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Avvocati: la responsabilità inizia dalla consulenza

La recente giurisprudenza della Cassazione sulla responsabilità professionale nella fase stragiudiziale


di Lucia Izzo - Professionisti responsabili già dal momento della semplice consulenza. È questo il postulato su cui si sono soffermate due recentissime sentenze della Corte di Cassazione, che hanno offerto soluzioni interpretative contrastasti sul punto.


Pensando agli avvocati, in effetti, non è solo l'attività svolta in giudizio a poter determinare a suo carico una responsabilità per l'attività prestate, posto che il professionista svolge gran parte di questa anche in via extragiudiziale.
Proprio in questa sede apparentemente "neutra" dell'ufficio del legale, si va a concretizzare quella che, a rigore, rappresenta un momento essenziale della sua attività che dovrebbe portare il cliente ad ottenere soluzioni senza dover adire il giudice, affrontando una causa da cui non necessariamente uscirà vittorioso.

Un campo in cui il legale deve muoversi con prudenza e senza voler a tutti i costi costringere il potenziale cliente a prendere parte a cause perse in partenza solo per assicurarsi il mandato.
Un discorso che può riguardare anche altri professionisti, come ad esempio il commercialista, in quanto l'art. 1176 c.c. impone una diligenza rafforzata nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, da valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.


La Corte di legittimità è andata a valutare proprio l'eventualità che una mancata informazione o la negligenza nell'esprimere tempestivamente il parere richiesto dal cliente possano a questi provocare potenziali danni, ad esempio rendere inesperibili i propri diritti.

In entrambi i casi, le sentenze hanno valutato una fase precedente al giudizio e, in particolare, l'opportunità o meno di intraprenderlo in relazione al comportamento dei professionisti coinvolti (in un caso un avvocato, nell'altro un commercialista): le decisioni prendono il via da situazioni apparentemente consimili, riguardanti il parere chiesto e reso dai professionisti che ha, tuttavia, portato la parte a non poter più esperire l'azione a causa del maturare del termine di prescrizione o decadenza.

L'inosservanza dei termini, in effetti, rappresenta proprio il caso più frequente da cui scaturiscono richieste di responsabilità professionale.
Le due decisioni, pronunciate quasi in contemporanea dalla terza sezione civile, in diverse composizioni, portano a soluzioni opposte.


La sentenza 13007/2016 (qui sotto allegata) origina dal ricorso proposto dal cliente di un commercialista, teso a dichiarare la responsabilità del professionista per mancata impugnazione di una sentenza resa dalla competente CTR.
L'attore, evidenzia di aver consegnato al proprio commercialista l'originale della comunicazione del dispositivo della sentenza, chiedendo indicazioni e chiarimenti in merito, ma il professionista, malgrado le sollecitazioni, non lo aveva né contattato né convocato per illustrargli le iniziative da assumere, tanto che erano decorsi i termini per l'impugnazione della sentenza dinanzi alla Suprema Corte ed era stato costretto a corrispondere oltre 70mila all'amministrazione.

La Corte di appello aveva ritenuto che, anche a voler tenere conto delle deduzioni dell'appellante, il cliente avrebbe affidato al professionista "soltanto l'incarico di una consulenza di carattere tecnico... in via di prima informazione" e che perciò l'incarico non avrebbe avuto ad oggetto il conferimento della difesa dinanzi alla Corte di cassazione.

Per la Corte di merito, "resa o non resa quella consulenza", il cliente, per proporre ricorso, si sarebbe dovuto rivolgere ad un avvocato patrocinante in cassazione mentre il parere tecnico del commercialista non avrebbe avuto incidenza alcuna sulle valutazioni di mero diritto che avrebbe dovuto compiere il legale incaricato dell'impugnazione.


Per gli Ermellini, si tratta di una conclusione non fondata: la responsabilità del dottore commercialista chiariscono i giudici, presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'articolo 1176 c.c., comma 2, e articolo 2236 c.c., tenuto conto della natura e della portata dell'incarico conferito.
Qualora si tratti di attività di consulenza richiesta ad un dottore commercialista, il dovere di diligenza impone, tra gli altri, l'obbligo, non solo di dare tutte le informazioni che siano di utilità per il cliente e che rientrino nell'ambito della competenza del professionista, ma anche, tenuto conto della portata dell'incarico conferito, di individuare le questioni che esulino da detto ambito.

