Riforma previdenziale forense in vigore dal 2025  Redazione - 04/10/24  |  Il ruolo degli avvocati nell'era dell'intelligenza artificiale: opportunità o minaccia? Roberto Cataldi - 30/09/24  |  La scienza smascherata United Lawyers for Freedom - ALI Avvocati Liberi - 21/06/23  |  Compiti a casa: i docenti devono usare il registro elettronico  Redazione - 12/04/23  |  Annullate multe over50: la prima sentenza United Lawyers for Freedom - ALI Avvocati Liberi - 26/03/23  |  

Il rimedio risarcitorio comunitario

Riflessioni sul recepimento dell'obbligo di cui all'art. 13 direttiva n. 82/76/CEE


Avv. Lucia Di Giovine - È notorio che gli Stati membri dell'Unione tendono a recepire in ritardo, ovvero in modo non corretto, le direttive comunitarie. Questo determina una tardiva efficacia delle norme e l'impossibilità per i cittadini di poterne richiedere l'applicazione immediata, in specie con riferimento alle disposizioni non self executing.

A fronte di tale problema, l'Unione ha previsto due rimedi di controllo anche sanzionatori:

a) il procedimento d'infrazione, disciplinato nei Trattati[1] ed attivabile a discrezione della Commissione, che può terminare con una sentenza della Corte di Giustizia di condanna dello Stato a sanzioni pecuniarie;

b) il principio, elaborato dalla Corte di Lussemburgo, della responsabilità risarcitoria dello Stato per i danni che i suoi organi (legislativi, esecutivi, giudiziari), nell'esercizio delle loro funzioni, arrecano ai singoli quando violano il diritto dell'Unione [2].

Con il primo rimedio è la stessa Commissione ad effettuare un controllo diretto sull'operato degli Stati. Con il secondo, il controllo è attribuito ai cittadini, che lo esercitano di fronte alle giurisdizioni interne, attivandolo quale ultima soluzione a provvedimenti o comportamenti lesivi dei diritti loro attribuiti[3], qualunque sia l'organo che abbia commesso la violazione, per qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario ed indipendentemente dall'efficacia diretta o meno della norma violata, come accaduto in Italia per omessa/non corretta/tardiva trasposizione dell'obbligo di corrispondere un'"adeguata remunerazione" ai medici iscritti ai corsi di specializzazione, introdotto dall'art. 13 della direttiva n.82/76/CEE.

Per garantire una libera circolazione dei professionisti medici nel mercato comune, la Comunità era intervenuta ad uniformare negli Stati membri i corsi di laurea e di specializzazione con due direttive: la n. 75/362/CEE, c.d. "direttiva riconoscimento", e la n. 75/363/CEE, c.d. "direttiva coordinamento", successivamente modificate dalla direttiva n. 82/76/CEE, con cui si stabiliva l'obbligo di attribuire ai medici in formazione specialistica un'"adeguata remunerazione", da recepire entro il termine ultimo del 31 dicembre 1982. L'obbligo costituiva presupposto per il reciproco riconoscimento dei titoli specialistici e contropartita al fatto che i medici garantissero la frequenza ai corsi e rinunciassero a procurarsi altrove le risorse economiche di sussistenza. Successivamente, le tre direttive nn. 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE venivano abrogate e trasfuse nel Testo Unico direttiva n. 93/16/CEE, lasciando inalterate le disposizioni sul termine ultimo di recepimento e dell'obbligo di fissare una "adeguata remunerazione". La direttiva n. 93/16/CEE è stata infine abrogata dalla direttiva n. 2005/36/CEE, nella quale, insieme a disposizioni riguardanti altre professioni, sono state trasfuse e riviste quelle previste per i medici specializzandi, con termine ultimo di recepimento fissato al 20 ottobre 2007. Anche questa direttiva ha mantenuto l'obbligo di retribuire adeguatamente i medici in formazione specialistica.

