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Cassazione: chiedere soldi al cliente è reato se c'è il gratuito patrocinio

Oltre al grave illecito professionale è da ritenersi integrato il delitto di truffa aggravata


di Marina Crisafi - È configurabile il delitto di truffa per l'avvocato che omette di informare il proprio cliente degli effetti del gratuito patrocinio facendogli credere di avere un obbligo di corrispondergli i compensi richiesti. Ad affermarlo è la Cassazione, con una recentissima sentenza (la n. 20186/2016 qui sotto allegata), confermando la condanna inflitta dalla Corte d'Appello per il reato di truffa aggravata nei confronti di un avvocato che aveva percepito somme a titolo di compensi dalla persona offesa (difesa in alcuni procedimenti civili) nonostante l'ammissione al gratuito patrocinio.

Gli Ermellini ricordano che l'art. 85 del d.p.r. n. 115/2002 dispone che il difensore, quando il cliente è ammesso al patrocinio gratuito a spese dello Stato, non può chiedere e percepire dallo stesso alcun rimborso, a qualunque titolo esso avvenga.

L'avvocato che viola tale norma si macchia, quindi, di una doppia responsabilità: quella professionale, per il grave illecito consistente nell'omessa informazione al proprio assistito degli effetti derivanti dall'ammissione al gratuito patrocinio nonché dell'eventuale intervenuta revoca del beneficio; quella penale, giacché mancando tale informazione e facendosi corrispondere somme a vario titolo, in costanza di ammissione al beneficio, è configurabile il reato di truffa.

Per la Corte, il professionista ha non solo "maliziosamente taciuto il significato della avvenuta ammissione al patrocinio a spese dello Stato" falsamente rappresentando alla cliente la sussistenza di un obbligo personale (allora inesistente) di pagare le proprie spettanze ma le ha altresì taciuto "la portata degli effetti del mutamento delle di lei condizioni reddituali in rapporto alla pregressa ammissione al beneficio (con l'obbligo a carico di restituire allo Stato quanto dall'erario a lui già anticipato a titolo di onorario)" mascherando artificiosamente il debito del quale l'erario avrebbe preteso l'adempimento "come autonome e distinte spese di inventario, cumulabili con l'onorario". Per cui attraverso tali raggiri, l'uomo ha indotto la donna "in errore sulla natura e la evoluzione del rapporto professionale e sull'importo effettivo degli onorari da lei ancora dovuti, conseguendo un ingiusto vantaggio patrimoniale".

È di tutta evidenza, dunque, come nella contestazione, considerata nella sua interezza, "siano contenuti gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza".

A nulla valgono le giustificazioni del legale che le somme fossero state versate per l'attività stragiudiziale non coperta dal beneficio. Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che "in relazione all'attività stragiudiziale svolta dall'avvocato e non seguita dell'attività giudiziale per la quale il cliente è stato ammesso al beneficio dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, non possono essergli chiesti compensi" (cfr. Cass., S.U., n. 9529/2013).

Data: 19/05/2016 21:10:00
Autore: Marina Crisafi