Il professionista incaricato dovrà perciò informare il cliente dei limiti della propria competenza e fornire gli elementi ed i dati comunque nella sua conoscenza per consentire al cliente di prendere proprie autonome determinazioni, eventualmente rivolgendosi ad altro professionista indicato come competente.
La definizione dell'ampiezza di questo dovere di informazione e la valutazione della diligenza richiesta nell'adempimento presuppongono che siano, in concreto, individuati gli esatti termini dell'incarico conferito al dottore commercialista.


Nel caso di specie è obbligo di diligenza connesso all'incarico di consulenza così conferito, quello di informare il cliente non solo delle conseguenze giuridiche o tecnico-contabili che derivano dalla sentenza sfavorevole, ma anche dei rimedi astrattamente esperibili, pur se non praticabili dallo stesso professionista.

Diverso il caso di cui è occupata la sentenza 13008/2016 (qui sotto allegata) con cui gli eredi del defunto, deceduto a seguito di un sinistro stradale, chiedono a carico dell'avvocato il risarcimento del danno stante la non proposizione, da parte di questi, del giudizio risarcitorio a seguito della morte del proprio familiare, lasciando "colpevolmente" che il diritto al risarcimento cadesse in presceizione (per approfondimenti: Avvocati: nessuna responsabilità per chi ha dissuaso il cliente dall'intraprendere una causa persa).

In realtà, dagli atti era emerso che l'avvocato aveva sconsigliato ai familiari del defunto di intraprendere un'azione giudiziaria nei confronti dell'ANAS, in quanto dal rapporto della Polizia stradale era emerso che il sinistro era da ascrivere a colpa del defunto medesimo.

Per gli Ermellini, la decisione circa l'opportunità o meno di promuovere una causa, è una tipica attribuzione tecnica del difensore, il quale ha anzi il dovere di farlo, dissuadendo i clienti dal cominciare le c.d. cause perse. Ne consegue che, una volta affermato che il legale aveva sconsigliato di intraprendere il giudizio risarcitorio, tutte le rimanenti affermazioni diventano irrilevanti, perché non poteva pretendersi da lui che si attivasse per la promozione del giudizio stesso.

Costituisce, dunque, presupposto per la valutazione del comportamento del professionista il rapporto che intrattiene col potenziale cliente, se cioè la sua attività sia conseguente ad uno specifico incarico attribuitogli. Nel caso esaminato, il giudice ha verificato l'assenza del conferimento d'incarico e quindi la possibilità che il professionista fosse in alcun modo responsabile.

La questione del conferimento dell'incarico, messa in risalto dalle due decisioni, può sfumare in presenza dei c.d. "incarichi esplorativi" in quanto spesso l'avvocato svolge l'attività stragiudiziale solo per verificare la possibilità che la causa gli venga affidata, senza instaurare un rapporto professionale e senza neppure percepire compenso.
Secondo quanto previsto dalle sentenze, che hanno incentivato il conferimento di apposito incarico, in tal caso non si instaurerebbe un rapproto professionale e dunque una responsabilità vera e propria.

Questione diversa, invece, laddove l'incarico sia evidentemente affidato, ad esempio se il professionista si riserva di esaminare la questione approfonditamente richiedendo la consegna di tutta la documentazione occorrente, ossia una situazione parificabile a quella della sentenza 13007/2016.
Entrambe le decisioni, infatti, hanno richiamato un precedente della Corte (Cassazione 14 novembre 2002 n. 16023) secondo cui, laddove l'avvocato accetti l'incarico di svolgere attività extragiudiziale formulando apposito parere sull'esperibilità dell'azione, la prestazione non è di mezzi, ma di risultato, poichè costui si obbliga ad offrire al cliente tutti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti idonei per adottare una consapevole decisione circa i rischi e i vantaggi dell'azione da proporre.

I confini sono assai labili, posto che il contratto di patrocinio neppure richiede la forma scritta: può tuttavia, essere d'ausilio in tal caso la disposizione dell'art. 13 della legge forense (n. 247/2012) secondo cui il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale.
Non solo va reso noto al cliente il grado di complessità dell'incarico, ma vanno fornite tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico, indicando altresì i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attività professionale.
Tali disposizioni finalizzate alla determinazione del compenso (ad esempio i preventivo che indica tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi) evidenziano comunque una formalizzazione dell'incarico, giudiziale o stragiudiziale che sia.
Data: 11/07/2016 20:58:00
Autore: Lucia Izzo