Le tre direttive 75/362/CEE, 75/363/CEE e 82/76/CEE venivano recepite dal Governo italiano con D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 257 e solo dopo condanna della Corte di Giustizia (7 luglio 1987, Commissione/Italia, causa C-49/86) che accertava l'inadempimento. L'art. 6 del decreto attribuiva agli specializzandi una "borsa di studio" annuale di 21 milioni e 500 mila lire, da rivalutarsi annualmente (sulla base del tasso programmato d'inflazione) ed ogni tre anni (sulla base del miglioramento stipendiale previsto dai contratti collettivi dei medici dipendenti dal SSN), altresì limitandone l'applicazione ai soli medici iscritti alle scuole di specializzazione a far tempo dall'anno accademico 1991/1992. L'importo veniva rivalutato solo una volta nel 1993, per poi restare invariato sino all'anno 2005 per via del blocco dell'indicizzazione, e non veniva applicata la rideterminazione triennale, sul presupposto che la borsa di studio non costituisse "stipendio" (sebbene la Corte Costituzionale avesse riconosciuto la legittimità e l'operatività della misura nella sentenza n. 432/1997). Infine, la limitazione soggettiva apriva un vasto contenzioso con i medici iscritti ai corsi negli anni precedenti, che chiedevano l'applicazione retroattiva del provvedimento sin dal termine di recepimento. Lo Stato Italiano interveniva per questi medici con l'art. 11 della legge 19 ottobre 1999 n. 370, stabilendo la liquidazione di un importo forfettario, altresì limitandone l'applicazione ai soli medici che avessero esperito vittoriosamente ricorso al TAR.

Sul punto intervenivano le sentenze Carbonari[4] e Gozza[5] della Corte di Giustizia, con cui venivano fissati dei principi basilari, da considerarsi incorporati nelle norme di riferimento e valevoli erga omnes per analoghi casi anteriori o successivi: a) l'obbligo di retribuire i periodi di formazione specialistica medica è incondizionato e sufficientemente preciso da essere azionato davanti alle giurisdizioni nazionali[6]; b) sebbene la direttiva non contenga alcuna definizione della nozione comunitaria di "adeguata remunerazione", né i criteri di sua quantificazione, lasciati alla competenza degli Stati membri, rimane l'obbligo per lo Stato di conseguire l'effetto utile fissato e, per il giudice nazionale, l'obbligo di interpretare il diritto interno in modo conforme al diritto comunitario, per realizzare le posizioni giuridiche soggettive garantite dalla direttiva; c) qualora tale interpretazione conforme non sia possibile, a carico dello Stato inadempiente sorge in via residuale l'obbligo di risarcire il danno causato ai singoli, purché siano accertate le condizioni già previste nelle sentenze Francovich e Bonifaci, e Dillenkofer e a.; d) l'applicazione retroattiva e completa delle misure adottate in attuazione di una direttiva, a condizione che la direttiva stessa sia stata correttamente recepita, costituisce misura sufficiente a garantire un adeguato risarcimento per non aver goduto dei vantaggi pecuniari dalla stessa garantiti, salva la possibilità di provare ulteriori danni. L'ammontare della riparazione sarà poi determinato in base alle norme interne sulla responsabilità[7].

Successivamente, in recepimento della direttiva n. 93/16/CEE, lo Stato emanava il D.Lgs. 17 agosto 1999 n.368, con cui fissava nuovi criteri per la determinazione dell' "adeguata remunerazione", ma rimandandone la quantificazione e l'attribuzione ad un apposito provvedimento legislativo, in attesa del quale dovevano ancora trovare applicazione le disposizioni di cui all'art. 6 del D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 257, poi prorogate sino all'anno accademico 2005/2006 con D.Lgs. n.517 del 21 dicembre 1999.

Con il comma 300 dell'art.1 legge 23 dicembre 2005 n.266 (legge finanziaria 2006) venivano modificati gli articoli 37, 39, 41, 46 del D.Lgs. 17 agosto 1999 n.368, rinviando all'emanazione di Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (e non più ad un provvedimento legislativo) sia la definizione del modello di contratto di "formazione specialistica", sia la quantificazione dell'"adeguata remunerazione", sia la definizione della copertura finanziaria, stabilendo che l'applicazione delle misure di cui all'art. 39, commi 3 e 4-bis, dovesse decorrere dall'anno accademico 2006/2007 e che per gli anni precedenti dovessero ancora applicarsi le disposizioni di cui all'art. 6 D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257.

Questo tormentato iter legislativo vedeva una soluzione solo con i D.P.C.M del 7 marzo, del 6 luglio e del 2 novembre 2007, con i quali lo Stato Italiano finalmente completava, sotto il profilo sostanziale e non più meramente formale, l'iter normativo per l'attuazione del diritto ad una "adeguata remunerazione", tuttavia limitandone l'applicazione soggettiva ai soli medici iscritti ai corsi nell'anno accademico 2006/2007, analogamente a quanto previsto con il D.Lgs n.257/1991 nei confronti degli specializzandi iscritti ai corsi prima del 1992. Con ciò aprendosi un nuovo filone di ricorsi, con i quali i medici che avevano usufruito della "borsa di studio" chiedevano l'applicazione retroattiva del provvedimento DPCM 7 marzo 2007, ovvero il risarcimento del danno, posto che dal 2007 alla nozione di "adeguata remunerazione" corrispondeva un importo di euro 25.000,00 per i primi due anni e di euro 26.000,00 per gli anni successivi, a fronte di una "borsa di studio" rimasta fissa negli anni precedenti, dal 1992 al 2006, a circa 11.600,00 euro.

