

La Cassazione n. 3883/2002 ha chiarito che le chiamate dal posto di lavoro se non sono giustificate, in via eccezionale, da rilevanti e contingenti esigenze personali, integrano il reato di peculato comune


Spesso le telefonate dal posto di lavoro non hanno un contenuto proprio professionale, anzi!
E così, capita spesso che uno strumento di lavoro come quello del telefono, si trasformi di fatto in un mezzo per soddisfare esigenze del tutto personali.
La Sezione Penale della Corte di Cassazione, chiamata a intervenire sul tema, ha così stabilito (sent. 3883/2002) che l'utilizzazione dell'utenza telefonica del posto di lavoro (nel caso specifico di una P.A.) per effettuare lunghe e ripetute chiamate d'interesse personale, se non sono giustificate, in via eccezionale, da rilevanti e contingenti esigenze personali, integra il reato di peculato comune, ossia quel reato previsto e punito dall'art. 314 co. n. 1 del codice penale.
La Corte ha voluto anche precisare che nella fattispecie non può configurarsi l'ipotesi meno grave (peculato d'uso) prevista dal secondo comma del menzionato articolo.
Nella parte motiva i Giudici della Corte, evidenziano come il fatto lesivo integrato dalla condotta dell'imputato si è sostanziata non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell'appropriazione che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche.
L'inquadramento della fattispecie nel comma 1 dell'art. 314 c.p. è giustificata dal fatto che tali energie non sono immediatamente restituibili dopo l'uso. Infatti, anche un eventuale rimborso di somme non potrebbe che valere come risarcimento per il danno arrecato.

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Corte di cassazione Sezione VI penale
Sentenza 14 novembre 2001-1° febbraio 2002 n. 3883

Fatto e diritto
La Corte d'Appello di Salerno, con sentenza 9/11/'00, riformando in parte quella in data l4/x/'98 del GUP del Tribunale di Sala Consilina che, all'esito del rito abbreviato, aveva dichiarato XXYY colpevole del reato di cui al Tart. 314/2° c.p., attenuato ex articoli 62-bis e 62 n. 6 del codice penale, concedeva all'imputato anche l'attenuante della speciale tenuità del danno (art. 62 n. 4 e 7) e riduceva la pena principale, già condizionalmente sospesa, a mesi due e giorni dieci di reclusione, ferma restando la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Al XXYY, in particolare, si era addebitato di avere ripetutamente fatto uso, per ragioni personali e private, tra il maggio e il giugno 1995, dell'utenza telefonica installata presso il Comune di Teggiano, della quale, in quanto consigliere comunale, aveva la disponibilità.

Ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione il prevenuto e ha lamentato la violazione degli impedimenti del difensore. Detta istanza, infatti, è supportata da una documentazione giustificativa generica e non è stata comunicata tempestivamente, ma solo in data 5 novembre u.s.

Il ricorso, in quanto manifestamente infondato, va dichiarato inammissibile.

Non ha pregio il motivo aggiunto di cui alla memoria 21/5/2001.

II richiamo che in questa si è fatto al recente precedente di questa Corte (sentenza n. 554 del 20/4/01, P.M. c. Trevisano) è fuori luogo, perché la soluzione in quel caso adottata, in quanto coerente con una certa ricostruzione fattuale, non può essere, per così dire, «estesa» al caso in esame, per ritenere l'irrilevanza penale dello stesso.

Quel precedente giurisprudenziale va, anzi, tenuto presente per qualificare più correttamente, sub specie iuris, la condotta ascritta all'imputato.

Posto che questa è consistita nell'utilizzazione dell'utenza telefonica del Comune di Teggiano, per lunghe e ripetute conversazioni personali dal contenuto erotico-sentimentale va precisato che, in questo caso, si è verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, atteso che l'art. 624/2 c.p. dispone che "agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l'energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico".

Se, quindi, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell'ufficio o di servizio, dell'utenza telefonica intestata alla P.A., la utilizza per effettuare chiamate d'interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell'uso dell'apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell'appropriazione che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche.

Ciò porta a inquadrare l'ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al primo comma dell'art. 314 c.p., considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l'uso, le energie utilizzate (e lo stesso eventuale rimborso delle somme corrispondenti all'entità dell'utilizzo non potrebbe che valere come ristoro del danno arrecato).

Nel caso specifico, a differenza dell'episodio oggetto della decisione di questa Corte richiamata nella memoria difensiva, non ricorrono, avuto riguardo al tenore delle conversazioni, quelle «rilevanti e contingenti esigenze personali» che, in via eccezionale, potrebbero giustificare l'utilizzo della linea telefonica di una pubblica amministrazione.

Nessun riflesso sul trattamento sanzionatorio, difettando il gravame del P.M.

La Corte di merito ha, poi, dato conto, con motivazione adeguata e immune da vizi logici, delle ragioni che l'hanno indotta a non accordare la sollecitata attenuante di cui all'ari. 323-bis c.p. e la sostituzione della pena detentiva: si è fatto leva su argomenti non meramente formali e tautologici, ma indicativi della particolare gravita del fatto e della negativa personalità dell'agente, apprezzamenti questi che, implicando una valutazione fattuale, non possono essere contestati in questa sede, anche perché sono in linea con la ratio delle norme di legge denunciate.

Consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e della sanzione pecuniaria di L. 1.000.000 (ritenuta congrua) alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Qualificato il fatto come peculato di cui al primo comma dell'art. 314 c.p.,

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di L 1.000.000 in favore della cassa delle ammende. Data: 30/05/2002
Autore: Cristina Matricardi