Esclusa l'applicazione retroattiva, in tema di azione risarcitoria intervenivano le Sezioni Unite con sentenza n. 9147 del 17 aprile 2009, nella quale si riconosceva: che il diritto al risarcimento del danno sorge in caso di omessa, non corretta o tardiva trasposizione entro il termine ultimo delle disposizioni di una direttiva, anche in assenza di apposito intervento normativo, che la responsabilità dello Stato va ricondotta allo schema della responsabilità per inadempimento ex lege di natura indennitaria, che il risarcimento ha natura di credito di valore e deve assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, che la pretesa risarcitoria è assoggettata all'ordinario termine prescrizionale decennale. Risolvendosi il precedente controverso inquadramento giurisprudenziale della responsabilità nell'art. 2043 cod.civ. ed il relativo problema della prescrizione.

A questi principi si sono adeguate le Sezioni Semplici, senza che venisse risolto l'ulteriore punto critico del dies a quo della prescrizione, lasciato alle argomentazioni delle Corti di merito ed anche della Cassazione, dimentiche di quanto aveva affermato la Corte di Giustizia con la sentenza Emmot [8], vale a dire che il proprio accertamento della violazione è ininfluente sul dies a quo del termine di prescrizione interno quando la violazione è certa e che, pertanto, fino alla corretta e compiuta trasposizione del diritto comunitario nella legislazione nazionale ogni eccezione di prescrizione dovrebbe essere preclusa. Nel caso dei medici specializzandi, la certezza della violazione per omesso/non corretto recepimento era provata sia dalla sentenza di condanna della Corte di Giustizia (7 luglio 1987, Commissione/Italia, causa C-49/86) sia dal "ravvedimento operoso" promesso dal legislatore con D.Lgs. 17 agosto 1999 n.368 ma attuato solo con il D.P.C.M. 7 marzo 2007. Pertanto, fino a tale data, la prescrizione del rimedio risarcitorio non poteva iniziare a decorrere.

La sentenza Emmot era stata richiamata dalla Corte nella sentenza Iaia[9], per rispondere al quesito se il diritto dell'Unione consenta ad uno Stato membro di eccepire la prescrizione a fronte della domanda di esercizio di un diritto conferito da una direttiva, oppure a fronte della domanda di risarcimento del danno per omessa o non corretta trasposizione della stessa nel termine assegnato. Da un lato, la Corte ha dichiarato compatibile con il diritto dell'Unione, nell'interesse della certezza del diritto, la fissazione di termini di ricorso interni ragionevoli a pena di decadenza, ma solo nella misura in cui il termine non sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio del diritto. Dall'altro, richiamando sentenze successive alla Emmot, la Corte ha precisato di avere anche affermato che l'enunciato principio non può dirsi operante in qualsiasi circostanza, ma solo se lo Stato inadempiente, con il suo comportamento, è stato all'origine della tardività del ricorso per aver prodotto nel ricorrente uno stato d'incertezza, che lo ha privato della facoltà di decidere se e quando esercitare davanti ai giudici nazionali il diritto soggettivo che gli spetta in base alle norme dell'Unione Europea.

Nel caso dei medici specializzandi, che non avevano, o che avevano ricevuto la "borsa di studio", lo stato d'incertezza era stato prodotto dall'attesa sia della corretta quantificazione dell' "adeguata remunerazione", sia del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, dovendosi osservare: che quando è stato emanato il D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 257 si era appena agli albori del riconoscimento a livello comunitario e nazionale del rimedio risarcitorio (atteso che solo con le sentenze "Carbonari" del 25 febbraio 1999 e "Gozza" del 3 ottobre 2000 ne sono emersi i requisiti di sussistenza e che solo con la sentenza SS.UU. 17 aprile 2009 ne sono stati riconosciuti principi e regole, anche senza intervento del legislatore); che l'adempimento parziale, incompleto o infedele di una direttiva (come avvenuto con il D.Lgs 257/1991 e con la legge n. 370 del 19 ottobre 1999) non può mutare la situazione di inadempienza dello Stato membro, derivandone che la permanente violazione del diritto comunitario perpetua l'obbligo risarcitorio "de die in diem"; che con il D.Lgs. 17 agosto 1999 n.368 il legislatore aveva manifestato l'intenzione di procedere ad una corretta quantificazione dell'obbligo, anche se rinviato ad un incerto futuro, e che, quindi, anche i medici rimasti esclusi dalla legge n. 370 del 19 ottobre 1999 non potevano avere ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato atti di adempimento anche nei loro confronti; che è la stessa formulazione letterale dell'art. 2935 cod.civ. a fissare il termine iniziale di decorrenza della prescrizione nel giorno in cui il diritto PUO' essere fatto valere, con riferimento all'azionabilità concreta del rimedio risarcitorio, cioè solo dalla piena conoscibilità del corretto adempimento dell'obbligo anche nel quantum (posto che, in sua assenza, il danneggiato è privo di un parametro di riferimento circa la valutazione delle differenze cui può aver diritto) e che, pertanto, il danno subito è divenuto apprezzabile solo con la pubblicazione del D.P.C.M. 7 marzo 2007 e che solo da tale data è cessato l'inadempimento dello Stato e la prescrizione ha iniziato a decorrere.

In risposta alla sentenza delle Sezioni Unite, il nostro legislatore si è premurato di introdurre una prescrizione quinquennale con l'art. 4, comma 43, legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria, pubblicata in G.U. 14 novembre 2011, n. 265): "La prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da mancato recepimento nell'ordinamento dello Stato di direttive o altri provvedimenti obbligatori comunitari soggiace, in ogni caso, alla disciplina di cui all'articolo 2947 del codice civile e decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato". Con argomentate motivazioni, la Cassazione (sentenza 8 febbraio 2012 n. 1850) ha subito dichiarato la norma non applicabile a fattispecie di violazioni pregresse del diritto dell'Unione. Pertanto, essa potrà spiegare effetti soltanto per la prescrizione di diritti insorti successivamente alla sua entrata in vigore (1° gennaio 2012) e, quindi, derivanti da fattispecie di omesso/non corretto/tardivo recepimento verificatesi dopo l'intervento del legislatore. Resta da chiarire cosa significhi "decorre dalla data in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è effettivamente verificato", atteso che con il termine "fatto" dovrebbe intendersi l'inadempimento, che permane fino alla corretta attuazione del diritto dell'Unione e che "un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento"(25 luglio 1991, Emmot, causa C-208/90).

Per quanto riguarda il criterio di liquidazione del danno, va menzionato l'approdo della sentenza n. 8243 del 22 aprile 2015, con cui la Sezione Lavoro della Cassazione, non condividendo la motivazione della Corte d'Appello, con cui si sosteneva che i ricorrenti, avendo percepito la "borsa di studio", non potessero lamentare alcun danno (in quanto la direttiva 93/16/CEE, cui il D.Lgs. n.368 del 1999 dava esecuzione, non prevedeva un obbligo di remunerazione in misura superiore a quanto in precedenza previsto), ha accolto la tesi circa la sussistenza del diritto al risarcimento per ritardata trasposizione della normativa comunitaria "sotto il profilo dell'insufficienza della borsa di studio" percepita ed ha concluso con il seguente principio di diritto "Il danno risarcibile è conseguentemente pari alla differenza fra il trattamento che i ricorrenti avrebbero percepito se la direttiva comunitaria in questione fosse stata attuata immediatamente, e quello effettivamente percepito". A mente della dichiarata natura indennitaria e di valore del risarcimento in questione, la liquidazione dovrebbe avvenire con un'operazione di devalutazione (attualizzazione) monetaria su base annuale delle misure di cui al D.P.C.M. 7 marzo 2007, da calcolarsi per ogni singolo anno di corso frequentato, con detrazione o meno di quanto percepito a titolo di "borsa di studio" e sul risultato applicare la rivalutazione annuale sulla base dell'indice FOI ed interessi compensativi dall'inadempimento sino al saldo (che assolvono ad una funzione di remunerazione per la disponibilità del denaro del quale ha usufruito lo Stato in assenza di corretto adempimento della direttiva entro il termine ultimo).

Avv. Lucia Di Giovine

digiovine.l@tiscali.it


[1] art. 258 TFUE, ex 226 Tr. Nizza, ex 169 Tr. Roma.

[2] Posta la copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia in tema di responsabilità risarcitoria dello Stato, ci si limita a rammentare la sentenza 19 novembre 1991, Francovich e Bonifaci, cause C-6/90 e C-9/90, con cui la Corte ha dato corpo ad un principio, già accennato nelle sentenze 16 dicembre 1960, Humblet c. Stato belga, causa C-6/60 e 22 gennaio 1976, Russo c. Aima, causa C-60/75, destinato ad avere sempre più impatto negli ordinamenti degli Stati membri. Nel caso di specie (omessa trasposizione di una direttiva), la Corte afferma che l'efficacia delle norme comunitarie, e la tutela dei diritti dalle stesse attribuiti ai singoli, sarebbero messe a repentaglio se questi non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento a fronte di violazioni imputabili allo Stato membro, specie quando l'efficacia delle norme sia subordinata ad un obbligo cui lo Stato deve dare contenuto entro un termine stabilito e che, se omesso, impedisce ai cittadini di far valere in via giudiziaria le proprie posizioni giuridiche soggettive. Le condizioni affinché sorga il diritto del cittadino al risarcimento del danno sono: che l'effetto utile prescritto dalla direttiva implichi l'attribuzione di diritti a favore dei singoli; che il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della direttiva; che sussista un nesso di causalità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato ed il danno subito dai soggetti lesi. Nella successiva sentenza 5 marzo 1993, Brasserie du Pecheur SA e Factortame Ltd., cause C-46/93 e C-48/93, avente ad oggetto disposizioni interne incompatibili con il Trattato, la Corte afferma che la responsabilità risarcitoria dello Stato sorge a prescindere dall'organo nazionale (legislativo, esecutivo, giudiziario) che ha prodotto il danno e che la violazione deve essere manifesta e grave. La violazione è sempre da reputare manifesta e grave quando continua nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l'inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l'illegittimità del comportamento in questione. Nella sentenza 8 ottobre 1996, Dillenkofer e a., cause riunite C-178/97, C-179/94 e da C-188/94 a C-190/94, la Corte aggiunge che la violazione manifesta e grave si verifica ipso iure qualora uno Stato non adotti entro il termine assegnato i provvedimenti necessari per raggiungere il risultato, o effetto utile, prescritto da una direttiva.

[3] Per consolidata giurisprudenza, scaduto il termine di recepimento, in caso di disposizioni self executing i cittadini possono chiederne l'applicazione diretta ed il giudice nazionale deve garantirne la piena efficacia, anche disapplicando le norme interne con esse in contrasto, anteriori o successive. Mentre, in caso di disposizioni non self executing, il giudice dovrà procedere ad una interpretazione delle norme interne in senso conforme all'effetto utile della direttiva, ovvero, come estrema ratio, procedere al risarcimento del danno.

[4] 25 febbraio 1999, Carbonari, causa C-131/97.

[5] 3 ottobre 2000, Gozza, causa C-371/97.

[6] Il che significa che la norma, considerata alla luce del suo scopo e del suo contesto, lascia al legislatore un margine molto contenuto di discrezionalità interpretativa ed è per questo azionabile direttamente davanti al Giudice.

[7] Nella sentenza 5 marzo 1993, Brasserie du Pecheur SA e Factortame Ltd., C-46/93 e C-48/93, la Corte aveva stabilito che il quantum del risarcimento deve essere adeguato al danno subito e che, in mancanza di norme comunitarie in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno degli Stati fissare i criteri che consentono di determinarne l'entità, fermo restando che essi non possono essere meno favorevoli di quelli che riguardano reclami o azioni analoghe fondate sul diritto interno (principio di equivalenza) e che non possono in nessun caso essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento (principio di effettività).

[8] 25 luglio 1991, Emmot, causa C-208/90, Finché una direttiva non è stata correttamente trasposta nel diritto nazionale, i singoli non sono in grado di avere piena conoscenza dei loro diritti. Tale situazione d' incertezza per i singoli sussiste anche dopo una sentenza con cui la Corte ha dichiarato che lo Stato membro di cui trattasi non ha soddisfatto gli obblighi che ad esso incombono ai sensi della direttiva, e anche se la Corte ha riconosciuto che l'una o l'altra delle disposizioni della direttiva è sufficientemente precisa ed incondizionata per essere fatta valere dinanzi ad un giudice nazionale. Solo la corretta trasposizione della direttiva porrà fine a tale stato d' incertezza e solo al momento di tale trasposizione si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti. Ne deriva che, fino al momento dell'esatta trasposizione della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le disposizioni di tale direttiva, e che un termine di ricorso di diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento.

[9] 19 maggio 2011, Iaia, causa C-452/09.

Data: 15/05/2016 12:00:00
Autore: Lucia Di Giovine